Un racconto presentato da Alfred Hitchcock
Pubblicato in Italia nel dicembre 1961 sul giornale "La Domenica del Corriere"
Aries entrò nella botteguccia. Il tintinnio del campanello si mescolò al tic-tac degli orologi appesi un po’ dovunque. La stanza era piccola e in penombra: soltanto in un angolo, la luce di una lampada proiettata su un deschetto rialzato illuminava le mani dell’orologiaio intento ad un delicato lavoro di precisione.
Arles attese pazientemente: l’artigiano depose i suoi arnesi e accese una lampada che illuminò tutto il locale. Poi si tolse dall’occhio la lente, guardò il visitatore con occhi arrossati e chiese:
- In che posso servirla?
- Mi ha mandato Daggett - disse Aries.
Il viso grasso dell’orologiaio rimase impassibile. Pareva che non avesse udito.
- Mi ha detto di darle questo - disse Arles e trasse di tasca un pezzo di cartone e lo mise sul banco.
Senza parlare l’artigiano aprì un cassetto, ne trasse un altro pezzo di cartone e lo avvicinò a quello che Arles gli aveva dato. I due frammenti combaciavano perfettamente. Erano frammenti di uno stesso pezzo.
Sempre senza parlare l’artigiano si alzò pesantemente, andò fino alla porta del negozietto, la chiuse a chiave e si voltò e guardò il visitatore:
- Mi chiami Jaeger - disse - venga con me.
Fece strada attraverso una porta dietro il banco e condusse Arles in un salotto bene ammobiliato.
- Sieda, signor Arles - disse.
- Conosce il mio nome?
- Sì.
Jaeger stava formando un numero al telefono; senza parlare guardava fisso nel vuoto. Qualcuno rispose alla chiamata. Jaeger disse:
- Descrivimi Arles.
Mentre ascoltava la descrizione Jaeger fissava Arles per controllare.
- Alzi la mano, signor Arles - disse - mi faccia vedere l’anello.
Jaeger depose il ricevitore e offri una poltrona ad Arles. Poi mise un disco di Schubert sul grammofono, lo fece suonare a basso volume, sedette a sua volta in una poltrona.
- E adesso parli, signor Arles - disse - non voglio particolari inutili e non voglio nomi. Soltanto l’indirizzo, la descrizione dell’edificio, quello che vuol fare e quando. Niente di più.
Arles trasse di tasca alcune carte:
- Qui c’è la pianta dell’interno della casa. E una fotografia dell’esterno.
- Bel lavoro - disse Jaeger osservando il disegno.
- Sono architetto.
Jaeger lo guardò fisso:
- Lo so.
- L’indirizzo della casa è nella busta. Qui sono le chiavi.
- Ci sono vicini?
- Nessuno. La casa posa su rocce a picco sull’oceano, in un terreno privato. Niente vicini per un miglio.
- E’ abitata?
- Per il momento no.
- Perché non la vende?
- Me l’ha lasciata mio padre un anno fa. Per disposizione testamentaria non la posso vendere.
- Ma può riscuoterne l’assicurazione?
- Sì.
- Una casa di pietra, con tetto di lavagna. E’ orribile. Desidera la distruzione completa?
- Sì, completa.
- C’è l’impianto del gas nella casa?
Arles annuì
- Mi mostri il tracciato delle tubature del gas.
Arles puntò l’indice nella pianta:
- Entra da questo piccolo locale, si dirama verso la cucina sul retro, un altro ramo arriva fino al caminetto nel salone.
- C’è una cantina?
- No, la casa posa su un fondo di cemento.
- Le pareti interne?
- Mattoni o pietre per la maggior parte - disse Arles.
Jaeger lo guardò in faccia:
- Non è un problema facile: bisognerà farla saltare in aria.
- Sì.
- Farla saltare in aria è facile. Simulare un’esplosione accidentale dovuta a fuga di gas è un lavoro da artista.
- E’ per quello che sono qui.
- La mia opera è molto costosa, signor Arles.
- Quanto costosa?
- Cinquemila dollari. In anticipo.
- Duemilacinquecento adesso e il resto a lavoro fatto.
Jaeger fece un piccolo gesto di rifiuto: - Tutti subito - disse - e in contanti.
- Come farà il lavoro? - chiese Arles.
- Prima i quattrini - disse Jaeger.
Si alzò e voltò tranquillamente il disco come se la cosa lo interessasse poco.
Arles mise una mano in tasca ne trasse una busta e la gettò sul tavolo.
- Magnifico questo Schubert - disse Jaeger. Aprì la busta contò meticolosamente il denaro dividendo i biglietti di banca e controllando che nessuno fosse falso.
- Adesso mi dica come farà.
- Per forza le dirò come faccio: avrò bisogno del suo aiuto.
- Il mio aiuto?
- Lei dovrà preparare la casa seguendo le mie istruzioni. Inoltre avrò bisogno di alcuni oggetti accessori. Li comprerà lei e diventerà così mio complice: anch’io devo assicurarmi contro eventuali brutti tiri. Non le pare?
- Queste condizioni non mi piacciono.
- E allora, la prego, raccolga il suo denaro e amici come prima.
Arles esitò: - Che cosa dovrei fare io?
- Lei chiuderà accuratamente la casa, lasciando il mobilio e gli effetti personali intatti.
- E che altro?
- Acquisterà discretamente una cassetta di dinamite e una batteria di accumulatore di quelle solide, lasciando il tutto sul pavimento del ripostiglio.
- Dinamite?
- Lei è architetto. Saprà pure dove comprarla o dove procurarsela.
Arles esaminò il faccione pallido e impassibile che gli stava di fronte.
- Va bene, farò come mi dice.
- Sarò sul posto giovedì sera alle undici e mezzo.
- È un lavoro lungo?
- Il tempo che ci vuole per attaccare un piccolo apparecchio ai tubi del gas nel ripostiglio.
- Quando accadrà il fatto?
- A mezzogiorno preciso del giorno seguente.
- Lei intende ispezionare la casa?
- Non è necessario. La sua pianta è chiarissima. Cercherò di starci il minor tempo possibile. Entrerò, farò il lavoretto in dieci minuti e me ne andrò.
- E io che cosa devo fare?
- Dopo che avrà preparato la casa stia in città e si comporti come in un giorno qualsiasi.
- Ha bisogno di arnesi?
- Niente. Un rotolo di nastro adesivo. Ma lo porterò con me.
Arles si alzò: - Allora, tutto è a posto?
- Tutto a posto, signor Arles.
***
Due giorni più tardi, alle undici e mezzo precise della sera, Jaeger saliva sbuffando lungo la strada ghiaiosa che conduceva alla casa di pietra. Le sue scarpe incidevano faticosamente la ghiaia. Dal basso veniva il brusio delle onde contro la scogliera. La casa, bassa e massiccia era racchiusa fra le rocce e soltanto la facciata verso il mare era esposta al vento. Jaeger arrivò sul marciapiede di cemento, che conduceva all’ingresso; accese la sua torcia elettrica e ne fece correre il raggio lungo le finestre: vide che le saracinesche erano accuratamente abbassate. Soddisfatto del controllo frugò in una tasca e ne estrasse una chiave; si infilò i guanti e aprì la porta. Entrò, richiuse la porta dietro di sé e stette fermo appoggiato ad una parete. Si riposò e si accertò che nessun rumore venisse dall’interno.
Rapidamente si orientò: il raggio della sua torcia scoprì il salone, ne studiò le pareti, il focolare di pietra, le file di libri, i pesanti mobili antichi, le finestre chiuse. Scoprì il ripostiglio e ne apri la pesante porta. Vide file di bottiglie di vino e di liquori.
Sul pavimento c’era una scatola di cartone; conteneva spezzoni di dinamite. Lì accanto una batteria d’accumulatori.
Dalle sue tasche Jaeger estrasse il meccanismo ad orologeria, un rotolo di filo, due capsule esplosive.
Si tolse i guanti, cercò in una tasca un temperino, scavò in uno degli spezzoni di dinamite e vi mise delicatamente la capsula. Con nastro adesivo attaccò lo spezzone con le capsule ad un gruppo di altri spezzoni, e attaccò poi il tutto ad un tubo del gas presso il pavimento. Con infinita cautela tese il suo filo, lasciando ancora staccato uno dei fili dello strumento ad orologeria. Riesaminò accuratamente il circuito, guardò l’orologio, mise lo strumento sull’ora desiderata, poi si inginocchiò presso la porta e con la massima attenzione fece l’ultima giuntura.
Soddisfatto del lavoro si alzò prese un fazzoletto e cancellò le eventuali impronte digitali sulla porta del ripostiglio; chiuse la porta e girò la chiave.
Rimise i guanti, tornò al centro del salone; il raggio della torcia scopri una collezione di dischi di grammofono. Jaeger tirò un sospiro e passò oltre. Arrivò alla porta principale e girò la maniglia per uscire.
Notò con sorpresa che la maniglia, di forma circolare continuava a girare a vuoto. La porta non si apriva.
Seccato, si tolse un guanto, cercò in tasca la chiave e la mise nella toppa: la chiave non voleva entrare nel buco.
Jaeger mormorò una imprecazione, tentò ancora di adoperare la chiave, ma invano.
Maledì i fabbricanti di quella porta che si era chiusa a spinta ma rifiutava di aprirsi. Esaminò la porta, tornò a girare la maniglia, questa volta con violenza. Tanto che la maniglia gli restò in mano.
Il posto dove la maniglia era attaccata appariva nudo e privo di congegni: non c’era altro che il rivestimento d’acciaio della porta, e due buchetti nel punto dove la maniglia era stata attaccata.
Jaeger adoperò il suo temperino come un cacciavite per svitare la lastra di ferro della serratura. Ma anche questa dall’interno appariva fittizia. Evidentemente era stata truccata e si poteva raggiungerla soltanto dall’esterno.
Per un momento rimase lì immobile, stringendo in mano i pezzi della falsa serratura; poi li gettò via, attraversò l’atrio e si diresse alla porta della cucina. La porta era chiusa e appariva solida.
Lentamente Jaeger fece girare il raggio della torcia.
Arrivò alla porta del ripostiglio, vide la maniglia... tenendo il fiato l’afferrò e la girò... la girò... a vuoto anche quella. Girava a vuoto...
Arles, pensò furibondo, quel maledetto Arles...
Tornò nel salone, cercò con la torcia l’interruttore. La lampada del soffitto si accese e il salone fu pieno di luce.
Jaeger si lasciò cadere di peso nella grande poltrona presso la finestra e radunò le idee, senza premura, con freddezza analitica.
Era un tecnico, un professionista, capace di pensare, esaminare, decidere a seconda della circostanza, senza orgasmi e senza emozione.
La prima domanda che gli si poneva era il « perché » di questi strani fenomeni. Ma per il momento il « perché » era un problema secondario. Bisognava prima di tutto guardare meglio.
Si alzò e cominciò una nuova ispezione nella piena luce. Gli attizzatoi che di solito sono presso un focolare erano stati tolti da loro gancio. E anche la grata di ferro era scomparsa: se ne vedevano le tracce sulla parete e sul pavimento.
Batté la parete attorno al focolare: era pietra solida e spessa, altrettanto robusta era la parete attorno alla porta. Gli scaffali dei libri erano composti di assi di legno saldate nel cemento. Continuò l’inventano e si accorse che ogni pezzo di ferro che avesse qualche consistenza era stato tolto dall’abitazione.
Una scatola di pietra con porte d’acciaio, pensò. Il pavimento posava sulla roccia e sul cemento. Soltanto il soffitto forse era vulnerabile.
Forse le finestre... Tentò di muovere la manovella che apriva la saracinesca di una finestra: la manovella gli rimase in mano. Esaminò l’ingranaggio: era stato tagliato. Inoltre fra il vetro e la saracinesca c’era una inferriata.
Jaeger abbandonò le finestre, tornò a dedicarsi al salone: fece l’inventario dell’arredamento: un tavolo massiccio, due poltrone di pelle, una robusta asse incastrata nel cemento lungo una parete, tre sedie, un divano, un pianoforte, i tendaggi, un tavolino da caffè, vasi di ceramica, piccole cianfrusaglie. Non lampade portatili.
Si dedicò al soffitto e lo esaminò accuratamente. Ad un tratto pensò con soddisfazione che poteva raggiungere il soffitto mettendo una sedia sul tavolo.
C’erano poche cose nel salone che potesse usare come utensili, salvo le maniglie, o forse qualche pezzo di ceramica rompendo qualche vaso.
Guardò l’orologio: gli restavano dieci ore e mezzo di tempo.
Metodico e organizzato, Jaeger fece mentalmente un piano: per prima cosa dedicare un’ora alla porta del ripostiglio. Se non fosse riuscito ad aprirla o a sfondarla, mezz’ora ciascuna alle altre porte. Un totale di due ore e mezzo. Sarebbero rimaste otto ore. Un’ora di tempo per ognuna delle tre pareti se nessuna porta cedeva. Infine sarebbero rimaste cinque ore per il soffitto.
Lo stipite della porta del ripostiglio era coperto da un bordo di metallo destinato a coprire la fessura della porta; le cerniere erano all’interno, ed era impossibile raggiungere i cardini.
Adoperando il temperino, Jaeger tentò di intaccare l’orlo di metallo nella zona della serratura. Lavorò pazientemente attorno al metallo, riuscì a scalfire la vernice e si avvide che col piccolo strumento di cui disponeva non sarebbe mai riuscito a scalfire le coperture, e tanto meno ad intaccare la porta che sotto la vernice, era di ferro.
Depose il temperino, si alzò, prese la rincorsa e provò con tutto il suo peso a dare una spallata alla porta. L’impresa gli parve subito vana perché la porta non tremò neppure.
Si aggirò per il salone in cerca di qualcosa che gli servisse da ariete contro la maledetta porta del ripostiglio.
Le poltrone erano massicce, ma troppo pesanti e troppo grosse per lo scopo, le sedie erano fragili. Ne provò una che andò facilmente in pezzi. Jaeger raccolse i frammenti di legno e li raggruppò in un mucchietto senza sapere bene il perché. Perse un po’ di tempo ad esaminare la porta d’ingresso e poi passò alle porte della cucina e della camera da letto. Anche queste erano montate con lo stesso sistema di quella del ripostiglio. Jaeger cominciava a sentire la fatica degli sforzi fisici e della tensione mentale. Aveva deposto la giacca sul sofà e il sudore gli correva sotto la camicia.
Per la prima volta si accorgeva di essere stanco. La sete cominciava a farsi sentire. Guardò l’orologio e deliberatamente si sedette in una poltrona per riposare.
Dopo un po’ balzò in piedi e tornò a guardare le finestre. Si passò la lingua sulle labbra asciutte e assetate, raccolse una delle poltrone, la sollevò con sforzo e la spinse contro la finestra. Fu sorpreso di vedere che il vetro resisteva all’attacco. Risollevò la poltrona e con tutta la sua energia la scaraventò a catapulta contro la finestra: quando lasciò la presa della poltrona perse l’equilibrio e cadde a terra. Un braccio e una spalla malamente urtati lo fecero gemere di dolore.
Furibondo, ebbro di cieca collera si alzò e gettò contro il vetro ogni oggetto che gli capitava sotto mano. Finalmente, ignorando il dolore che gli lacerava il braccio e il polso, batté furiosamente il vetro con un pesante vaso di ceramica, finché produsse una specie di buco dai bordi irti di punte.
Riuscì a far passare il braccio attraverso il buco, afferrò con una mano le sbarre e le scosse selvaggiamente, senza speranza.
Capiva che se anche avesse demolito l’intera lastra di vetro non sarebbe mai riuscito a superare le sbarre d’acciaio che stavano davanti alla saracinesca.
Jaeger era stanco morto ormai, il braccio dolorante gli pesava. Guardò l’orologio, sedette e rimase a lungo a massaggiare il braccio e il polso dolenti.
Ma i minuti passavano.
Si alzò e radunando le forze spinse il pesante tavolo verso la parete che dava sul retro della casa. Mise una sedia sul tavolo, prese un pezzo di legno della sedia che aveva rotto, salì sulla sedia posta sul tavolo e arrivò a portata di mano del soffitto, batté e grattò.
Tirò un sospiro di sollievo vedendo che una cascatella di calcinacci gli pioveva sulla faccia. Scese a terra, prese un’altra sedia e la pose sul tavolo accanto alla prima. Il braccio gli doleva. Imprecava sottovoce per non aver scelto il soffitto come primo punto di attacco.
Si arrampicò nuovamente sulla sedia e riprese l’opera. La rapidità con la quale i calcinacci cadevano gli dava forza. Grattava metodicamente il soffitto, dapprima sullo strato di calcina, poi sul materiale che stava sotto, finché arrivò all’armatura di ferro. Mise alla prova la resistenza dell’armatura battendo all’insù la gamba della sedia rotta. Batté, batte, batté ancora con la punta del bastone e poi coi pugni finché dai graffi uscì il sangue.
- Cemento - disse - cemento fra le sbarre... cemento armato.
Stanco e deluso ridiscese sul pavimento, una smorfia di disperazione sul volto, lacrime di disperazione negli occhi.
Improvvisamente, in uno scoppio di furore, si avventò contro la porta del ripostiglio con tale cieca violenza che ne venne gettato indietro come da una molla e ricadde in modo grottesco sul pavimento.
La testa in tumulto, emettendo parole confuse e grida di rabbia si rialzò e corse alla finestra tirando furiosi disordinati colpi contro il vetro, la inferriata, gli stipiti, la parete… finché cadde sul pavimento come un povero mucchio di stracci.
Mancavano trenta minuti. Nel ripostiglio due sottili lancette di metallo avanzavano lentamente continuamente verso un contatto.
Forse non funzionerà, pensava Jaeger. Ma sapeva che avrebbe funzionato.
***
A sei miglia di distanza e nel mezzo di un mare di case, Daggett era in piedi nella penombra di un bar « tipico ». Il suo viso aguzzo da faina era immobile, pareva che l’uomo dormisse ad occhi aperti. Poi si voltò, guardò Arles, versò un sorso di whisky in un bicchiere:
- Prendi - disse - e siediti.
Arles allungò la mano e sollevò il bicchiere.
- Aspetta qui, torno subito - disse Daggett.
Mentre costui si allontanava per portare da bere ad un gruppo di clienti, Arles alzò la testa, guardò l’orologio. Non riusciva a staccar gli occhi dalle lancette.
- Non te la sentivi di aspettare da solo, eh? - sussurrò Daggett di ritorno.
Arles scosse la testa.
- A mezzogiorno. Fra un quarto d’ora.
- Sta buono: non ci saranno problemi, Jaeger non fa sbagli.
Arles sussurrò: - Ne ha fatto uno.
- Quando? Dove?
- Lo scorso anno. Quando ha provocato l’incendio nel magazzino dei tessuti.
- Chi te l’ha detto?
- E’ da quel fatto che ho avuto il tuo nome, Daggett: tu organizzi gli incontri, Jaeger fa il lavoro, il cliente incassa l’assicurazione.
Daggett si sporse attraverso il banco:
- Sei nervoso, ragazzo. Tieni a freno la boccuccia.
- Un capo dei vigili del fuoco è perito nell’incendio del magazzino.
Le mani di Daggett si strinsero nervosamente sull’orlo del banco.
- Cerchi di farmi paura?
- No, soltanto, è meglio che tu lo sappia: la vittima era mio padre.
- Ma si chiamava Stimson.
- Infatti, io mi chiamo Arles Stimson.
Lo sguardo di Daggett era vitreo: - E tu hai incaricato Jaeger di fare un lavoro per te?
- Un lavoro è un lavoro.
Daggett voltò la testa e guardò l’orologio.
- Ci siamo - disse Arles - le dodici.
- Ma guarda che roba! - esclamò Daggett. - Questa non me la sarei sognata. Va bene, beviamone uno per la casa.
- Uno per la casa - disse Arles e gettò il bicchiere di wisky in faccia a Daggett.
- Ma sei matto! - gridò Daggett.
Arles lo guardò asciugarsi il whisky. Poi gli voltò le spalle e si allontanò.
- Aspetta - gridò Daggett - non fare il tonto. Sta calmo e sii pronto: domani avrai da rispondere a tutte le domande degli ispettori dell’assicurazione. Se non hai i nervi a posto invece di avere i quattrini andrai in galera. Non ti conviene fare il gradasso.
- Non ci saranno ispettori dell’assicurazione - disse Arles Stimson. - Una settimana fa ho annullato l’assicurazione sulla casa di mio padre.
Voltò le spalle e usci nella strada piena di sole.
NOTE
Racconti rari riscoperti da Sergio Bissoli. Dalle informazioni di Tiziano Agnelli risulta che questi Autori sono scrittori minori inglesi o americani. Hanno pubblicato alcuni racconti in varie antologie negli anni ’50.
I racconti che presentiamo qui invece sono stati pubblicati esclusivamente sulle Domeniche del Corriere degli anni ’60. Qui mancano sempre i dati biografici. Manca sempre il titolo originale e il nome del traduttore.
Nella testata appare una foto di Hitchcock con la scritta: “Hitchcock presenta”.
La casa di Pietra di Gilbert Ralston è apparso sulla Domenica del Corriere nel dicembre 1961. Questo, e gli altri racconti che presentiamo qui, non sono mai stati pubblicati in antologie inglesi e neanche italiane. Pubblicato per la prima volta su Club GHoST.
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