Il dispiacere della visione

Se Debord nei primi anni cinquanta sosteneva che il cinema era morto, oggi cosa direbbe? Mettiamola così: non sono molti i registi da cui potersi ancora attendere opere cinematografiche memorabili. Orazio riteneva che alla saggezza si debba mescolare un po’ di follia, ma sarebbe meglio intendersi su questo, perché si rischia d’essere fraintesi, essendo la follia tanto svilita, omologata e in fin dei conti dannosa se male utilizzata. Sembra in effetti che oggi giorno la saggezza sia più ostentata che reale e la follia, invece che fertile, finisca per essere coltivata come un semplice e meschino frutto dell’ottusità. Qualsiasi cineasta che volesse davvero mescolare saggezza e follia (qualunque cineasta degno di questo nome, dunque) dovrebbe negare il piacere della visione o, perlomeno, interrogarsi su tale piacere e su quanto esso possa essere perverso, socialmente pericoloso e su quanto peso “politico” potrebbe avere la sua negazione, la sottrazione al gusto odierno. In un‘ipotetica lista di cineasti dal quale aspettarsi un tentativo di porsi in opposizione al dilagante e ormai inaccettabile qualunquismo visivo (che è poi morale) non sarebbe coerente inserire Haneke né tanto meno Tarantino, ridanciano profeta di un nulla di vertiginosa stupidità, né Von Trier, né Besson, né Almodovar, rappresentanti ognuno a modo loro di un’aberrante complicità sincronica e dialettica con un pubblico che non distingue l’ora del lupo dall’ora felice. Stante la deprecabile situazione del cinema italiano, che batte ogni record nel sopravvalutare alcuni tra i peggiori registi del mondo, certo dalle nostre parti potremmo aspettarci qualcosa giusto da Nanni Moretti, Ermanno Olmi (ma accettare certi rapporti produttivi non è un buon segno), forse da Bellocchio (ancorché più al tramonto che a mezzogiorno), probabilmente da Paolo Benvenuti, De Bernardi e pochi altri.
  
a cura di Roberto Frini