a cura di Roberto Frini
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Michael Cimino, un regista ai margini dell'industria cinematografica
Non sappiamo se possa suonare retorico scrivere che con Michael Cimino, scomparso il 2 luglio, se ne va uno degli ultimi grandi registi del cinema americano, appartenente a quella categoria di Autori di cui si sta ormai perdendo lo stampo (per cui ci toccherà avere sempre più a che fare soltanto con i presunti tali); quasi tutti guarda caso in pessimi rapporti con le case di produzione e marginali all'industria (per scelta o per costrizione: De Palma, Hill, Coppola, Friedkin, Milius, Landis, Romero, Carpenter). Tanto che l'ultimo film, il dolente Verso il sole (The Sunchaser), Cimino l'aveva diretto addirittura nel lontano 1996, preferendo dedicarsi in seguito all'attività di romanziere. Non sappiamo se possa suonare retorico scrivere che, dopo gli inizi come sceneggiatore (2002: la seconda odissea, Una 44 Magnum per l'ispettore Callaghan), Cimino ha esordito dietro la macchina con il notevole Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and Lightfoot, 1974) e poi ha girato quasi solo capolavori. Il cacciatore (The Deer Hunter), nel 1978, I cancelli del cielo (Heaven's Gate), nel 1980, L'anno del Dragone (The Year of the Dragon), nel 1985, Il siciliano (The Sicilian), nel 1987, Ore disperate (Desperate Hours), nel 1990. Pochi titoli, due dei quali (Il cacciatore e I cancelli del cielo) fotografati in maniera straordinaria da Vilmos Zsigmond (anch'egli scomparso qualche mese fa) e dal destino diametralmente opposto (pluripremiato e di grande successo il primo, un disastro economico il secondo). Per evitare appunto l'eccesso di retorica, preferiamo quindi ricordare Cimino attraverso le parole che Jean-Luc Godard gli dedicò a proposito del suo film più ambizioso: “Anche se è un insuccesso, secondo me è molto più interessante del successo, è come un corpo malato. Possiamo guardarlo, esaminarlo e poi dire cosa c'è che va e che non va. Credo che I cancelli del cielo sia un ottimo esempio. Ha una quantità di spunti magnifici che il regista non ha saputo reggere fino in fondo (...) È molto interessante perché Michael inventa man mano che procede, è capace di produrre solo qualche inquadratura veramente significativa all'interno di un film di tre ore, ma quelle poche inquadrature sono molto più interessanti di un mucchio di inquadrature di altri registi, perché fanno capire cosa vuol dire realizzare un film.” (da «Economia politica della critica cinematografica - Dibattito tra Pauline Kael e Jean-Luc Godard», in Jean-Luc Godard, «Due o tre cose che so di me», Minimum Fax, 2007).