“Non lo capisco più questo posto”. È il 1995
quando sentiamo Morgan Freeman confessare apertamente la propria resa
alla Città. Testimoni un arcigno capo della polizia e noi, pubblico
pagante dall’altra parte dello schermo. Dieci anni di vita per uno dei
thriller che più ha segnato la storia del cinema contemporaneo, forse in
parte riformandolo, senza alcun dubbio ponendosi come termine di
confronto imprescindibile per quanti vorranno successivamente
confrontarsi con la più grande icona horror dei nostri tempi. Il serial
killer.
Il signore del male
Attingendo da un imponente database di suggestioni collettive, il serial killer cinematografico si è gradualmente imposto come “il” personaggio malvagio per antonomasia, sostituendosi – ed integrando - figure che avevano campeggiato fin dall’inizio del cinema dominandone le vene più oscure e inquietanti. Figure come il vampiro, il ritornante, il mostro, l’alieno. È il serial killer che più di ogni altra incarnazione del male tocca i nostri nervi scoperti: emerge dalla cronaca, dunque è acronico – non parla di futuro né di passato, non ha una dimensione temporale storica - è metropolitano, è l’assoluto, mimetico “everyman”. La sua forma distruttiva è in linea di principio omogenea alle nostre substrutturali istanze di violenza.
Attingendo da un imponente database di suggestioni collettive, il serial killer cinematografico si è gradualmente imposto come “il” personaggio malvagio per antonomasia, sostituendosi – ed integrando - figure che avevano campeggiato fin dall’inizio del cinema dominandone le vene più oscure e inquietanti. Figure come il vampiro, il ritornante, il mostro, l’alieno. È il serial killer che più di ogni altra incarnazione del male tocca i nostri nervi scoperti: emerge dalla cronaca, dunque è acronico – non parla di futuro né di passato, non ha una dimensione temporale storica - è metropolitano, è l’assoluto, mimetico “everyman”. La sua forma distruttiva è in linea di principio omogenea alle nostre substrutturali istanze di violenza.
Dà libero sfogo ad un
titanismo nichilista che è abbastanza scontato rivelare in forma
embrionale nell’uomo urbano per definizione. Nessuna sovrannaturale
motivazione, nessun radicale metafisico in ciò che è o in ciò che fa. È
uno vicino a noi, è uno di noi.
Il più grande affresco psicologico di questo postmoderno principe delle tenebre c’era già stato regalato dal vocatissimo binomio Harris/Demme. Hannibal Lecter è una summa, uno studio meticoloso di questa forma di metauomo votato al male, affascinante proprio per il suo essere “oltre” in tutto: intelligenza, cultura, raffinatezza, sensibilità, educazione, efferatezza, amoralità. Da questo punto di vista il John Doe di Seven è creatura indubbiamente più dimensionata, circoscritta, non eccelle come fa il principe Hannibal; se anzi si trova sempre una spanna sopra e avanti ai malcapitati detective che gli danno la caccia, non sembra dovuto a specifiche doti intellettive o intellettuali. Il dialogo finale nell’automobile, nel quale era lecito aspettarsi chissà quale tenzone dialettica, vedere all’opera chissà quale potere e carisma, rivela ben poco da quel punto di vista. John Doe è non molto più che il predicatore che già Somerset aveva intuito nel primo atto del film. Le aspettative erano state falsate dalla memoria del film di Demme, c’era stato Il Silenzio degli innocenti, quattro anni addietro. Sulla scorta di quel film, e di decenni di narrativa cinematografica (e non), ci aspettavamo, forse volevamo, un altro Dracula, un altro Signore del Male. Forse. Eppure Seven s’è incagliato nel nostro immaginario, e lo ha fatto disattendendo almeno in parte alcune istanze strutturali e formali del genere recipiente che andava riformando dall’interno. A dieci anni di distanza è possibile e doveroso andare a capire perché. Quali sono i punti di forza. Cosa ha fatto Fincher in quel film, e perché la sua lezione è stata tanto dirompente quanto poco seguita. Se è vero che di epigoni se ne sono visti a iosa, tanto da aver creato – suo malgrado? - una specie di marchio di stile dall’uso pedissequamente reiterato (l’attempato detective di colore, disincantato e disilluso dalla vita), è però altrettanto lampante che per andare a pescare un degno antagonista del cult del 1995 bisogna faticare parecchio. Salvo accontentarsi una volta approdati a cose tipo Saw - l’Enigmista.
Il più grande affresco psicologico di questo postmoderno principe delle tenebre c’era già stato regalato dal vocatissimo binomio Harris/Demme. Hannibal Lecter è una summa, uno studio meticoloso di questa forma di metauomo votato al male, affascinante proprio per il suo essere “oltre” in tutto: intelligenza, cultura, raffinatezza, sensibilità, educazione, efferatezza, amoralità. Da questo punto di vista il John Doe di Seven è creatura indubbiamente più dimensionata, circoscritta, non eccelle come fa il principe Hannibal; se anzi si trova sempre una spanna sopra e avanti ai malcapitati detective che gli danno la caccia, non sembra dovuto a specifiche doti intellettive o intellettuali. Il dialogo finale nell’automobile, nel quale era lecito aspettarsi chissà quale tenzone dialettica, vedere all’opera chissà quale potere e carisma, rivela ben poco da quel punto di vista. John Doe è non molto più che il predicatore che già Somerset aveva intuito nel primo atto del film. Le aspettative erano state falsate dalla memoria del film di Demme, c’era stato Il Silenzio degli innocenti, quattro anni addietro. Sulla scorta di quel film, e di decenni di narrativa cinematografica (e non), ci aspettavamo, forse volevamo, un altro Dracula, un altro Signore del Male. Forse. Eppure Seven s’è incagliato nel nostro immaginario, e lo ha fatto disattendendo almeno in parte alcune istanze strutturali e formali del genere recipiente che andava riformando dall’interno. A dieci anni di distanza è possibile e doveroso andare a capire perché. Quali sono i punti di forza. Cosa ha fatto Fincher in quel film, e perché la sua lezione è stata tanto dirompente quanto poco seguita. Se è vero che di epigoni se ne sono visti a iosa, tanto da aver creato – suo malgrado? - una specie di marchio di stile dall’uso pedissequamente reiterato (l’attempato detective di colore, disincantato e disilluso dalla vita), è però altrettanto lampante che per andare a pescare un degno antagonista del cult del 1995 bisogna faticare parecchio. Salvo accontentarsi una volta approdati a cose tipo Saw - l’Enigmista.
L’abisso urbano
Un elemento lievemente straniante nella sceneggiatura dell’allora esordiente Andrew Kevin Walker è sicuramente la mancanza di una connotazione geografica precisa per il set della vicenda. È la città, è “questo posto”, ma non è dato sapere che città sia, quale posto. È sud, e piove sempre. È scura, sicuramente umida, stretta, angusta per l’anima ancor prima che per il corpo, e Darius Khondji con la sua fotografia le rende un servizio impeccabile e memorabile. Una città che si attacca addosso come l’umidità e i vapori maleodoranti che sembra emanare, con quella patina cromaticamente carica che non toglie nitidezza alle inquadrature, ma le rende gravide, madide, sordide. È impossibile evitare che la memoria visiva torni agli stilemi di Blade Runner. Dunque non una città, ma “la” città, pertanto ogni città.
Così introdotto, sin dall’inizio, l’elemento ambientale smette di essere mero setting funzionale al dipanarsi delle azioni, diventa entità con la quale entrare in contatto, e il sapersi relazionare con essa comincia ad essere delineato come frutto di sapienza ed esperienza. La dialettica dell’entrare nell’ambiente diventa quella dell’essere introdotti, o del saperlo fare, ed è una tematica predominante nella storia. Non si apre semplicemente una porta, in Seven, bensì si oltrepassa una soglia, in una grande varietà di modi, anche quando nessuna porta è data da vedere, e intorno ci sono solo spazi aperti, cielo, e torrette dell’alta tensione. Di più: essere introdotti significa avere una guida, il più delle volte, ed ecco che la tensione Somerset/Mills smette di essere quella superficiale tra poliziotto pacato, cinico e poliziotto emotivo, idealista per diventare quella tra chi sa, conosce il posto, e chi è nuovo, e deve essere accompagnato, edotto. Vale la pena ricordare che il giovane Mills ha da poco traslocato lì, con la sua dolce metà (una Gwyneth Paltrow ancora pre-diva), che molto più di lui stenta ad adattarsi (“Odio questa città” confesserà a Somerset).
Non c’è dubbio che spetti al personaggio di Freeman il ruolo di interpretare il Virgilio della situazione, e la silhouette psicologica del suo Somerset è da questo punto di vista assolutamente funzionale. Apre il racconto con silenzio dolente, lo introduce più avanti e ne segna alcuni importanti momenti di muta riflessione, scanditi solo dal ritmo indecifrabile di un metronomo. Come dire che riflettere su quanto vissuto produce solo loop sterili di pensiero, solitudine, alienazione.
Ad ogni modo, il carattere esoterico della storia, accentuato tramite una fitta filigrana di suggestioni prese dal mondo della religione medievale, è marcato da un evidente segno negativo: essere iniziati alla città non comporta acquisizione di sapienza, né tantomeno l’”upgrade” a migliori condizioni di vita, spirituale o materiale che sia. Somerset è un rinunciatario nell’anima, e non tanto perché si ritiri in pensione, ma per il modo in cui lo fa. Per quanto i suoi occhi e la sua anima abbiano scrutato a fondo nell’abisso della Città, non c’è consapevolezza, non c’è sapienza a supportarlo e a confortarlo: al suo capo ammette comunque di non essere in grado di capire il posto in cui vive, ad una sconosciuta Mrs. Mills confessa di aver scelto la via della solitudine e di sentirsi uno sconfitto per quell’antica scelta. Non c’è eroismo nell’essere venuti a patti con quel mondo, come non c’è altro premio se non la perizia tecnica del saper fare bene il proprio lavoro. Del saper intuire l’esatta natura del male quando ne si annusi la presenza.
In questo risiede la radicale natura pessimista di Seven, di cui il finale nerissimo ne è solo estrinsecazione, attuazione. In questo sta la sua forza innovativa. Il serial killer è un attore di questa radice, ne è l’estroflessione più epidermica, una personificazione dello stato di anomia morale in cui versa l’ambiente urbano stesso, da cui il killer ammette di essere generato, e in cui trova il suo statuto, la sua ragion d’essere. Ecco dov’era la sua forza, quando avremmo sbagliato a cercarla nel personaggio: John Doe è la città stessa, imperscrutabile nei suoi mille sommovimenti triviali e brulicanti, che in un gesto tanto cieco quanto istintivo si erge a punitrice di se stessa, incapace di gestire in maniera produttiva e vitale la propria ansia di pulizia e di redenzione. La lotta è impari, perché qui non si fronteggia un uomo, per quanto straordinario; non c’è un Lecter a sfidare la polizia, bensì la stessa anima impazzita della comunità che deve servire e proteggere. Somerset lo sa, sin dall’inizio, e se decide di non ritirarsi lo fa, a quanto sembra, fondamentalmente per quello stesso senso di colpa – è l’inazione il motore immobile che crea l’implosione etica del tessuto sociale, è l’indifferenza, la mancanza di altruismo - che in diversi modi anima ogni personaggio della storia. Quel senso di colpa, canceroso e settico, sembra l’humus in cui nasce il male di Seven.
Un elemento lievemente straniante nella sceneggiatura dell’allora esordiente Andrew Kevin Walker è sicuramente la mancanza di una connotazione geografica precisa per il set della vicenda. È la città, è “questo posto”, ma non è dato sapere che città sia, quale posto. È sud, e piove sempre. È scura, sicuramente umida, stretta, angusta per l’anima ancor prima che per il corpo, e Darius Khondji con la sua fotografia le rende un servizio impeccabile e memorabile. Una città che si attacca addosso come l’umidità e i vapori maleodoranti che sembra emanare, con quella patina cromaticamente carica che non toglie nitidezza alle inquadrature, ma le rende gravide, madide, sordide. È impossibile evitare che la memoria visiva torni agli stilemi di Blade Runner. Dunque non una città, ma “la” città, pertanto ogni città.
Così introdotto, sin dall’inizio, l’elemento ambientale smette di essere mero setting funzionale al dipanarsi delle azioni, diventa entità con la quale entrare in contatto, e il sapersi relazionare con essa comincia ad essere delineato come frutto di sapienza ed esperienza. La dialettica dell’entrare nell’ambiente diventa quella dell’essere introdotti, o del saperlo fare, ed è una tematica predominante nella storia. Non si apre semplicemente una porta, in Seven, bensì si oltrepassa una soglia, in una grande varietà di modi, anche quando nessuna porta è data da vedere, e intorno ci sono solo spazi aperti, cielo, e torrette dell’alta tensione. Di più: essere introdotti significa avere una guida, il più delle volte, ed ecco che la tensione Somerset/Mills smette di essere quella superficiale tra poliziotto pacato, cinico e poliziotto emotivo, idealista per diventare quella tra chi sa, conosce il posto, e chi è nuovo, e deve essere accompagnato, edotto. Vale la pena ricordare che il giovane Mills ha da poco traslocato lì, con la sua dolce metà (una Gwyneth Paltrow ancora pre-diva), che molto più di lui stenta ad adattarsi (“Odio questa città” confesserà a Somerset).
Non c’è dubbio che spetti al personaggio di Freeman il ruolo di interpretare il Virgilio della situazione, e la silhouette psicologica del suo Somerset è da questo punto di vista assolutamente funzionale. Apre il racconto con silenzio dolente, lo introduce più avanti e ne segna alcuni importanti momenti di muta riflessione, scanditi solo dal ritmo indecifrabile di un metronomo. Come dire che riflettere su quanto vissuto produce solo loop sterili di pensiero, solitudine, alienazione.
Ad ogni modo, il carattere esoterico della storia, accentuato tramite una fitta filigrana di suggestioni prese dal mondo della religione medievale, è marcato da un evidente segno negativo: essere iniziati alla città non comporta acquisizione di sapienza, né tantomeno l’”upgrade” a migliori condizioni di vita, spirituale o materiale che sia. Somerset è un rinunciatario nell’anima, e non tanto perché si ritiri in pensione, ma per il modo in cui lo fa. Per quanto i suoi occhi e la sua anima abbiano scrutato a fondo nell’abisso della Città, non c’è consapevolezza, non c’è sapienza a supportarlo e a confortarlo: al suo capo ammette comunque di non essere in grado di capire il posto in cui vive, ad una sconosciuta Mrs. Mills confessa di aver scelto la via della solitudine e di sentirsi uno sconfitto per quell’antica scelta. Non c’è eroismo nell’essere venuti a patti con quel mondo, come non c’è altro premio se non la perizia tecnica del saper fare bene il proprio lavoro. Del saper intuire l’esatta natura del male quando ne si annusi la presenza.
In questo risiede la radicale natura pessimista di Seven, di cui il finale nerissimo ne è solo estrinsecazione, attuazione. In questo sta la sua forza innovativa. Il serial killer è un attore di questa radice, ne è l’estroflessione più epidermica, una personificazione dello stato di anomia morale in cui versa l’ambiente urbano stesso, da cui il killer ammette di essere generato, e in cui trova il suo statuto, la sua ragion d’essere. Ecco dov’era la sua forza, quando avremmo sbagliato a cercarla nel personaggio: John Doe è la città stessa, imperscrutabile nei suoi mille sommovimenti triviali e brulicanti, che in un gesto tanto cieco quanto istintivo si erge a punitrice di se stessa, incapace di gestire in maniera produttiva e vitale la propria ansia di pulizia e di redenzione. La lotta è impari, perché qui non si fronteggia un uomo, per quanto straordinario; non c’è un Lecter a sfidare la polizia, bensì la stessa anima impazzita della comunità che deve servire e proteggere. Somerset lo sa, sin dall’inizio, e se decide di non ritirarsi lo fa, a quanto sembra, fondamentalmente per quello stesso senso di colpa – è l’inazione il motore immobile che crea l’implosione etica del tessuto sociale, è l’indifferenza, la mancanza di altruismo - che in diversi modi anima ogni personaggio della storia. Quel senso di colpa, canceroso e settico, sembra l’humus in cui nasce il male di Seven.
Fincher l’oscuro
La metropoli nera e decadente, metonimia di un universo senza speranza, perennemente spazzata da una pioggia che non fa che infangarne ulteriormente le strade, allagandole fin dentro i vicoli sordidi; il serial killer, cellula impazzita deputata al collasso sociale, terreno angelo della morte, giustiziere di chi è reo d’averlo generato. Vengono i brividi al solo immaginarselo, un quadro del genere. Ma metterlo effettivamente in scena era la vera sfida. L’occhio che se ne fa carico è quello di David Fincher, classe 1962, alla seconda prova per il cinema dopo il buon esordio di Alien 3. Tutto concorre a far pensare che si tratti della materia più consona alla sensibilità del giovane regista, ipotesi confermata quattro anni più tardi dall’altro grande film di Fincher, quel Fight Club la cui epopea nichilista ci sembra derivare direttamente dallo sfacelo morale dell’opera precedente.
Ebbene, l’autore convoglia la potenza di Seven contro lo spettatore principalmente attraverso due direttrici: ovviamente il punto di vista della macchina, sempre consapevole, unito ad una perfetta scansione dei tagli di montaggio; in secondo luogo il lavoro sulla luce, delegato ad un Darius Khondji in stato di grazia, perfetto complemento estetico dell’idea di regia di Fincher: da questa rara empatia, insieme concettuale e tecnica, deriva il miracolo espressivo del film.
Il regista, nel posizionare la cinepresa, compie due scelte: la prima è quella di mantenere sempre una certa distanza dal suo scottante profilmico, almeno fintanto che la vicenda non prende la strada del deserto. Fino a quel momento – fino alla “scoperta” dell’assassino – è molto difficile trovar traccia di primi o primissimi piani, in Seven; Fincher rinuncia alla connotazione psicologica classica, e opta per una gamma di punti di vista più complessa, avendo sempre cura di mettere in quadro, insieme ai suoi personaggi, una buona porzione di ambiente. Non poteva essere altrimenti: la presenza del contesto urbano è di primaria importanza nell’economia espressiva dell’opera, anche quando si tratta solo dell’interno di un bar, o di un appartamento; in un universo filmico del genere, ogni taglio stretto risulterebbe solo come un’occasione mancata per significare una volta di più i personaggi in rapporto al setting della storia. Ecco che allora anche le sequenze apparentemente solo “di raccordo” assumono un significato proprio, che le prescinde dall’economia narrativa e le rifonda come “scene” a se stanti; spesso, in questi casi, Fincher sceglie anche angolazioni poco naturalistiche, invertendone però il senso: se infatti il regime ideologico dell’opera presupporrebbe un facile uso di piani dall’alto, a “schiacciare” l’individualità dei soggetti sotto il peso del Fato, qui perlopiù l’occhio della macchina scruta l’azione dal basso. Il risultato è tuttavia il medesimo: quelle figure stagliate contro un inquinato cielo urbano non hanno nulla di eroico, né di titanico; sembrano già vittime sacrificali di un ineluttabile meccanismo di morte.
Il lavoro fotografico di Khondji visualizza al meglio la sostanza filosofica che informa Seven; la luce saturissima, i verdi acidi, i neri senza scampo - frutto di un particolare sviluppo della pellicola - faranno scuola negli anni a venire, e danno all’insieme una splendida patina “noir”, riscontrabile anch’essa soprattutto nei passaggi meno “forti” del racconto; valga per tutte la scena della biblioteca, mirabile “adagio” notturno condotto su morbidi carrelli laterali, momento di amara riflessione nel quale il nostro istruito Virgilio illustra il percorso al suo compagno di strada.
Strutturalmente, la “detection” di Seven funziona alla perfezione: il montaggio di Richard Francio-Bruce rende il miglior servizio possibile al travolgente script di Walker. Le scene “attaccano” sempre al momento giusto, e non durano un secondo di troppo; in questo senso, e per tacer d’altro, è da antologia almeno tutta la prima mezz’ora del film, secca discesa nell’azione punteggiata da esatti affondi nella psicologia dei personaggi. Non che Fincher e i suoi avessero paura di prender di petto le “regole” del poliziesco; il genere deve funzionare innanzitutto a livello primario, ed è ciò di cui l’autore si ricorda quando gioca la carta dell’inseguimento tra cacciatore e preda: dieci minuti col fiato sospeso in cui vengono fuori tutta la sapienza tecnica e il senso dello spazio di un grande regista.
Seven passa alla storia per molti motivi. Dieci anni fa, ciò che colpì subito fu quel che di nuovo disse sul genere cui appartiene: l’azione criminosa presentata sempre come già avvenuta, e mai mostrata nel suo farsi, sintomo della schiacciante inevitabilità del male; il passo autoriale, rapsodico, eppure inarrestabile della storia; il più azzeccato “coup de theatre” degli ultimi anni, straordinaria accelerazione narrativa giocata su una sequenza magistrale; ovviamente lo “showdown” finale, film nel film in cui l’opera cambia rotta e Fincher cambia stile, tornando stretto sui volti dei suoi interpreti, ben deciso ad attentare ai nervi di un pubblico ormai saldamente in suo potere (Seven è il tipo di film che invita a nozze il narratologo interessato alle dinamiche comunicative tra autore, attore e spettatore).
Oggi, ad impressionarci non è più tanto la sorprendente struttura thrilling, o l’ispiratissima veste formale; l’una è ormai assurta ad inossidabile paradigma, l’altra pescava pur sempre in un immaginario preesistente – abbiamo citato Blade Runner – e al momento attuale si vedrebbe defraudata di un’ideale “leadership” sull’estetica urbana almeno dal genio digitale di Michael Mann.
No, ciò che ci fa amare Seven come il primo giorno sono ancora i suoi personaggi. Il dolente Somerset di un memorabile Morgan Freeman, l’impetuoso Mills di Brad Pitt, il glaciale John Doe di Kevin Spacey. Moderno Virgilio, il primo accompagna e assiste il suo Dante nella visita all’Inferno, ma se lo vede soccombere davanti. Il male vince, perché i suoi avversari hanno smesso di combattere.
Il personaggio di Freeman chiude il film, solo, proprio come l’aveva aperto. Il vecchio detective sembra ricordarsi di una discussione che aveva avuto con Mills, in occasione della quale il giovane collega gli aveva risputato in faccia la sua disillusione, il suo rimpianto, il suo dolore, e li aveva chiamati con un solo nome, vigliaccheria. Quella notte Somerset non riuscì a dormire.
Una citazione hemingwaiana sigilla il film, e per un attimo sembrerebbe di veder entrare uno spiraglio di luce. Non è così. Se si decide di combattere per un mondo che non lo meriterebbe, lo si fa unicamente perché si è capito che non v’è alternativa. E il risultato è comunque il medesimo.
Seven, con intatta potenza, ci racconta ancora questo.
La metropoli nera e decadente, metonimia di un universo senza speranza, perennemente spazzata da una pioggia che non fa che infangarne ulteriormente le strade, allagandole fin dentro i vicoli sordidi; il serial killer, cellula impazzita deputata al collasso sociale, terreno angelo della morte, giustiziere di chi è reo d’averlo generato. Vengono i brividi al solo immaginarselo, un quadro del genere. Ma metterlo effettivamente in scena era la vera sfida. L’occhio che se ne fa carico è quello di David Fincher, classe 1962, alla seconda prova per il cinema dopo il buon esordio di Alien 3. Tutto concorre a far pensare che si tratti della materia più consona alla sensibilità del giovane regista, ipotesi confermata quattro anni più tardi dall’altro grande film di Fincher, quel Fight Club la cui epopea nichilista ci sembra derivare direttamente dallo sfacelo morale dell’opera precedente.
Ebbene, l’autore convoglia la potenza di Seven contro lo spettatore principalmente attraverso due direttrici: ovviamente il punto di vista della macchina, sempre consapevole, unito ad una perfetta scansione dei tagli di montaggio; in secondo luogo il lavoro sulla luce, delegato ad un Darius Khondji in stato di grazia, perfetto complemento estetico dell’idea di regia di Fincher: da questa rara empatia, insieme concettuale e tecnica, deriva il miracolo espressivo del film.
Il regista, nel posizionare la cinepresa, compie due scelte: la prima è quella di mantenere sempre una certa distanza dal suo scottante profilmico, almeno fintanto che la vicenda non prende la strada del deserto. Fino a quel momento – fino alla “scoperta” dell’assassino – è molto difficile trovar traccia di primi o primissimi piani, in Seven; Fincher rinuncia alla connotazione psicologica classica, e opta per una gamma di punti di vista più complessa, avendo sempre cura di mettere in quadro, insieme ai suoi personaggi, una buona porzione di ambiente. Non poteva essere altrimenti: la presenza del contesto urbano è di primaria importanza nell’economia espressiva dell’opera, anche quando si tratta solo dell’interno di un bar, o di un appartamento; in un universo filmico del genere, ogni taglio stretto risulterebbe solo come un’occasione mancata per significare una volta di più i personaggi in rapporto al setting della storia. Ecco che allora anche le sequenze apparentemente solo “di raccordo” assumono un significato proprio, che le prescinde dall’economia narrativa e le rifonda come “scene” a se stanti; spesso, in questi casi, Fincher sceglie anche angolazioni poco naturalistiche, invertendone però il senso: se infatti il regime ideologico dell’opera presupporrebbe un facile uso di piani dall’alto, a “schiacciare” l’individualità dei soggetti sotto il peso del Fato, qui perlopiù l’occhio della macchina scruta l’azione dal basso. Il risultato è tuttavia il medesimo: quelle figure stagliate contro un inquinato cielo urbano non hanno nulla di eroico, né di titanico; sembrano già vittime sacrificali di un ineluttabile meccanismo di morte.
Il lavoro fotografico di Khondji visualizza al meglio la sostanza filosofica che informa Seven; la luce saturissima, i verdi acidi, i neri senza scampo - frutto di un particolare sviluppo della pellicola - faranno scuola negli anni a venire, e danno all’insieme una splendida patina “noir”, riscontrabile anch’essa soprattutto nei passaggi meno “forti” del racconto; valga per tutte la scena della biblioteca, mirabile “adagio” notturno condotto su morbidi carrelli laterali, momento di amara riflessione nel quale il nostro istruito Virgilio illustra il percorso al suo compagno di strada.
Strutturalmente, la “detection” di Seven funziona alla perfezione: il montaggio di Richard Francio-Bruce rende il miglior servizio possibile al travolgente script di Walker. Le scene “attaccano” sempre al momento giusto, e non durano un secondo di troppo; in questo senso, e per tacer d’altro, è da antologia almeno tutta la prima mezz’ora del film, secca discesa nell’azione punteggiata da esatti affondi nella psicologia dei personaggi. Non che Fincher e i suoi avessero paura di prender di petto le “regole” del poliziesco; il genere deve funzionare innanzitutto a livello primario, ed è ciò di cui l’autore si ricorda quando gioca la carta dell’inseguimento tra cacciatore e preda: dieci minuti col fiato sospeso in cui vengono fuori tutta la sapienza tecnica e il senso dello spazio di un grande regista.
Seven passa alla storia per molti motivi. Dieci anni fa, ciò che colpì subito fu quel che di nuovo disse sul genere cui appartiene: l’azione criminosa presentata sempre come già avvenuta, e mai mostrata nel suo farsi, sintomo della schiacciante inevitabilità del male; il passo autoriale, rapsodico, eppure inarrestabile della storia; il più azzeccato “coup de theatre” degli ultimi anni, straordinaria accelerazione narrativa giocata su una sequenza magistrale; ovviamente lo “showdown” finale, film nel film in cui l’opera cambia rotta e Fincher cambia stile, tornando stretto sui volti dei suoi interpreti, ben deciso ad attentare ai nervi di un pubblico ormai saldamente in suo potere (Seven è il tipo di film che invita a nozze il narratologo interessato alle dinamiche comunicative tra autore, attore e spettatore).
Oggi, ad impressionarci non è più tanto la sorprendente struttura thrilling, o l’ispiratissima veste formale; l’una è ormai assurta ad inossidabile paradigma, l’altra pescava pur sempre in un immaginario preesistente – abbiamo citato Blade Runner – e al momento attuale si vedrebbe defraudata di un’ideale “leadership” sull’estetica urbana almeno dal genio digitale di Michael Mann.
No, ciò che ci fa amare Seven come il primo giorno sono ancora i suoi personaggi. Il dolente Somerset di un memorabile Morgan Freeman, l’impetuoso Mills di Brad Pitt, il glaciale John Doe di Kevin Spacey. Moderno Virgilio, il primo accompagna e assiste il suo Dante nella visita all’Inferno, ma se lo vede soccombere davanti. Il male vince, perché i suoi avversari hanno smesso di combattere.
Il personaggio di Freeman chiude il film, solo, proprio come l’aveva aperto. Il vecchio detective sembra ricordarsi di una discussione che aveva avuto con Mills, in occasione della quale il giovane collega gli aveva risputato in faccia la sua disillusione, il suo rimpianto, il suo dolore, e li aveva chiamati con un solo nome, vigliaccheria. Quella notte Somerset non riuscì a dormire.
Una citazione hemingwaiana sigilla il film, e per un attimo sembrerebbe di veder entrare uno spiraglio di luce. Non è così. Se si decide di combattere per un mondo che non lo meriterebbe, lo si fa unicamente perché si è capito che non v’è alternativa. E il risultato è comunque il medesimo.
Seven, con intatta potenza, ci racconta ancora questo.
a cura di Emanuele Boccianti e Piero D’Ascanio
Fonte: Offscreen