L’episodio centrale, che è anche il più lungo, vede come protagonista un attore leggendario, Boris Karloff (che veste anche i panni del narratore). Tratto dal racconto di Aleksei Tolstoi I Wurdalak, l’episodio concentra in sé tutte le qualità di Bava: estrema cura visiva, capacità di creare tensione e atmosfera, tagli di inquadratura e un uso del colore del tutto personale (si veda in questo senso la splendida scena in cui i due protagonisti vengono circondati dai familiari divenuti dei Wurdalak). La vicenda è semplice: un uomo arriva in una casa sperduta nella campagna russa (siamo nell’800) e viene a sapere che da quelle parti si crede a una leggenda secondo cui i morti tornano in vita per uccidere le persone che amano e farle diventare a loro volta morti viventi (Wurdalak, appunto). Naturalmente non è soltanto una leggenda, i Wurdalak esistono veramente, e il protagonista lo scoprirà a proprie spese. Ancora una volta Bava riesce a fare miracoli con pochi mezzi, e l’ambientazione nella steppa russa ricreata in studio ha un che di magico, irreale e terribile (ancorché ingenuo: possono coesistere la nebbia e il vento?). La figura del patriarca Karloff è indimenticabile, così come la scena in cui il bambino morto chiama la madre. Di grande impatto è anche il terzo episodio, La goccia d’acqua, dal racconto di Guy de Maupassant. Girato tutto in interni, è una breve, intensa lezione di come si crea il terrore al cinema. Un’infermiera viene chiamata al capezzale di un’anziana signora, morta d’infarto mentre partecipava a una seduta spiritica. Secondo la superstiziosa domestica, sarebbero stati gli spiriti dei morti ad ucciderla. L’infermiera, mentre veste il cadavere, prima scaccia una mosca poi viene attratta da un anello che la morta porta al dito. Glielo toglie ma inavvertitamente lo fa cadere. Per recuperarlo, sbatte contro il comodino e rovescia un bicchiere. L’acqua comincia a gocciolare. Tornata a casa, l’infermiera vede volare una mosca (la stessa?) e risente la goccia d’acqua. Infine le compare davanti il fantasma della morta, che le viene incontro per ucciderla. Ma in realtà è l’infermiera a strangolarsi con le sue stesse mani. La mattina dopo, viene rinvenuto il cadavere. La padrona di casa sostiene di non aver toccato nulla, ma la polizia s’accorge che dal dito dell’infermiera è stato strappato un anello. La padrona di casa guarda il volto del cadavere, e con estremo terrore si rende conto che gli occhi della morta, malvagi, vendicativi, sono fissi su di lei. Perfetto nell’ambientazione, superbo nella cura dei dettagli, oscuro e cupo ma con luci quasi psichedeliche che s’accendono fuori dalle finestre, La goccia d’acqua è, ripetiamo, un saggio di regia e d’inventiva. Inventiva che Mario Bava dimostra di possedere in quantità industriale anche nella chiusura del film: il narratore saluta gli spettatori cavalcando di gran carriera, poi il regista carrellando indietro scopre il “trucco”. Il cavallo è finto e gli alberi sono mossi dai tecnici. Un finale non convenzionale per un film dell’orrore, eppure efficace. Famosa (e illuminante) è la risposta che diede Bava a chi gli chiedeva perché avesse utilizzato un cavallo finto. «Oh, bella! Perché avevo solo un cavallo di legno a disposizione». Da notare che la sceneggiatura è stata scritta dal regista (qui anche direttore della fotografia) insieme a Marcello Fondato e Alberto Bevilacqua.
a cura di Roberto Fini