Il patto di Carmelo Massimo Tidona

Seduto sul pavimento in pietra, al centro di un complicato simbolo circolare, osservava il pulviscolo danzare pigramente tra i raggi del primo sole, invidiando quell'inconsapevole libertà che a lui era negata.
I disegni arcani che lo circondavano apparivano innocui a chi non ne conosceva il significato, e lo erano per chi non ne subiva l’influenza. Lui non apparteneva a nessuna delle due categorie.
Allungò un braccio che si sarebbe potuto definire ossuto, se solo vi fossero state ossa in quel simulacro che chiamava corpo, e penetrò con un dito adunco e artigliato l’aria davanti a sé, come se avesse voluto saggiare per l’ennesima volta ciò che lo tratteneva. Giunto al limite del circolo, toccò qualcosa che non esisteva, se non per lui, ricevendone una sensazione di solidità e leggero disgusto.
Non sarebbe mai riuscito a uscire da lì con le sue sole forze. Del resto, non aveva importanza.
Quella prigione era una precauzione, nulla più, era ben altro a tenerlo bloccato in quel mondo a cui non apparteneva, costringendolo a servire un essere che considerava inferiore. Se anche fosse riuscito a fuggire, non avrebbe potuto andare lontano.
Ma il tempo passava in quel mondo, passava per tutti, anche per lui, sebbene non su tutti avesse lo stesso effetto. E quella sarebbe stata la chiave della sua liberazione… o della sua vendetta. Negli anni, aveva iniziato a desiderare sempre meno la prima e sempre più la seconda.
Anche quel giorno non dovette attendere molto prima di ricevere il familiare richiamo. Il suo “padrone” – quanto disprezzava la sola idea di poterne avere uno – aveva bisogno di lui per qualche inutile compito.
Percepì un cambiamento attorno a sé e seppe che la sua gabbia invisibile, per il momento, era aperta. Sgranchendosi le piccole ali membranose, apparentemente troppo piccole per poter sostenere il peso del suo corpo, si levò in volo e si diresse con maligna flemma verso la stanza da letto, dove l’uomo lo attendeva.
Fissò con odio quella figura canuta e raggrinzita, coperta fino al mento dalle pesanti coltri. Desiderò una volta ancora di poter porre fine alla sua misera vita, sapendo che comunque sarebbe terminata molto presto anche senza il suo intervento.
“Che vuoi stavolta, vecchio?” gli domandò con voce sgraziata. Aveva imparato a parlare in quel complicato modo dei mortali, facendo vibrare l’aria attraverso la gola, ma il risultato non si avvicinava neppure a quello di una voce umana.
“Vammi a prendere dell’acqua.” gli rispose il mago a fatica.
Ecco come si era ridotto. A fare il cameriere. Se almeno avesse potuto sfogarsi in qualche modo, portando caos e distruzione ai nemici del “padrone”, scatenando i suoi poteri contro qualcuno, o qualcosa… Invece: acqua.
Eseguì il compito che gli era stato richiesto, non potendo fare altrimenti, ma non volle perdere l’occasione di perorare ancora una volta la sua causa.
“Sei sempre più debole, vecchio. Stai per morire e lo sai. Puoi ancora liberarmi, farmi tornare al mio mondo.”
“E perché dovrei farlo?”
“Perché sai cosa farò una volta libero, se non mi rimanderai indietro.”
“Tu non sarai libero. Ricorda il patto.” grugnì l’uomo con più forza di quanta ne avesse in corpo, dovendosi poi interrompere per dar sfogo a un accesso di tosse.
Lui aspettò diligentemente che ricominciasse a parlare, anche se già conosceva le parole che avrebbe pronunciato.
“Hai accettato di non fare danno alcuno alla mia famiglia, e di servire fedelmente me e i miei discendenti. La mia morte non cambierà nulla.”
“La tua discendenza non sarà eterna.” gli ricordò.
“Questo è un problema a cui penserà mio figlio, e suo figlio dopo di lui. Sa cosa deve fare.”
“Ripensaci, vecchio. Se sarò libero, e non potrò tornare indietro, sarà tua la colpa di quello che accadrà.”
“Tu non sarai li…” urlò il mago, ma la voce gli si spezzò in gola mentre annaspava in cerca d’aria, poi il suo sguardo si spense. Il suo modo di vedere il mondo cambiò all’improvviso, e si rese conto di sentirsi diverso.
“Cosa mi hai fatto?” domandò al piccolo demone
“Nulla. Non posso farti alcun male, rammenti. Sei morto, ma non per mano mia.”
“E perché sono ancora qui?” gli chiese, constatando di essere non più sdraiato nel letto ma fluttuante poco sopra di esso. Temendo ciò che avrebbe visto, si rifiutò di abbassare lo sguardo verso il cuscino.
“Ti ho trattenuto io.”
“A che scopo? Non posso più liberarti ora.” La sua voce non era più debole e affaticata, sembrava aver ritrovato l’antico vigore.
“Lo so. Non hai più potere su di me, né purtroppo io su di te.”
“Allora lasciami andare.” protestò il fantasma.
“Lo farò, non posso trattenerti a lungo comunque. Ma volevo che tu sapessi una cosa prima di andare, vecchio.”
“Dilla, dunque, e lasciami.”
“Sappi, vecchio”, gli rispose “che avresti dovuto passare meno tempo ad assicurarti della mia fedeltà… e molto più a pensare a quella di tua moglie.”
E l’orrore negli occhi del fantasma, mentre svaniva con la comprensione di ciò che aveva appena udito, fu la prima gioia della sua nuova libertà.