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Vermi di Carmelo Massimo Tidona

Sul legno scuro del tavolo, il piccolo verme biancastro spiccava come una falce di luna nel cielo notturno.
Laura, dalla sua sedia, stava ferma a osservarlo con quell'ingenuo entusiasmo che nasce quando ci si trova di fronte a un'opera della natura talmente comune da averla dimenticata.
Il vermetto si contorceva sul posto, incurvandosi e agitandosi come una tartaruga rovesciata sulla schiena, senza fare il minimo progresso.
Mentre si domandava senza una vera ragione se i vermi avessero, dopo tutto, una schiena, Laura pensò che era curioso che fosse giunto fin lì, al centro del tavolo, e ora non sapesse andare oltre.
Dopo un po' staccò un angolino di pagina dalla rivista che stava leggendo e lo usò per raccogliere il verme con delicatezza. Si alzò, uscì nel giardino dietro la casa portandolo con sé, si chinò e lo depositò nel terreno. Quello era il suo posto.
Poi si raddrizzò e alzò lo sguardo al cielo, verso una luna quasi piena che si affacciava tra le nubi rade, e respirò a fondo l'aria della libertà. Quello era il suo posto, dove era nata e cresciuta, e adesso, dopo tanto tempo, era di nuovo davvero suo.
      
Click.
La fiamma si alzava dritta dal parallelepipedo di plastica e metallo e Laura la fissava come affascinata, persa in realtà nei propri indistinti pensieri.
Click.
Il dito si sollevava e l'accendino tornava a spegnersi, ridiventando un oggetto morto, o forse morente visto il calore residuo che pian piano si dissipava.
Click.
La fiamma ricompariva, sempre identica, come non fosse mai andata via. Era di nuovo viva, resuscitata da un semplice gesto. Era un peccato che per gli uomini non funzionasse così. O forse, dopo tutto, un bene.
Click.
Click.
Click.
Si rese conto solo dopo un po' che Dario, seduto dietro il volante, le stava parlando.
«Scusami, hai detto qualcosa?», gli domandò, distogliendo lo sguardo dall'accendino spento.
«Ti ho solo chiesto se hai iniziato a fumare», rispose lui.
Lei lo guardò per un istante senza comprendere, poi lo sguardo le cadde di nuovo sulla sua mano e su ciò che conteneva.
«Ah, no, no, figurati. Questo era di Carlo. Non so neanche perché l'ho tenuto.»
«Non come ricordo, immagino.»
Laura rivolse al collega un sorriso amaro. Andavano in ufficio assieme tutti i giorni, da anni, era inevitabile che parlassero lungo il percorso, e che le loro conversazioni divenissero sempre più personali col tempo. Lui sapeva molto della sua travagliata vita matrimoniale, della sua passata vita matrimoniale. Non tutto, certo, ma abbastanza da capire che lei non aveva nessuna voglia di conservarne il ricordo.
«No, no davvero. Avrò pensato che può sempre tornare utile. Più di lui, comunque.»
«Hai poi saputo dove se ne sia andato?»
Lei si strinse nelle spalle. «Non mi interessa. In ogni caso, non sarà mai abbastanza lontano.»
     
La chiave entrò nella toppa solo al terzo tentativo, ostacolata dal tremolio della mano e dalle lacrime che velavano gli occhi di Laura.
Le era successo altre volte di faticare a inserirla, spesso per gli stessi sintomi, ma non  per la stessa ragione, perché questa volta stava ridendo.
Forse era anche un po' ubriaca, giusto un pochino, ma non le interessava. Doveva renderne conto solo a sé stessa, e al momento si sentiva molto disponibile a perdonarselo.
Accese la luce nell'ingresso e sussultò trovandosi qualcuno davanti, poi realizzò di star guardando lo specchio e scoppiò in una nuova risata.
Certo, dovette ammettere, la sua sorpresa era giustificata. A vedersi così, in abito lungo e tacchi alti, col trucco sul volto che andava un po' oltre il solito strato di fondotinta messo più per occultare che per abbellire, faticava a riconoscersi. Non sembrava tanto essere di ritorno da una cena coi colleghi, la prima a cui avesse mai potuto partecipare, quanto giungere da un mondo parallelo, uno in cui la sua vita era diversa. No, era stata diversa, perché ora i due mondi si erano ricongiunti, e il passato non sarebbe tornato a tormentarla.
Poggiata la borsetta sulla specchiera, andò in camera da letto. Stava per iniziare a spogliarsi quando qualcosa le cadde su una spalla, qualcosa di piccolo e viscido.
Voltò lo sguardo e vide un piccolo verme bianco che si agitava sulla sua pelle nuda. D'istinto lo spazzò via con un colpo del dito. Di norma insetti e vermi non le causavano paura o repulsione, ma non per questo sentirseli camminare addosso era piacevole. Ma da dove era arrivato?
Sollevò lo sguardo e rimase attonita a fissare il soffitto.
Decine, forse centinaia di vermi dello stesso tipo, bianco-giallastri con un puntino nero a un'estremità, se ne stavano lì a costellare la volta come fosse stata la cosa più normale del mondo. Alcuni strisciavano senza una meta apparente, altri erano arrotolati in piccole spirali. Qualcuno pendeva da un lato, reggendosi solo con una metà del corpo, sul punto di fare la fine di quello che aveva appena scacciato.
Era uno spettacolo molto insolito. Nonostante il giardino e le piante di fuori, non aveva mai avuto un'invasione del genere in casa, e l'idea di andare a dormire sotto un cielo di vermi non le piaceva affatto. Pensò a cosa avrebbe potuto fare.
Montare su una scala e portarli fuori uno a uno era impensabile. Rispettare la natura era un conto, passare una notte insonne per aiutarla a traslocare era un altro. Quelle creature avevano invaso il suo territorio, e le avrebbe trattate da invasori.
Ricordava di avere dell'insetticida in bagno. Anche se era per le formiche e gli scarafaggi, probabilmente sarebbe andato bene lo stesso, ma cosa avrebbe ottenuto? Appestare la stanza e poi farseli cadere addosso comunque?
Dopo un attimo di riflessione, calciò via le scarpe, si sollevò il vestito con le mani e uscì in corridoio, diretta allo sgabuzzino. Fece ritorno poco dopo armata del suo fido aspirapolvere, su cui aveva montato tutte le prolunghe disponibili.
Attaccò la spina, premette il pulsante e il ruggito dell'apparecchio squarciò il silenzio della notte. Per fortuna casa sua era abbastanza isolata e nessuno sarebbe venuto a lamentarsi. Aveva fatto rumori ben peggiori senza che il resto del mondo ne venisse a parte.
Con calma e dedizione, salendo in piedi sul letto quando era necessario, aspirò gli intrusi uno a uno, finché non riuscì più a vederne.
Poi, per buona misura, spruzzò comunque l'insetticida e andò a dormire nella stanza degli ospiti.
     
Vrrrrrrr... uhmmmmmm...
Il suono del distributore riusciva a riempire ogni angolo della piccola sala d'aspetto dell'ufficio, mentre il macchinario eseguiva chissà quali complicate operazioni per produrre un bicchiere di caffè troppo caldo e moderatamente imbevibile.
Suo malgrado, Laura se lo immaginava come il rombo di un piccolo camion pieno di omini microscopici che andavano a raccogliere i grani di caffè, li tostavano, li macinavano... e poi con ogni probabilità li gettavano via, versando al loro posto nel bicchiere qualche polverina chimica da mescolare all'acqua bollente.
Mentre aspettava di poter prelevare la bevanda, fece scorrere lo sguardo sulla macchina e scorse un piccolo verme bianco strisciare tra il display e la fessura per inserire le monete.
Non assomigliava a quelli della notte precedente, eppure vederlo le causò una sgradevole sensazione, come se qualcosa di viscido le stesse strisciando sulla pelle.
Senza pensarci, si voltò e uscì dalla saletta, accompagnata dal click che annunciava che il caffè era pronto.
     
Il fine settimana era da sempre dedicato alle pulizie di casa. Solo di recente, però, Laura aveva iniziato a farle perché era lei a volerlo. Certo, si trattava pur sempre di una necessità, ma aveva smesso di essere un obbligo.
La primavera era sempre più incalzante, il caldo aveva iniziato a farsi sentire, e lei aveva ritenuto opportuno mettere da parte un po' di roba invernale, ormai non più necessaria.
Aveva disposto due pile, ordinate ma non troppo, tra cui aveva suddiviso le cose da portare in lavanderia e quelle che avrebbe invece potuto lavare in casa. Una terza, separata dalle altre, ospitava i vestiti di Carlo: era ancora indecisa se gettarli via o darli in beneficenza.
Dopo aver finito con gli abiti, diede un'occhiata al letto.
La trapunta era ormai troppo pesante per continuare a tenerla, l'avrebbe sostituita con una più sottile, e già che c'era avrebbe cambiato le lenzuola, anche se non era passato molto dall'ultima volta.
Sfilò gli angoli della coperta da sotto il materasso e la tirò a sé, raccogliendola tra le braccia. Stava per portarla al mucchio della lavanderia quando lo sguardo le cadde sulle lenzuola e se la lasciò sfuggire dalle mani.
Dal lato di Carlo, all'altezza del petto, c'era una grossa chiazza giallastra. Una chiazza viva e brulicante.
Sotto i suoi occhi, una miriade di vermi si agitavano in un mucchio scomposto, strisciando sulle lenzuola bianche e gli uni sugli altri, al punto da formare una piccola montagna che sembrava crescere e tendere verso di lei.
Laura provò disgusto e raccapriccio, ma il suo urlo fu di rabbia.
Non si domandò neppure come avessero fatto ad arrivare lì, o da quanto vi si trovassero. Scattò verso il lato del letto, lottando con la trapunta che le si avvolgeva alle gambe, e afferrò il lenzuolo per gli angoli, richiudendolo a sacco attorno alla massa vivente. A passo di marcia uscì dalla porta principale, raggiunse il marciapiede e gettò l'involto nell'immondizia. Poi, senza neanche cambiarsi la tuta informe che indossava per i lavori di casa, proseguì lungo la strada per andare a comprare dell'altro insetticida, a costo di doverne prendere abbastanza da riempire ogni singola stanza della casa.
     
Tlack.
Lo sportello si chiuse e Laura si accomodò sul sedile.
Vrrr... click.
La fibbia della cintura di sicurezza scattò nel suo alloggiamento.
«Buongiorno.»
Lei si voltò a guardare il volto sorridente di Dario e rispose con un mugugno incomprensibile perfino a se stessa.
«Dormito male?», le domandò lui.
Lei grugnì «No», e quasi si spaventò per il suono della sua voce.
«Non si direbbe.»
«Non ho dormito affatto», precisò lei.
«Questo sì che si direbbe. Che è successo? Non sarà tornato Carlo?»
«Carlo?», la domanda la spiazzò per un attimo. «No. Ho problemi con un altro tipo di vermi.»
«Peggiori di Carlo?»
Lei rifletté un attimo prima di rispondere: «Non hanno mani da alzare, almeno». Poi si rimise a giocare con l'accendino.
     
Aveva fatto di nuovo tardi. Tra chiacchiere e pettegolezzi non si era accorta del tempo passare del tempo. O, forse, inconsciamente, aveva fatto di tutto per non accorgersene. Per non dover tornare a casa troppo presto.
Era quasi ridicolo. Negli ultimi anni aveva sempre odiato far ritorno a quell'abitazione, pur facendo di tutto per rientrarvi con la massima puntualità. Ora le cose avrebbero dovuto essere diverse, invece la vita aveva uno strano modo di ripresentare scenari sempre simili.
Ma era casa sua. Un verme di taglia umana non le aveva impedito di aggrapparvisi come a un salvagente, un migliaio o anche un milione di dimensioni normali non l'avrebbero tenuta lontana adesso. Nel peggiore dei casi, poteva sempre chiamare una ditta di disinfestazione.
Aprì la porta, accese la luce e si guardò intorno. Non vide nulla che non avrebbe dovuto esserci.
Anche in cucina tutto era normale.
Andò al frigorifero a prendersi dell'acqua e vide la porta dello sgabuzzino. Socchiusa.
Un nuovo tipo di preoccupazione prese il posto della precedente. Sapeva di non averla lasciata così, e i vermi non aprivano di certo le porte.
Afferrando la bottiglia per il collo come un'arma improvvisata, spalancò lo stanzino con un piede. La luce bianca della cucina proiettò ombre deformi sugli scaffali, ma era vuoto. Non c'era abbastanza spazio perché qualcuno potesse nascondervisi, ciononostante Laura si avvicino con cautela e sollevò la mano ad afferrare la cordicella che accendeva la lampadina nuda sul soffitto. Si ritrovò a stringere qualcosa di molle e appiccicoso e la ritirò di scatto, le dita impiastrate di una sostanza bianchiccia.
La lampadina si accese senza riuscire a illuminare altro che l'interno di un osceno grappolo di corpi bianchi e segmentati, che pendeva dal soffitto come un bubbone gravido di pus.
L'urlo di Laura – accompagnato da una lieve puzza di bruciato, dal rumore della bottiglia che si infrangeva al suolo e dal sinistro scoppiettio di vermi troppo vicini alla lampada – durò pochissimo: la colonia di creature si staccò in una sola volta e le piovve addosso, ricoprendola come una mantella vivente.
Lei chiuse la bocca di scatto, cercando tardivamente di preservarla. Un sapore dolceamaro le si spanse sulla lingua mentre le creature le si agitavano tra i denti e le labbra.
Si piegò e sputò, cercando nel contempo di spazzare via i vermi con le mani. Li sentiva tra i capelli e nella camicia, nelle orecchie e sulle palpebre serrate. Solo i jeans attillati sembravano offrire una qualche protezione, almeno per il momento.
A tentoni arrivò al lavandino, estrasse il sifone e aprì al massimo entrambi i rubinetti, puntandosi contro il violento getto. L'acqua spazzò via quel che poté, a lei parve che non sarebbe stato mai abbastanza.
Si piegò nel lavabo per sputare ancora e ancora, poi si sciacquò la bocca e i capelli e solo dopo si decise a riaprire gli occhi. Un attimo dopo, desiderò non averlo fatto.
C'erano vermi ovunque, sui mobili e sulle pareti, sui vetri e sul davanzale della finestra, sul tavolo e tra i fornelli. Solo un tratto di pavimento, pressoché allagato dalla sua performance, era quasi sgombro.
Non poteva restare là dentro un attimo di più.
A grandi passi, rischiando di scivolare sulla poltiglia che creava calpestando la sua nuova e brulicante moquette vivente, raggiunse la porta più vicina e uscì in giardino.
Non fu solo la combinazione della brezza serale e degli abiti zuppi a farla rabbrividire.
Alla luce della luna, il terreno davanti a lei sembrava rivestito di argento vivo. Un'immane, ininterrotto strato di corpi biancastri ricopriva tutto, concentrandosi nell'angolo più lontano, quello dove ancora non cresceva nulla.
Lì, i vermi strisciavano l'uno sull'altro, ammonticchiandosi in un improbabile collinetta che sembrava ondeggiare come la marea. Se già lo spettacolo era incredibile quanto orripilante, lo divenne ancora di più quando la forma si sollevò e prese ad assumere i pur rozzi contorni di un corpo umano.
La parte inferiore non era che un cumulo informe, salendo però assumeva l'aspetto di una vita, un torace abbozzato, perfino delle braccia pendenti e, in cima, di quella che si poteva senza dubbio alcuno definire una testa.
Alcuni dei vermi che componevano la figura parevano cedere alla legge della gravità e ricadevano al suolo, altri però li sostituivano in un fluire incessante e disgustoso.
L'essere non aveva lineamenti. Laura non aveva bisogno di vederne. Sapeva chi era.
«Vattene!», urlò. La voce spezzata da un misto di collera e orrore. «Vattene! Non puoi più stare qui! Se devo ucciderti un'altra volta lo farò! Mi hai sentito?»
Se l'aveva sentita, di certo non aveva apprezzato, poiché prese a muoversi verso di lei in un'oscena parodia di vita. Quelle che ormai erano percepibili come delle gambe non camminavano realmente, piuttosto si scomponevano e mutavano forma per poi tornare a esistere in una posizione più avanzata. Ma la macchinosità dell'operazione non la rendeva meno veloce.
Laura urlò ancora, stavolta emettendo un verso indistinto, e arretrò, chiudendosi la porta davanti. Rispetto all'esterno, la cucina sembrava quasi ospitale, o almeno lo sembrò per pochi istanti, il tempo necessario perché un'onda di vermi si abbattesse sull'ingresso – il rumore fu assurdamente simile a quello del riso gettato a un matrimonio – e iniziasse a entrare da ogni fessura disponibile.
Lei non rimase ad attendere che la figura si riformasse all'interno; si voltò e fuggì, quasi senza guardare dove stesse andando.
L'ingresso era impraticabile, la marea bianca che vi si trovava le sarebbe arrivata alle ginocchia. E se anche l'avesse superata, fuori avrebbe potuto essere anche peggio.
La porta del bagno le si parò davanti come un'oasi nel deserto e lei la aprì, varcandola in un balzo per poi richiudersela dietro.
Stranamente, la stanza era quasi pulita, solo qualche vermetto sperduto si agitava sulla mensola dello specchio.
Laura non perse tempo a domandarsene la ragione e si gettò verso il mobile accanto al lavandino, afferrando la prima bomboletta di insetticida che riuscì a raggiungere.
Si voltò appena in tempo per vedere la porta cedere all'assalto delle creature, e il mostro – il termine le sembrava ridicolo, ma non avrebbe saputo come altro definirlo – riprendere corpo davanti a lei.
Con un urlo belluino puntò la bombola davanti a sé come un talismano. Ebbe appena il tempo di far saltare il tappo, poi la cosa le si gettò contro e la avvolse in un abbraccio letale e orripilante.
Questa volta Laura era più preparata: serrò le labbra e chiuse gli occhi prima di essere investita, pur sapendo che sarebbe servito a poco. Già sentiva i vermi strisciarle sulla faccia, esplorarle le narici e cercare ogni orifizio che fosse possibile invadere.
Agitò le braccia lungo il corpo, cercando di scrollarseli di dosso, intenzionata a lottare fino all'ultimo.
Poi, le sue dita sfiorarono del metallo che le sporgeva dalla tasca.
In un gesto disperato, afferrò l'accendino e lo tese nel mezzo delle creature.
Click.
La fiammella ricomparve come sempre, stavolta accompagnata da uno sgradevole odore di bruciato. Un piccolo spazio vuoto si creò attorno alla sua mano, una piccola libertà del tutto inutile, come un tempo era stato poter andare al lavoro o uscire in giardino per qualche minuto.
Era riuscita a trasformare quelle piccole libertà in qualcosa di più grande, non intendeva cedere senza provare a rifarlo.
Sollevò l'altra mano, premette l'erogatore col pollice. Vi fu un sibilo e poi un soffio infuocato spazzò la stanza davanti a lei, aprendo uno squarcio nel petto dell'essere, nel petto di quello che era stato Carlo. Laura non poté vederlo ma lo sentì, e orientò la fiamma a destra e a sinistra, sentendo la pressione diminuire, i vermi iniziavano a caderle via dal volto.
Si arrischiò ad aprire gli occhi, scrollando la testa per liberarsi da più vermi possibile.
Non c'era più alcuna forma coerente con lei, solo una miriade di corpi che si contorcevano, alcuni ridotti a poco più che chiazze di bruciato.
Sebbene stesse iniziando a scottarsi lei stessa, puntò la bombola verso ogni angolo della stanza, incurante degli asciugamani e delle tende che prendevano fuoco, e continuò a spruzzare finché il gas non si esaurì.
Poi lanciò un urlo liberatorio.
     
Wooosh.
Il getto violento dell'idrante colpiva come un martello quel che restava della casa: mura annerite e fumo scuro.
Seduta di fuori, avvolta in una coperta, Laura guardava quel che era stato suo ridursi in cenere, cercando di scacciare dalla sua mente quello che aveva vissuto.
Per un attimo si era chiesta se i pompieri sarebbero passati dal giardino, se avrebbero per qualche ragione scoperto cosa si trovava sotto la terra nuda nell'angolo più lontano. Poi si era detta che non le importava.
Non aveva più una casa, ma aveva ancora la sua vita. E se di nuovo avesse perso la libertà, prima o poi se ne sarebbe creata un'altra.