Il frusciare dell’erba alla fine del mondo di Davide Russo

 1.

Lo spazio è anche una dimensione che, per poter essere vissuta, deve essere in qualche modo “addomesticata”. “Essere nello spazio” significa entrare in rapporto con un mondo noto oppure sconosciuto, apportatore di tranquillità e sicurezza nel primo caso o di paura e di sconcerto nel secondo.[1]

 

Mi chiamo Emanuele ed è il frusciare dell’erba che mi ha spinto a raccontare questa storia. Un frusciare sinistro. Pieno di zampe e di creature striscianti.

Mi trovavo in quel periodo presso la città di San Martino per svolgere una ricerca antropologica sul particolare carnevale che si svolgeva in quella zona, coinvolgendo curiosi da tutti i paesi limitrofi. Si diceva a San Martino il Carnevale legasse le persone tra di loro più che altrove. Molto presto avrei capito il perché…

In quella terra sferzata dai venti delle colline e dall’aria delle montagne vicine, l’immagine di trovarsi in uno splendido paesaggio non è affatto scontata.

Dovevo raccogliere i dati per l’università nell’ambito di un progetto di ricerca sulle zone locali e le loro tradizioni folkloristiche. Addentrarsi in quelle zone poco visitate dai turisti è come andare a scoperchiare un vaso dimenticato in cui non guarda più nessuno. Abbandonato o lasciato andare a riempirsi di erbacce in un angolo, a esplodere per le troppe radici o a farsi riempire di merda dai gatti…una simpatica e nuova lettiera!

L’erba frusciava.

Fischiettando un motivo qualsiasi, entrai nel vicolo principale del quartiere. Avevo lasciato la macchina in un parcheggio esterno, all’entrata del paese. Abbassai il mio cappello a falde larghe, ormai ingiallito dalla polvere. Da buona macchietta western, fischiettavo un motivo country-blues, sentito poco prima in macchina. Mi ero portato con me il mio zaino con dentro il taccuino, una macchina fotografica e un registratore. Volevo fare qualche intervista preparatoria.

L’erba frusciava.

Mi diressi in un bar per prendere un caffè. Il luogo odorava di un misto di candeggina e profumi vari di cucina. Un anziano da dietro il bancone mi scrutò con fare indagatore. Mentre bevevo il caffè scuro, divenne stranamente loquace:

«Cosa la porta qui?»

«Sono qui per il Carnevale.»

«Ah, è un turista?»:

«Non proprio, sono un ricercatore.»

«Lavora per l’Università quindi. In cosa?» Il vecchio era stranamente informato.

«Antropologia. Vorrei cercare di capire questa festa. Immagino che ci vorrà proprio un ingegno di un certo tipo.»

«Per cosa?»

«Per fare l’antropologo? Sa, l’uomo è una bestia così strana?»

«Davvero?» la sua lucidità mi colpiva:

«Beh…da qualche parte qualcuno deve pure cominciare.». Non sapevo cosa rispondere.

“O continuare…immagino che vorrà proprio un’intervista.”.

“Uhm…stavo proprio per chiederlo?”

“Siete per caso cugini dei giornalisti?”.

Ero troppo sfrontato. Non si entra così nelle comunità chiuse. Era meglio prima fare la parte del turista scemo che fotografa tutto. Tuttavia, così non sarei mai entrato.

“Può chiedere a tutti i vecchi come me che vede nell’angolo in fondo.” Mi disse il gestore, indicando una serie di signori sorridenti, intenti a giocare a carte con il loro bianchino immancabile in mano.

Non mi ero aspettato un clima così gioviale.

«Lei si chiama?»:

«Gigi.».

«Cos’ha di speciale questa festa? Cosa lascia ai suoi abitanti?» Avevo fatto partire il registratore.

Mi fiondai dal primo di questi anziani avventori.

«Signor…?»

«Giuseppe…chiamami Beppe!» Rispose lui, mettendomi davanti un piatto di patatine e olive.

 

2.

Il mio unico e nobile cuore ha testimoni

In tutti i luoghi d’amore, che andranno svegli a tentoni;

E quando il cieco sonno cadrà sui sensi che spiano,

Il cuore sarà sensuale, anche se cinque occhi si spaccano.[2]

La trovai fuori a cucire, ma lei scappava…! Si allontanava come impaurita, come se io fossi una presenza oscura, proveniente dal suo lontano passato.

L’erba frusciava.

Cercai di descriverlo a parole mie:[3]la presenza era il ricordarsi di esistere per non sparire nel vuoto. Non annegare nel tempo che passa. Combattere il fantasmagorico, la dissolvenza con un gesto perentorio di identità.[4]

Io intanto pensavo a quei brani di testo che mi martellavano nel cranio, mischiati ai pezzi thrash-prog che venivano dalle mie cuffie. Voivod, Annihilator…così stranamente canadesi. Melodie oblique, con testi fantascientifici, arpeggi da ballata misti a chitarre distorte in overdrive, armonici fischianti e batterie tupa-tupa che sapevano tanto di punk/hc, prima dell’arrivo di tutti quei melodici pompeggianti da college (qualcuno ha detto Travis Barker?).

“Ci sono altre donne!” mi urlò una volta, in un dialetto di difficile comprensione, che poi mi tradussero i miei compari.

La lingua parlata da quei popolani era diversa da tutti i gruppi linguistici prevalenti nei dialetti della zona.

I miei compari del bar mi indicavano altre donne, ma il risultato era il medesimo.

La domanda numero 1 era questa: perché le donne scappano, mentre invece gli uomini rimangono a chiacchierare anche troppo?

Le sotto-domande erano: poteva essere un costume o una tradizione locale? Una convenzione culturale?

Annotai tutto nel taccuino.

L’erba frusciava.

Una seconda versione, più schematizzata e ordinata era poi riportata nel tablet, in formato elettronico.

Emergevano altri nomi, come Amalia e Vittorio, che rimanevano sullo schermo del pc.

I maschi scherzavano sulla loro ignoranza, dicevano di non sapere niente, e infatti dai loro discorsi non si poteva comprendere ancora alcunché. L’erba frusciava.

Girando in uno dei vicoli consigliati scorsi, appena fuori da una porta, una massa di capelli biondo cenere che incorniciavano due occhi grigi che mi fissavano. Accennai a chiamarla, ma sentivo solo «Figlia, figlia! Figlia! Torna dentro!». Iniziavo a capire qualcosa. Gli occhi esitavano.

«Camilla, torna dentro»

Allora la porta si chiudeva, sprangata. Inutile diventava il mio bussare sugli stipiti antichi e urlare:

«Aspetta un attimo! Aspetta…aspetta. Voglio solo parlare!».

Rimanevo ancora con un risultato praticamente nullo.

L’erba frusciava,

 

3.

La notte del carnevale vi erano dei fuochi d’artificio che illuminavano il cielo, dipingendolo di mille colori, come se un pittore li avesse spruzzati lanciando il suo pennello verso il cielo.

L’erba frusciava.

La musica degli strumenti tradizionali riempiva l’aria: tamburi, cimbali, flauti, chitarre, trombe e piccoli strumenti ritmici. I bambini accompagnati dai loro genitori erano vestiti con i soliti costumi da supereroi della Marvel o della DC Comics, inframmezzate da qualche principessa Disney. Il vino tipico di San Martino scendeva a fiumi: era quello denso e liquoroso tipico di quelle parti, scuro. Veniva “mesciuto” (versato) nei bicchieri o nelle tazze delle osterie o da bancarelle poste ai lati della strada. Le persone poi si attaccavano al collo il bicchiere.

Io osservavo, filmavo e fotografavo. Non disdegnavo poi un bicchiere di vino in giro, lo facevo scendere nella gola e poi giù ad ubriacare lo stomaco con il gusto dionisiaco dell’ebbrezza!

Cercavo in mezzo alla folla di rilevare quei meccanismi strutturali di inversione così caratteristici dei rituali come il Carnevale, sottolineati già sia da emeriti storici che da antropologi. Inversione dei ruoli, dei costumi, delle convenzioni sociali, dei generi ecc.

E della realtà, degli strani mondi simbolici in cui vive l’uomo ordinario? Cercavo delle costanti strutturali nel rituale del Carnevale di San Martino e mi creavo le mie definizioni provvisorie, sulla base delle mie sensazioni, del vino e delle mie conoscenze pregresse, scribacchiandole sul taccuino macchiato: l’inversione consisteva nel rigirare qualcosa come un calzino, per far sì che appaia completamente diverso, ma i materiali di partenza sono gli stessi.

Mi mischiai alla folla e mi diressi con loro verso ai campi, come guidato da una mano invisibile, in quelle strade strette e polverose, piene di ciottoli. Vi era una terza persona a cui pensare? Un terzo concetto per ampliare la triade fondamentale di questo carnevale? Continuavo a camminare, pestando i ciottoli con i miei sandali tutti impolverati. Sentivo la terra tra le dita dei piedi. Il volume della musica aumentò, sia nel ritmo che nell’intensità.

Ed ecco apparire questi uomini giganteschi, vestiti con del pelo e delle zampe penzolanti e brulicanti dai fianchi e dalle spalle.

No, non erano del tutto umani. Sembravano ragni umanoidi che si reggevano sulle zampe posteriori simili a gambe. Alti, alti quasi tre metri…sovrastavano il più alto degli uomini.

La folla osservava i fuochi nel cielo, come se ne stanno gli stormi di uccelli indifferenti, quando arriva il falco predatore a ghermirli.

Quei bestioni strinsero la folla, le salirono praticamente sopra, afferrando le persone con le zampe laterali tentacolari, che si allungavano attorno come fili, come corde, ammassandoli in gruppi più che numerosi…

Il terzo concetto mi venne allora in mente era “legare”, cioè unirsi, unire elementi diversi in unità più o meno omogenee, più o meno dotate di senso. Fare in modo che diventino indispensabili l’uno per l’altro.

La folla urlava «I Diablos! I Diablos».

Tuttavia, non sembravano disperati; anzi, in una sorta di trasfigurazione sadomasochistica, quando vennero legati ridevano e sembravano pure provare una sorta di piacere, molto forte. In realtà, i lacci erano organici e molto elastici, come tessuto, perché permettevano una certa libertà di movimento, non so se indotta dai Diablos o provocata in maniera autonoma dai catturati. Le persone danzavano dentro a quei lacci. Anche i Diablos ansimavano, era un continuo ansimare collettivo.

La componente di erotismo, di sensualità, presente in quel carnevale era palpabile, pulsante. Gli occhi dei Diablos sembravano illuminarsi della luce della luna. I catturati, mentre ballavano, iniziarono a staccare dei piccoli pezzi dai tentacoli dei Diablos e questo sembrava inebriarli ancora di più.

L’erba frusciava.

 

4.

Mi sentii tirare per un braccio.

Fui trascinato dietro gli alberi di ulivo, in un campo.

Era Camilla, ragazza dai capelli biondi e dagli occhi grigi. Era buio, vedevo solo quegli occhi perforanti e sentivo quei capelli sulla mia pelle. La presa era forte, nonostante il suo corpo fosse molto gracile e minuto. Decisamente salda!

«Ma cosa…?» Annaspavo, volevo dirle tante cose, tutte le domande che mi ero lasciato dietro dall’altra volta.

Mi venne fuori solo un barcollante e balbettante:

«Perché sei scappata l’altra volta?».

Camilla non mi rispose, mantenendo la stessa presa enigmatica di prima, fissandomi con lo stesso sguardo.

Ad un tratto, veloce come una lucertola al sole, chiuse la distanza e mi baciò. Mi sentii come attraversato da una forza di attrazione unica, come una scarica elettrica che mi collegò all’improvviso all’intero universo. Immagini continuavano a scorrere in me, come un flusso visionario.

Non era la solita eccitazione sessuale o di semplice piacere.

Fatto sta, che non potevo muovermi.

Lei mi spinse sdraiato a terra, avvinghiato ancora a lei. Sentivo il mio sesso pulsare e strisciare contro di lei, spingendo affannosamente. Le sue mani cercarono la mia nudità e mi spogliarono, i capelli folti mi coprirono il viso come una carezza, la sua gonna si aprì e mi inglobò.

Non in una maniera ordinaria, ma avevo la sensazione di un corpo che si espandeva sempre più attorno a me come per divorarmi, farmi diventare parte di lui.

Strani tentacoli arrivarono dalla sua bocca, dalla sua lingua fino in gola e poi giù fino allo stomaco, come su fino al cervello. Eravamo connessi.

Dall’interno della sua pelle era come se qualcosa stesse spingendo per bucarla, per stringermi ed entrare al di sotto della mia epidermide. Tuttavia, non provavo dolore, ma solo piacere e desiderio di conoscere.

Era come se Camilla stesse usando il mio corpo per portarmi dall’altra parte del cosmo, percorrendo infinite galassie. Era come se parlasse dal suo interno, che era ormai anche il mio interno, dal suo ventre collegato al mio:

«Vecchia di milioni di anni è la storia. Arriviamo da un’altra parte dell’universo, da un’altra galassia, ma non per colpa nostra. Furono i Dominatori, la razza dei nostri padroni da infiniti eoni, a farlo. Non noi Diablos. Ci fecero entrare in alcuni portali grazie alla loro scienza e poi ci fecero scorrazzare, prendendo possesso di un pianeta giovane.  Era già stato fatto altre volte e così fecero sulla Terra, ma gli umani, nelle loro prime fasi, resistettero strenuamente, ci cacciarono, unendosi. Noi ci ritirammo in questa zona, chiamata poi da loro San Martino. Allora, puniti per il nostro fallimento, perdemmo qualsiasi contatto con i Dominatori, che ci lasciarono qui a cavarcela da soli.

E allora i maschi della nostra specie decisero di raccogliere energia dagli umani, grazie ad un’imitazione di quello che voi chiamavate Carnevale. Diventammo simili a voi esteriormente e vi facemmo divertire, dandovi piacere con i nostri tentacoli e rubandovi le vostre energie vitali, per cercare di riaprire quei portali.

Noi femmine ci ribellammo a questo, volevamo trovare altri modi: perché tornare dai Dominatori schiavisti?

Ci sono stati degli errori nel Seicento, delle persone sono morte per esaurimento e allora gli ispettori del Regno si sono insospettiti. Ma poi eravamo troppo sperduti, è passato. Con gli anni siamo diventati bravi, ci siamo saputi travestire meglio da umani, rendendoci uguali a voi, irriconoscibili.

Qualcosa di te rimarrà dentro di me e vedremo cosa ne verrà fuori.

Il nascituro potrebbe essere un’altra strada…

Intanto, eviterò per un po’ questo progetto di apertura del portale.

I Dominatori sono crudeli, vogliono solo la distruzione delle altre razze o la loro riduzione in schiavitù.

Noi non stiamo male qui, nonostante le leggende propugnate dai maschi sul nostro vecchio pianeta.

Prega perché quel portale non si apra mai, perché troppo grande potrebbe essere l’orrore!

Lascia perdere la tua ricerca, hai già trovato troppo per te, troppe informazioni per un mero studioso di antropologia.

Lasciami qualcosa di te e ora vai…!».

Un flusso energetico insorse di colpo, come per riportarmi indietro da quelle epoche e galassie remote. Un corpo che si modifica in un canale di energia, attraversando una moltitudine di mondi connessi. I suoi occhi-il suo corpo-l ’amplesso-il mio sperma-il portale e i Dominatori!

Ero confuso, stordito, tramortito, frastornato da un viaggio troppo grande.

Brancolando nel ritorno all’esistenza naturale terrestre, ubriaco di troppo vino cosmico, mi staccai da lei che mi lasciò andare da sé. Mi sentivo ancora tutto umido e appiccicoso, ancora segnato sulla pelle e maledetto nello spirito.

Raccolsi i miei vestiti, ripresi il mio zaino e mi inoltrai tra gli alberi, mentre le persone erano ancora avvinghiate ai maschi. Camilla era ancora in mezzo al campo a ricomporsi. Quando mi girai per incrociare ancora il suo sguardo e guardarla un’ultima volta, lei era già scomparsa, sfuggevole come sempre.

Mi era venuta voglia di un ulteriore bacio per assaporare ancora il succo del sapere intraducibile.

Sapevo anche troppo ed ero privo di energie.

Mi feci strada tra gli alberi e campi verso il parcheggio, saltando il baccanale.

San Martino era uno “spazio altro” creato a immagine di una razza aliena, che però sapeva ben nascondersi nel folklore.

Giunto al parcheggio esterno, buttai tutti i miei averi nel bagagliaio e, con una sgommata, lasciai il paese dei Diablos, consapevole che non avrei mai finito il mio progetto di ricerca sui territori locali.

Sicuro che non mi avrebbe creduto nessuno, che chiunque dei miei colleghi mi avrebbe ritenuto pazzo.

L’erba frusciava, e io scrissi questo testo anni dopo, per togliermi questo oscuro pensiero dalla mente:

Ti Rivedrò Mai Aliena Spettrale.

Camilla, madre di nostro figlio?

 

L’AUTORE

Davide Russo nasce a Milano il 5 aprile 1987.

Lavora come educatore scolastico, principalmente alle scuole medie ed elementari e adora stare “in mezzo alla mischia”. con bambini e ragazzi, per usare una metafora rugbistica a lui molto cara.

Suona il basso, sia elettrico che acustico, e pratica per passione arti marziali, in entrambi i casi con varie e diversificate esperienze.

Gli piace leggere e scrivere in maniera altrettanto onnivora ed eterogenea, sperimentando con i generi e le soluzioni.

Per il resto, è vegetariano e vive in campagna con la sua compagna, suo figlio e i suoi tre gatti.

Ha scritto alcuni articoli pubblicati su riviste online, alcuni racconti presenti in raccolte della Colomò Edizioni e fa parte del Gruppo Telegram Lovecraft Italia.

 


[1] U. Fabietti, Elementi di antropologia culturale, Mondadori Università, Città di Castello 2009, p. 107.  Anche lo spazio si riveste spesso di valenze qualitative nelle diverse culture, costituendo un elemento centrale per la memoria di un gruppo, cioè la sua memoria sociale. Da tutto questo sorge la necessità, presente in tutte le culture umane, di concepire un centro che valga come punto di riferimento e di sicurezza: un luogo noto e controllabile. 

[2] D. Thomas, Poesie, Edizione speciale per il Corriere della sera, RCS Quotidiani Spa, trad. di R. Sanesi, Milano 2004, p. 91

[3] Parole chiare? Nodi o nuclei di quello che sto cercando? Almeno a livello concettuale?

[4] Ecco invece le parole degli altri, quelli più autorevoli, a cui mi ispiravo senza pudore e che molti avranno riconosciuto:

U. Fabietti, Elementi di antropologia culturale, op. cit, p. 125: “La presenza a cui De Martino fa riferimento è una condizione che l’essere umano non cessa di costruire per sottrarsi all’idea, angosciosa, di non esserci. De Martino descrisse infatti l’emersione del pensiero magico come primo tentativo coerente di affermare la presenza umana nel mondo. Il mago (come lo stregone) è la figura centrale di questo drammatico tentativo di superare l’annientamento, tentativo che coincide con l’affermazione del mondo magico come spazio di pensiero e di azione in cui l’uomo afferma la propria «volontà di esserci di fronte al rischio di non esserci».”[4]

Illustrazione di Flavio Deri.


  
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