Principessa di avorio e di ebbrezza di Jean Lorrain

Era una sdegnosa e fredda figlia di re: sedici anni, occhi grigi, e così bianca che le sue mani si sarebbero dette di cera e le sue tempie di perle.

Figlia di un vecchio re guerriero, sempre occupato in lontane conquiste, lei era cresciuta in un convento in mezzo ai sepolcri dei re della sua stirpe e la sua prima infanzia era stata curata dalle monache.

Il convento in cui ella aveva passato i sedici anni della sua vita, era situato nell’ombra e nel silenzio di una foresta secolare. Era un luogo severo, al riparo dalle vie e dal passaggio dei boemi, e nulla vi penetrava tranne la luce del sole e anch’essa vi arrivava indebolita attraverso la spessa volta del fogliame delle querce.

Al vespro, la principessa usciva dal recinto del monastero e passeggiava lentamente scortata da due file di suore in processione. Era seria e pensierosa, come oppressa dal peso di un segreto ed era così pallida da far pensare che sarebbe presto morta.

Una lunga veste bianca e grandi trecce d’oro. La principessa era bionda come il polline dei gigli e il vermeil dei vasi d’altare.

Intorno a lei, in aprile, le scarpate si riempivano di fiori di primavera e di foglie morte nell’autunno che parevano coperte di sangue. E, sempre fredda e pallida nella sua veste di bianca, in aprile come in ottobre, nel giugno ardente come in novembre, la principessa passava sempre silenziosa ai piedi delle querce rosse o verdi.

D’estate, teneva in mano dei grandi gigli bianchi nati nel giardino del monastero; e la principessa era anch’essa così fragile e bianca che la si sarebbe detta loro sorella.

In autunno invece, ella tormentava fra le sue dita i fiori della digitale violacei colti lungo i margini della radura, e il rosa malato delle sue labbra assomigliava al porpora vinaceo di quei fiori. E, cosa strana, ella non strappava mai i petali delle digitale ma continuava a baciarli; mentre invece le sue dita trovavano piacere nel lacerare i gigli. Un sorriso crudele appariva allora sulla bocca della principessa e si sarebbe detto che compiva qualche rito oscuro che corrispondeva a qualche azione lontana. Era infatti una cerimonia d’ombra e di sangue.

Ad ogni gesto della principessa vergine erano legate le sofferenze e la morte di un uomo. E da ciò il suo sorriso quando baciava la digitale o distruggeva i gigli tra le sue belle dita lente. Ogni giglio sfogliato era un corpo di principe o di giovane guerriero colpito nella battaglia. E ogni digitale baciata era una ferita aperta, nel sangue di un cuore.

Da quattro anni ella conosceva l’incantesimo e prodigava i suoi baci ai velenosi fiori rossi, e massacrava senza pietà i bei gigli candidi, dando la morte con un bacio, prendendo una vita con una stretta.

Ogni sera il cappellano del convento, un vecchio monaco cieco, riceveva la confessione dei suoi peccati e la assolveva; poiché i peccati delle regine dannano soltanto i popoli e l’odore dei cadaveri è un incenso ai piedi del trono di Dio.

NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio BissoliJean Lorrain, pseudonimo di Paul Alexandre Martin Duval (1855 – 1906), autore francese poco conosciuto in Italia è stato un poeta e scrittore e uno dei più scandalosi personaggi della Belle Époque. Apparso nel 1902 Principessa di avorio e di ebbrezza è un piccolo gioiello, un’opera influenzata dalla pittura perversa del periodo e pubblicato per la prima volta in italiano su Planet Ghost.


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