L’apprendista becchino di Serena Aronica

[…] Il nero stormo fendeva il cielo a colpi d’ali; al loro passaggio i boschi si facevano bui e silenziosi, i fiumi torbidi e scuri e le luci delle lampade lasciate accese sotto i portici delle case appassivano. Parevano trainare, nel loro volo, il minaccioso temporale che gli rotolava dietro, rumoroso come i barattoli attaccati a una macchina di freschi sposini. […]

L’apprendista becchino di Serena Aronica, edito dalla Delos Digital per la collana Folclore Oscuro al numero 2 della suddetta, a cura di Massimo Junior D’Auria.
È un racconto lungo di genere Horror e si sviluppa in un’atmosfera gotica e inquietante, intrecciando elementi di folclore, tensione sovrannaturale e introspezione psicologica. Lone Peack, una cittadina apparentemente placida, diventa teatro di eventi macabri e misteriosi. I protagonisti, Mort Hitwitch, un becchino dal passato tormentato, e il giovane Toothgood, un orfano affascinato dal mestiere del suo mentore, si trovano coinvolti in una lotta contro forze sovrannaturali, incarnate da stormi di corvi e la strega Molly Harridan.
La storia alterna momenti di tensione crescente a riflessioni profonde, esplorando temi come l’eredità, la crescita personale e la resistenza contro il male. Il legame tra Mort e Toothgood evolve in maniera naturale, creando un fulcro emotivo che sostiene l’intera narrazione. La trama si dipana in modo avvincente, con colpi di scena ben dosati e un equilibrio tra orrore e momenti più leggeri.
Lo stile di Serena Aronica è evocativo e ricco di dettagli, capace di trasportare il lettore in un mondo oscuro e vibrante. L’autrice utilizza descrizioni vivide per creare un’atmosfera densa, immersiva e inquietante. Le ambientazioni, dai cimiteri ventosi alle soffitte polverose, sono ben delineate, rendendo ogni scena visivamente coinvolgente.
I dialoghi sono naturali, spesso intrisi di sottile ironia, e contribuiscono a delineare i personaggi. Tuttavia, in alcuni punti, la prosa può risultare eccessivamente descrittiva, rallentando leggermente il ritmo della narrazione.
Il finale è un climax intenso, che mescola azione e rivelazioni emozionanti. L’autrice eccelle nel creare un mondo vivido, dove il sovrannaturale si fonde con il reale, trasportando il lettore in una Lone Peack viva e minacciosa. Mort Hitwitch e Toothgood sono ben caratterizzati, con storie personali che arricchiscono la trama e li rendono decisamente “vivi”.
In fondo all’e-book, vi sono Le Note del curatore che contestualizzano il racconto evidenziando la ricchezza e la fluidità della tradizione popolare, in particolare quella legata ai benandanti, figure folkloriche nate “con la camicia” (sacco amniotico) e protettrici dei raccolti e delle comunità rurali contro le streghe. Serena Aronica arricchisce questa credenza tradizionale collegandola simbolicamente ai denti, emblemi di vita e vitalità, che assumono un ruolo centrale nella crescita del giovane Toothgood. Il curatore sottolinea come il racconto mescoli abilmente tradizione e innovazione, mostrando la perenne vitalità del folclore.

L’AUTRICE
Serena Aronica, Roma, classe 1979 è cresciuta tra montagne di VHS, libri e film e ha trovato sé stessa a quindici anni davanti a una macchina per scrivere (in ghisa!) della Olivetti. Nel 2012 ha iniziato la sua lunga
collaborazione con lo storico portale Splattercontainer. Ha pubblicato
un romanzo thriller nel 2014 e una raccolta di racconti nel 2022 per la
CatBooks Publishing di Alda Teodorani. Numerosi suoi racconti (horror,thriller, fantasy) sono presenti in antologie e riviste di genere. Nel 2015 è stata finalista al Trofeo RiLL con il racconto Black MississippiUna moglie perfetta, racconto breve, è stato inserito nell’antologia Best Italian Horror Flash Fiction a cura della casa editrice Independent Legions.
Nel 2021 il suo racconto I 12 passi è stato finalista al concorso I racconti del gatto nero del ToHorror Fantastic Film Fest. Nel 2020 ha assaltato anche il regno dei podcast realizzando il suo contenitore di racconti: Black Ink. È inoltre co-fondatrice del progetto Coven Riunito.

L’Apprendista Becchino
Autore: Serena Aronica
Editore: Delos Digital
Collana: Folclore Oscuro
Pagine: 48
ASIN: ‎ B0DQMXGDVD
Costo ebook: 2,99 €

A cura di Flavio Deri



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Plastic Ocean dei Disease Illusion

DISEASE ILLUSION “Plastic Ocean”

Full-length, Independent (2024)

Tornano i nostrani Disease Illusion con un terzo album davvero ben fatto. Melodic death metal nel vecchio stile, con i giusti inserti di parti più doom e le tastiere che aggiungono un clima malinconico a dei pezzi comunque belli tosti. Si ha comunque un equilibrio costante tra violenza ed atmosfera; brani come “Displaced” o “Eventide” mettono in risalto un buon lavoro di chitarra che richiama il metal classico, ma anche un approccio al tempo stesso melodico ma potentissimo.

Ottimo il lavoro di batteria di Alessio Chierici, una fucina di parti in doppia cassa ma anche di tempi nei quali occorre badare maggiormente alla raffinatezza. La band in questo senso fornisce dei riff sempre innovativi, che spesso richiamano anche il modern metal/djent.

Il risultato d’insieme quindi convince eccome: si prenda il finale di un brano come “Inject Me”, dove la band picchia pesantemente e cerca di creare qualcosa di realmente innovativo, dove la malinconia del melodic death metal incontra i tempi sincopati e le chitarre insostenibili del già citato djent metal. Questo appena citato è un brano da incorniciare perchè ha momenti inaspettati e perchè la band non si limita in nessun ambito, rimanendo certamente ancorata alla matrice melodic death, ma inserendo tante variazioni e un feeling opprimente.

In virtù di come l’album è stato suonato, prodotto, pensato, non resta che fare un grande complimento ai Disease Illusion, una band che saprà accontentare tante frange di ascoltatori, dai classici appassionati del death metal melodico, ai metal-corers, fino agli amanti dell’alternative metal di band come Jinjer e Meshiggah. Ottimo lavoro.

Tracklist:
1. Plastic Ocean
2. Reborn
3. Our Lady of Self-Defense
4. Inject Me
5. No Ground
6. Glass and Steel
7. I Am the Enemy
8. Eventide
9. Invisible
10. Displaced

Line-up:
Federico Venturi – Guitars, Songwriting
Alessandro Turco – Guitars, Songwriting
Alessio Chierici – Drums, Songwriting
Joy Lazari – Vocals, Lyrics
Davide Laugelli – Bass

A cura di Knife




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I dodici apostoli e altri incubi di Eleanor Scott

La raccolta I dodici apostoli e altri incubi di Eleanor Scott, pseudonimo di Helen Leys, rappresenta un raro e prezioso gioiello della narrativa soprannaturale inglese. Pubblicata da Dagon Press e curata con grande competenza da Bernardo Cicchetti, questa antologia porta per la prima volta al pubblico italiano racconti che sono rimasti a lungo trascurati, se non da una ristretta cerchia di appassionati.

Helen Leys (1892-1965), educatrice e scrittrice, ebbe una carriera letteraria breve ma interessante. Dopo il successo del controverso romanzo War Among the Ladies (1928), pubblicò Randalls Round (1929), un’opera anomala rispetto al resto della sua produzione, composta da racconti del soprannaturale intrisi di folklore e atmosfere gotiche. Dopo questa raccolta, Eleanor Scott abbandonò le storie di fantasmi per dedicarsi a biografie e saggistica, lasciando però un’impronta duratura nel genere horror.

È grazie a Richard Dalby, il celebre studioso e curatore di letteratura fantastica, che Randalls Round ha trovato nuova vita con una ristampa nel 1996 per la prestigiosa Ash-Tree Press, ormai quasi introvabile. Dalby riconobbe il valore di queste storie, apprezzandone la capacità di inserirsi nella grande tradizione jamesiana, pur conservando una voce originale. Una delle peculiarità di questa raccolta è che molti dei racconti trovano origine nei sogni della stessa autrice, un aspetto che conferisce loro un’atmosfera surreale e disturbante. L’esperienza onirica diventa il terreno fertile da cui nascono figure inquietanti e situazioni di ambiguità sottile, capaci di insinuarsi nell’inconscio del lettore.

Tra i racconti più memorabili troviamo “Randalls Round”, che esplora le misteriose tradizioni di una danza popolare nelle Cotswolds, e “La stanza”, dove sei uomini vivono esperienze diverse, ma ugualmente inquietanti, in una camera infestata. “La fattoria di Simnel Acres” si distingue per la sua descrizione vivida di un giardino maledetto e di un antico rituale della notte di Lammas, mentre “La vecchia signora” presenta una studentessa di Oxford alle prese con una figura malvagia dal fascino sinistro. Particolarmente significativi sono i racconti che mostrano l’influenza di M.R. James. “I dodici apostoli”, con il suo enigma archeologico e il mostro nascosto, richiama Il tesoro dell’abate Thomas, mentre “Celui-là” riprende il tema dell’oggetto maledetto già esplorato in Fischia e verrò da te, ragazzo mio. Pur evidenti nei richiami, queste storie non si limitano a emulare James, ma reinterpretano con originalità le sue trame, arricchendole di elementi folkloristici e riflessioni sulla fragilità della razionalità umana. Un altro punto di forza della raccolta è il modo in cui Scott intreccia il folklore inglese con una profonda inquietudine psicologica. “Randalls Round” si configura quasi come un elogio al Ramo d’oro di Frazer, mentre “Alla fattoria di Simnel Acres” evoca il potere rituale dei cicli stagionali. Ogni racconto sembra voler ricordare al lettore come il passato non sia mai del tutto sepolto e come antichi rituali continuino a esercitare il loro potere oscuro sul presente.

La traduzione di Bernardo Cicchetti riesce a preservare la ricchezza stilistica e l’atmosfera densa della prosa originale, restituendo intatta l’esperienza perturbante che caratterizza le opere di Scott. Inoltre, l’apparato critico curato da Cicchetti arricchisce la raccolta, offrendo al lettore italiano un contesto approfondito per apprezzare appieno il valore letterario di questi racconti.

I dodici apostoli e altri incubi è un’opera che merita un posto d’onore tra gli appassionati della narrativa fantastica e gotica. Le storie di Eleanor Scott, con la loro matrice onirica, i richiami al folklore e l’influenza jamesiana, rappresentano un punto di incontro perfetto tra la tradizione e l’innovazione. Questo volume è un’autentica riscoperta letteraria che dimostra come l’orrore, quando radicato nei miti e nei sogni, possa toccare corde profonde e universali.

I dodici apostoli e altri incubi
Autore: Eleanor Scott
Editore: Dagon Press
Pagine: 258
ISBN: 979-8301649493
Costo: 15,95 € cartaceo

A cura di Cesare Buttaboni


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Il toro di Rachel Hartfield

L’anello del toro, l’anello di pesante ferro incastonato nei grandi blocchi di pietra, era per me il centro dell’incanto. Da quello si irraggiava tutto il resto: perfino l’aia, trasformata in un giardino murato, era solo un’ambientazione per questa cosa favolosa. I miei ricordi hanno la qualità selettiva dell’età della fanciullezza e vedo, sempre sotto il sole splendente, due lati dell’aia. Cè un’alta scogliera bianca, la casa, e ad angolo retto rispetto ad essa il secondo lato, il lato importante. Qui vedo due stalle abbandonate, e in mezzo a queste uno spazio, una terrazza di mattoni rossi, dove è stato abbattuto un terzo capanno. Piastrelle dai colori tenui, piegate l’una sull’altra, fanno da tettoie alle stalle. Sul pavimento della terrazza i mattoni sono sottili e vecchi, spinti giù dal peso del bestiame. Un enorme muro si trova sul retro della terrazza. È costruito con blocchi di pietra arenaria del posto e contro di esso un albero di fico sfrega le sue verdi mani dolcemente al di sopra dei mattoni. Da qualche parte, sotto i rami, c’è un anello.

Solo la faccenda della pertosse avrebbe potuto convincere i miei genitori a prendere in affitto la fattoria per l’estate. Loro erano amanti dell’ordine e odiavano i cambiamenti e di solito andavamo al mare per un mese. Deve essere stata, pertanto, una grave malattia che li ha esiliati per tre mesi dalla città. Penso anche che a loro sia stata offerta la casa a un affitto basso, perché mio padre era un avvocato con, ancora, poca esperienza. Veniva a trovarci quando poteva durante quell’estate, prendendo scossoni dentro un calesse dalle ruote di ferro dalla stazione al vialetto di pietra. La casa era a una cinquantina di chilometri da Londra, ma questo è tutto quello che so, perché i miei genitori sono entrambi morti e, come persona di mezza età, non riesco a ricordare il villaggio o la contea, che si tratti del Kent o del Sussex. Mi è sempre sembrato un posto fuori del tempo, che ebbe vita solo in quell’estate e non oltre.
Si trova in alto su una collina, la fattoria, e l’essiccatoio del luppolo sul lato sud è stato costruito dentro l’abitazione. Le finestre sul davanti sono ovattate dai campi ondulati di modo che, come mi sporgo in fuori, quella prima sera, posso quasi toccare le pannocchie di mais e camminare su un mare giallo. Lontano nella valle, sulla collina opposta, un’altro essiccatoio di luppolo punta verso l’alto, come un campanile della chiesa. Non ci sono altre case e siamo soli, con un bosco di castagni, faggi e agrifogli che si affollano dietro la casa e su ogni lato del vialetto. In quel bosco le volpi vivono indisturbate.
Non c’è da stupirsi, quindi, che la prima notte in cui abbiamo dormito là io fossi irrequieto, un bambino londinese un po ‘spaventato e strano sotto gli spessi strati del silenzio. La mia stanza si affacciava a sud verso l’aia, come pure la stanza dei miei genitori vicinissima lungo il corridoio, perciò la mia paura era mescolata a un confortante senso di sicurezza. Mi svegliai una o due volte nella notte e udii la voce sottile di un gufo. Molto più tardi mi svegliai di nuovo. Stavolta mi misi a sedere perché pensavo di aver sentito, vagamente distante, il rumore e lo scivolone di zoccoli duri sui mattoni, come se fosse il movimento inquieto di qualche animale. L’ho sentito con un brivido piacevole, mezzo impaurito, mezzo eccitato, ma non sembrava così straordinario da quando ero in una fattoria. Al mattino, mentre guardavo fuori le stalle abbandonate e la terrazza di mattoni, il sole che brillava su un giardino trascurato, sulle rose aggrovigliate e su un albero di gelso, il rumore mi sembrò meno probabile, ma non particolarmente inquietante.
Comunque, menzionai la cosa ai miei genitori durante la giornata. Stavano bevendo il caffè sulla terrazza di mattoni e io stavo in piedi, vicino, tastando l’anello.
“Avete sentito un animale durante la notte?” chiesi, “che si muoveva fuori qui intorno?”.
Avrebbero potuto i miei genitori scambiarsi un’occhiata? Certamente mia madre avrebbe guardato mio padre – era sempre sotto i suoi incantesimi – prima di rispondere con leggerezza: “Devi aver sognato”.
Fu in quella occasione, ne sono sicuro, che mio padre si alzò dalla sedia e venne da me vicino al muro. Voleva distogliere la mia attenzione, o stava concedendosi alla sua passione di una vita, quella di dare informazioni? Non lo so adesso, ma lasciai cadere l’anello e corsi verso di lui quando chiese:
“Hai visto questo muro, questi blocchi di pietra? Dai un’occhiata, sono pieni di cavità a nido d’ape. È tutto quanto di pietra arenaria e se osservi vedrai piccole vespe striate entrarvi e uscirvi. No, non pungono”.
Quasi sicuramente il vecchio muro, qua e là e da un’estremità all’altra, era bucherellato come un traforo con le minuscole scavature. Mentre guardavo, una piccolissima vespa lucente uscì da un buco e provocò una caduta di sabbia; in ognuno dei buchi vidi una larva, immobile e piuttosto sinistra.
“È andata avanti così per anni e anni”, disse mio padre. “I blocchi sono quasi consumati”. Si volse a mia madre. “Un giorno l’intero muro cadrà. Tutto è decrepito qui, all’infuori della casa; è oltre ogni possibilità di recupero. Peccato che abbia cessato di essere una fattoria”.
Peccato che abbia cessato di essere una fattoria, eccetto per noi e per la nostra felicità. Noi l’amammo, la libertà, io e mia madre, l’aria risplendente di montagna, la quiete e la pace assoluta quando mio padre si trovava a Londra. Allora convalescente, tossivo e urlavo dall’eccitazione per i grandi giardini abbandonati; andavamo talvolta al mare con il calesse, talvolta a fare un picnic oltre i nostri campi su terreni di felci e al limitare di una macchia. Divenni meno sottile e più affamato. Dormivo, proprio come fa un bambino, così placidamente, che non ero disturbato da alcuna paura durante la notte. Talvolta mi sembrava di sentire, sotto il velo del sonno, una agitazione proveniente dal giardino murato, forse un verso attutito, come di bestia che muggisce nell’alba nebbiosa. Ma udivo pure l’insistente latrato, dal bosco, di una volpe maschio, i richiami dei picchi alle prime luci: tutti questi brandelli di suoni si fondevano e svanivano nel mio risveglio tranquillo. Adesso tutto era nella fotografia della casa nata da una fattoria, come parte della vita di campagna.
Non so quanto tempo sia passato prima di diventare amico del vecchio. Lo vidi appoggiato al nostro cancelletto che dava su un sentiero di campagna, un giorno in cui stavo giocando vicino agli estesi cespugli di rosmarino. Aveva lo sguardo allegro, curioso e soverchiante dell’uomo attempatissimo, come se non gli fosse rimasto quasi più tempo per soddisfare il suo piacere e la sua curiosità per la vita. Mi guardò per alcuni minuti, senza alcun imbarazzo da parte di entrambi, prima che lui mi chiedesse:
“Ti piace stare qui? Suppongo che lasci Londra temporaneamente”.
Dissi “Sì, ovviamente”, e dopo un’altra pausa gli chiesi dove vivesse.
“Laggiù”, disse, facendo cenno con la testa verso la casa dell’essiccatoio del luppolo. “È là che ho vissuto tutta la mia vita. Non riesci a vederle, ma là ci sono delle casette intorno alla fattoria. Lavoravo qui quando questo posto era una vera e propria fattoria”. E cominciò a fare un risolino e anch’io risi per simpatia finché un attacco di tosse convulsa interruppe tutto.
Poi portò la testa da un lato e disse pacatamente, quasi fra sé e sé: “Come sta il vecchio toro?”.
Adesso riesco a vedermi, in ginocchio su un tappetino sull’erba, i miei giocattoli sparpagliati in giro intorno a me. Non guardai in su o non interruppi il mio gioco, ma risposi ugualmente tranquillo:
“Di notte è rumoroso”.
Il vecchio mi guardò come se mi riconoscesse per la prima volta e disse:
“Suppongo che lo è. È sempre irrequieto, quel toro”.
Poi gli posi la domanda che era stata fissa nella mia mente, sepolta sotto i giorni splendidi, fluenti, ma pressante ogni volta che guardavo la terrazza.
“Viveva qui? Era incatenato a quell’anello nell’aia?”.
“La maggior parte dell’anno. Non usciva molto. Sì, stava in quella stalla, la maggior parte dell’anno. Aveva un tetto e pareti allora, e non poteva vedere molto. Spalavo via il letame, quando ero un ragazzino, fuori sul letamaio. Quindi l’avete sentito?”
“E allora dov’è?”.
“Dov’è? Morto. Sessanta, settant’anni fa. Alla fine lo uccisero con una fucilata”.
“Gli hanno sparato?”.
“Sì, perchè lui uccise qualcuno. Un giorno era uscito fuori e aveva incornato il mandriano nel cumulo del letame. Lo trafisse e quello morì in ospedale. Nessuno poteva mandar via quel toro. E neppure afferrarlo. Così presero un fucile e gli spararono, tre volte”.
Gli chiesi qual era il suo nome? Oppure il vecchio continuò, senza avermelo detto, i suoi occhi volti indietro sessanta, settanta anni fa a quella scena nella fattoria quando era un ragazzo?
“Lo chiamavano il Diavolo Nero. Era di razza frisona, quasi tutto nero. Una bellezza, ma irrequieto, mai fermo, sempre a tirare, a brontolare e a sferragliare. Ne avevo paura; avevo paura del bianco dei suoi occhi e del modo in cui ti guardava di traverso mentre lavoravi. Ma avevo il forcone quel giorno per portar fuori il letame e pensavo di tenerlo dentro”.
“Come è riuscito a andar fuori?”, chiesi. “Non era completamente incatenato?”.
Mi guardò con il suo sguardo luminoso e acuto, dicendo:
“Nessuno è riuscito a dire come. Nessuno lo ha mai saputo. La sua catena si è in qualche modo sciolta. Tentai con il mio forcone di tenerlo dentro la stalla, ma schizzò fuori. Balzò di fuori e poi rimase là guatando e borbottando al sole, finché vide il mandriano. Gli fu sopra e le sue corna sotto di lui in un lampo. Odiava quell’uomo e dissimulava la sua occasione per ucciderlo”. Troncandola lì, mi disse:
“Così l’hai sentito?”.
“Durante la notte , sì”.
“Giusto. Non può uscire, in qualche modo. Sta ancora tentando di scappar via”.
Ricordo di non avere riferito questa conversazione ai miei genitori. Scoprii che il vecchio era considerato labile di mente, inoffensivo, la cui sanità mentale aveva ceduto gradualmente con l’età; e io lo volevo come amico. Era abbastanza sano di mente per me quando era in grado di raccontarmi così tanto del toro, anche se non era molto bravo a parlare di altri argomenti. La sua lingua ha perso la sua affilatura; era vago e le sue frasi, più spesso che non, si perdevano in risatine sotto i baffi.
Ma di quella lontana e micidiale giornata in cui il grande toro uscì, non si stancò mai di parlare; era una saga con sempre le identiche parole, più e più volte, finché non la imparai a memoria e potei immaginarmi la scena, con colori infantili e crudi; il sangue scarlatto, la figura scura che si estende sotto le corna. L’anello del toro e il toro facevano parte della mia vita segreta. Andavo poi spesso a guardare l’anello e a toccare il pesante ferro; stavo nelle cavità dei mattoni premuti giù da generazioni di bestie, ma che sentivo erano stati consumati dal Diavolo Nero da solo, muovendosi, muovendosi costantemente giorno e notte, brontolando tra sé e sé. All’improvviso fu settembre inoltrato e quasi il tempo di tornare a Londra. Bufere autunnali si stavano radunando intorno alla nostra collina; le rondini erano sparite. Un giorno le vellutate farfalle veleggiavano lentamente al sole sulla terrazza calda; il giorno dopo, sotto un cielo grigio, la pioggia tamburellava sul fico e la terrazza era deserta. Nella notte un vento si era alzato a spirale dalla valle; i castagni si piegavano e le mele cadevano con le loro foglie e rametti. Per tutto il giorno il vento si alzò finché gli alberi non spazzarono il cielo come scope gigantesche. Le porte sbatacchiavano – erano chiuse con il catenaccio – e i telai delle finestre tremavano. Ero eccitato e inseguivo le foglie sul prato; i miei capelli si sparpagliavano dappertutto. Ma al cadere dell’oscurità mi sentii sopraffatto e un po’ spaventato dal costante muggito. Nella notte mi svegliai con il rumore della mia finestra, e mi arrampicai, dal letto, per vedere se potevo aggiustare la zeppa di legno. C’erano chiazze di luce lunare cangianti e attraverso la fattoria il nero albero di fico stava battendo e sfregando le mani.
All’improvviso vidi un’ombra nera, più nera delle foglie, muoversi di lato e sentii un tintinnio di catena. Il cuore mi batteva forte, ma rimasi là a guardare e a rabbrividire, finché una nuvola che sfrecciava attraverso il cielo non lasciò scoperta la luna, per un solo istante. Ma lo vidi là in piedi. Lo vidi, il Diavolo Nero; in quel momento era immobile, il suo mantello scuro brillava in quella luce da spettacolo, il suo ampio naso umido chiuso da un anello e teso contro la catena. Giuro che ha alzato lo sguardo verso la mia finestra, il chiaro di luna nei suoi piccoli occhi infelici, e una tale espressione di odio, disperazione, rabbia come non avevo mai visto in tutti i miei anni.
Lo persi di vista mentre la luna scivolava dietro le nuvole spazzate via dal vento.
Poi mi trovai a letto i piedi ghiacciati, il cuore che batteva sotto il cuscino così rumorosamente che mi era impossibile addormentarmi. Ogni tanto il vento si schiantava in un crescendo contro le porte e le finestre, come un assalto diretto alla casa.
Deve essere stato molto più tardi quando udii un rombo. Era leggero, come un treno lontano, come una piccola frana che si abbatte e che cade. Al di sopra di esso, e come se attraverso di esso, si sentiva un confuso correre precipitoso, un calpestio smorzato di zoccoli fessi che giravano nel vortice della burrasca e si attutivano in esso, man mano più lontano. In quel momento ero ormai troppo spaventato per muovermi, congelato nel mio letto. Non sentii aprirsi la porta e mia madre che entrava.
“Non aver paura”, gridò, “è solo il muro. Il vecchio muro del cortile è caduto”.
Si avvicinò al mio letto e mi circondò con un braccio.
“Stai tremando”, disse, “sei spaventato”. E poi, per rassicurare se stessa: “È solo il muro”.
Entrambi eravamo ancora in ascolto.
Il vento si era calmato; e nel non completo silenzio arrivò il rumore di uno sbuffo di respiro, un sospiro prolungato che si perse nel vento e si dissolse. Mi misi la faccia tra le mani e pensai che il mio cuore si sarebbe spezzato. Allora era oltre la mia comprensione, mi ci sono voluti quasi mezzo secolo per capire, questo presagio di cose venture, questa eco di sofferenze lontane: l’eterno grido di libertà.
Un altro giorno arrivò e l’aria era affilata come diamanti, c’erano moscerini danzanti al di sopra dei serbatoi straboccanti dell’acqua piovana, e raggi di sole colpivano gli alberi rosseggianti.
Gli usignoli erano immersi nel loro canto autunnale. Come si potrebbe resistere a questo splendore? Anche dopo una notte così eravamo tutti giù di morale e uscimmo fuori presto, sul terreno umido e sotto gli alberi gocciolanti, per vedere il muro. Solo metà era giù, i grandi blocchi giallo-bianchi sparsi sulla terrazza in un caos di sabbia e cemento e ramoscelli spezzati. L’altra metà era adagiata contro il fico; blocchi di pietra appoggiati ai rami o inclinati in giù tra le foglie.

Ma l’anello del toro, il grande anello di ferro si trovava sulla terrazza di mattoni rossi, scagliato lontano dal muro, il suo gancio inarcato pazzamente in aria. Accanto a esso giaceva il blocco di pietra cui era fissato il gancio, ed era diviso di netto in due.
Più tardi mi allontanai dai miei genitori e passai arrampicandomi dall’altra parte del muro, sul vecchio sentiero delle rose, per vedere come appariva da lì. I fichi erano caduti, schiacciati nell’erba bagnata; c’erano vespe e mosche che vi ronzavano sopra. Mentre mi aggiravo tra le pietre udii mio padre parlare con qualcuno.
La sua voce era scherzosa, sulla linea tra la boria e l’impazienza, e allora mi resi conto che anche lui, innegabilmente, aveva udito molte volte la storia del toro.
“Quindi il vecchio toro se l’è filata alla fine”, disse.
C’era l’altra voce, quella del vecchio uomo di corte, che balbettava tremolante qualcosa che non sentivo, e rideva mentre parlava; e di nuovo mio padre, irritato:
“Cosa ha detto quello? Che assurdità sta dicendo?”.
Poi mia madre, conciliante, per metà gentile e per metà divertita: “Dice che è stato lui a sciogliere la catena, settant’anni fa”.

NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. Apparso nel 1955 “The bull”, tradotto in francese, spagnolo e pubblicato per la prima volta in italiano su Planet Ghost.