Il dottor Nero e la notte dei pipistrelli di William Kinston

Lord O’Nell ci guardò per un istante assorto, poi disse:

– Il crepuscolo mi fa paura. Appena cala il sole io mi ritiro in camera mia e da diciotto anni, non ho più visto brillare le stelle, neppure attraverso i vetri delle finestre.
Stupimmo tutti.
– Da diciotto anni! – esclamai.
– Sì, è una vecchia storia…
Lord O’Nell ci aveva invitati a trascorrere il pomeriggio davanti ad una tazza di the nel suo magnifico castello. Ma ora che il crepuscolo stava per scendere notavamo in lui un nervosismo che egli malamente celava.
Egli si era levato in piedi, ora, e noi lo avevamo imitato, sentendo che qualche cosa di bizzarro era nelle sue parole.
– Se volete rimanere – disse ad un tratto – fate pure: siete in casa vostra. Io, con il vostro permesso, mi ritiro… E’ l’ora dei pipistrelli.
La parola strana suonò come un singulto, nella pace del tramonto che andava morendo in un caldo pallore di oro bizantino, sulla conca del mare.
– Se lo desiderate – disse milord – potete ritirarvi in salotto con me. Parleremo un poco.
Mi volsi ancora una volta a dare una breve occhiata al cielo e al mare, quando tutt’a un tratto, sentii una mano potente che mi stringeva il braccio e mi trascinava verso la porta vetrata del salotto che s’apriva sulla terrazza.
– Presto, presto! – mormorò una voce soffocata.
Lord O’Nell, pallido, disfatto, mi sospinse nel salotto, si avventò alla porta a vetri, la richiuse in fretta e con mano convulsa abbassò le spesse tende. Ma, prima che esse si abbassassero del tutto, nel barlume crepuscolare potei intravvedere un palpitare di brevi ali nere che passò e scomparve, radendo i vetri…


***

Alla luce tranquilla della lampada a stelo che rischiarava quell’angolo di salotto severo come un sacrario – un angolo tutto pieno di stoffe grevi, di armi fantastiche, di trofei esotici, bizzarri come visioni di allucinati – il volto di milord appariva, ora, un poco più calmo; solo i folti baffi rossicci avevano un tremito impercettibile.
– Sento che vi debbo una spiegazione… Il fatto è stato così brusco, che voi dovete sapere, per poter comprendere. Diciotto anni or sono io ero felice, ricco con un grado elevato nella marina britannica,
sposo da, pochi mesi a una bellissima ragazza. Non potevo desiderare di più. Dopo un lungo viaggio di nozze, condussi mia moglie a prendere possesso del mio castello, l’antica e grigia rocca di Greencastle nella contea di Kildare: quel castello del quale ella, l’ultima donna di casa O’Nell, sarebbe stata la padrona assoluta.
Temevo che la severità e la solitudine del paesaggio, grandioso ma triste e l’aspetto cupo di Greencastle, tutto cinto di edera fosca, dovessero spaventare mia moglie. Ma non fu così. Ella si mostrò subito entusiasta tanto dei luoghi come della dimora avita. Il giorno dopo il nostro arrivo le feci visitare il castello, riserbando per ultimo la gran sala degli antenati al primo piano, dove infine la condussi, indicandole le quattro interminabili pareti dove tutti gli O’Nell, guerrieri, magistrati, dame e canonichesse si drizzavano sul fondo nero degli enormi quadri incorniciati di oro.
Le mostrai un quadro dopo l’altro. Ad un certo punto credevo di aver terminato la visita, quando Laura disse, accennando ad una porticina:
– E là che cosa c’è?
– Altri quadri, credo, – risposi – Tele insignificanti, senza dubbio…
– Andiamo a vedere.
Mi prese per mano e mi trasse verso la porticina, che spalancò.
Ci trovammo in una stanzetta rotonda, che riceveva la luce da un foro aperto nella volta: una stanzetta che, a giudicare dall’abbandono cui si trovava, doveva essere poco frequentata dal personale di servizio di Greencastle. A terra, scale e piuoli, qualche cassa vuota, qualche tela sfondata: alle pareti moltissime ragnatele e due o tre quadri.
– Sono paesaggi, – spiegai; – sgorbi di nessun valore, che si trovano qui da qualche secolo.
Laura guardò, e stava per tornare indietro convinta, quando esclamò:
– No, no, li c’è un ritratto, guarda!
C’era, infatti, un ritratto: qualcosa che, nella penombra e ad una certa distanza, non si discerneva bene.
Ci avvicinammo, egualmente curiosi tutti e due, e, finalmente, ricordai di che si trattava.
Era il ritratto di un giovane trentenne: un viso magro, affilato, pallido, incorniciato da una barba nera; un viso in cui due occhi turchini, acuti come due lame, pareva brillassero.
Era vestito tutto di nero, con un berretto pure nero in testa, alla foggia dei medici del secolo decimo-settimo, e, particolare bizzarro, stringeva al petto, con la bianca mano sottile, una mano cerea, magra, fantastica, un pipistrello dalle ali aperte.
Si trattava di un simbolo? Era una stranezza del ritrattato o del pittore? Chi lo sa!
– Rammento, dissi sorridendo; – E’ il ritratto di uno sconosciuto, che non sappiamo come sia capitato qui, da circa duecento anni… Non è né un nostro antenato, né un personaggio che avesse, a nostra notizia avvicinato, due secoli fa, la nostra famiglia. Già, il tipo non è neppure irlandese. Dall’abito giudico che sia stato un medico o un naturalista. Quando ero piccino e chiedevo notizie di lui, Betsy, la mia buona nutrice, mi rispondeva, battezzandolo con un nome che gli era stato certo imposto da lei, che egli era il « dottor Nero ».
Non avevo ancora terminato la frase, che Laura, la quale si era avvicinata al ritratto mentre io parlavo, diede ad un tratto in un grido soffocato e vacillò, aggrappandosi alla mia spalla. La sorressi, la presi tra le braccia e la portai fuori, spaventato del caso imprevisto, ancora troppo ignaro della psicologia muliebre del tentare di trovare una causa al suo svenimento.
Quando Laura riprese i sensi, mi sorrise con dolcezza e mormorò:
– Un capogiro… Effetto della stanchezza… La visita al castello mi ha spossata. Non spaventarti. Non è nulla di grave.
Rassicurato, la baciai. Avevo bisogno di crederle e le credetti, senza la minima esitazione. Invece…

***

Trascorsero due giorni senza che si verificasse alcun incidente. Mi accorgevo, però, di un certo cambiamento nel carattere di mia moglie per solito lieta e vivace: ora era quasi sempre silenziosa, distratta, come vinta da un pensiero persistente e tormentoso. Non mi sarei, però, mai risolto a dirle nulla se una mattina, molto per tempo, cercandola dappertutto, non l’avessi vista sgusciare dalla porticina della stanzetta rotonda. Sperava evidentemente che non l’avessi vista uscire di là, perché rasentò la parete e venne verso di me come se si fosse trattenuta fino a quel momento nella sala degli antenati ».
Non potei fare a meno di rimproverarla:
– Perché sei tornata in quello stanzino? Hai dimenticato che fu proprio là dentro che ti sentisti male? Da qualche tempo, poi, ti vedo più pallida e sembra che tu soffra di qualche cosa…
Lei non rispose. Mi abbandonò la testa sulla spalla lasciandosi sfuggire un sospiro.
– E’ forse la tristezza di questo castello, che ti rende malinconica? – ripresi – O è forse quello strano ritratto del « dottor Nero »?
Avevo appena detto queste parole, che Laura sussultò, fissandomi con gli occhi sbarrati e mettendomi una mano sulla bocca:
– No… no… taci… Andiamo via, andiamo presto, ti prego…
Il volto le si era scolorato e la voce era affannosa, un poco tremante.
Si guardò intorno, quasi temesse che qualcuno avesse potuto ascoltare il nostro colloquio, e poi si strinse al mio braccio, ripetendo più sommessamente:
– Andiamo via, te ne supplico… Andiamo via…
La condussi nel parco. Ero divorato da un oscuro presentimento. Dopo un poco le chiesi:
– Ebbene, Laura, mi dirai finalmente…
M’interruppe abbracciandomi:
– Non chiedere, ti prego. E’ una sciocchezza…
– Ma c’è qualche cosa a Greencastle che ti spaventa?
Scosse la testa, mentre un’ombra le passava nello sguardo.
– Finchè ci sarai tu qui, non avrò paura di nessuna cosa al mondo.
La risposta, invece di rinfrancarmi, mi fece sussultare. Ignorava, forse, o aveva dimenticato, che tra quattro giorni dovevo lasciarla, poi imbarcarmi su una nave della marina britannica?

***

Sentivo che qualche cosa esercitava una acuta suggestione su mia moglie: la teneva avvinta sotto il suo triste fascino, la rendeva sempre più silenziosa e pallida, mettendole come un sogno spaventoso negli occhi neri. Avrei voluto sapere chi o che cosa esercitasse quel maleficio: ma non osavo domandare, per non provocare in lei una nuova scossa…
Patrick, il vecchio maggiordomo fedelissimo alla famiglia, al quale chiesi, fingendo indifferenza, se la padrona gli avesse mai detto che Greencastle era un po’ troppo grave ed opprimente per la sua anima, mi rassicurò dicendomi che al contrario, la signora era contenta del suo soggiorno. Soltanto, egli aggiunse, doveva temere l’umidità dei boschi, perché gli aveva ordinato di chiudere tutte le finestre al cader del giorno…
La penultima notte che doveva precedere la mia partenza, mi ridestai bruscamente da un sonno breve e agitato. Come in un incubo intravidi un chiarore nella stanza da letto.
Balzai a sedere sul letto e vidi Laura con un accappatoio gettato sulle spalle, ritta in mezzo alla camera, che guardava sotto la volta, levando in alto la lampada elettrica che si trovava sul suo comodino: pareva che cercasse qualche cosa.
Notai che la sua espressione era colma di angoscia: gli occhi sbarrati in cui si leggeva uno sconfinato, disumano terrore, il viso contratto.
– Laura! – gridai, correndo verso di lei. – Cosa c’è, Laura? Cosa ti succede?
Sussultò, bianca in volto e per poco la lampada non le sfuggi di mano.
– Cosa cerchi?… Perché quell’espressione di terrore?… Ti prego, parla!…
Mi guardò in silenzio, poi mormorò con voce appena udibile, volgendo via lo sguardo:
– Nulla… Un rumore… Mi pareva che… Ma non è nulla… Torna a letto, caro… Certamente mi sono ingannata…
Tremava tutta, ora, non so se per il freddo della notte, o per la paura.
Volli rassicurarla. Armatomi della mia rivoltella ispezionai non solo minutamente la stanza, ma le stanze vicine ed i corridoi che davano al nostro appartamento privato, mentre Laura mi attendeva rannicchiata sotto le coperte.
Quando mi vide rientrare mi fissò, ansiosamente, con uno sguardo che era un’interrogazione piena di angoscia.
– Non hai… non hai incontrato… nessuno?…
Scossi il capo, sorridendo:
– Nessuno, – dissi, – probabilmente hai fatto un brutto sogno e ti sei spaventata. Tutto qui.
– Probabilmente è così, – convenne Laura.
La giornata seguente trascorse tra i preparativi per la mia partenza. Attendevamo l’arrivo di una dama di compagnia per Laura, ma forse a causa del cattivo tempo, che scatenò un vero diluvio sui boschi di Greencastle per tutto il giorno e parte della notte, le era riuscito impossibile raggiungerci.
Dovevo partire nella mattinata, e perciò decisi di non andare a letto, passando la notte a rivedere i miei piccoli bagagli che i domestici avrebbero portato, all’indomani, a Kingstown. Laura voleva vegliare con me, ma alle mie insistenze acconsenti a ritirarsi in camera, lasciando però aperto l’uscio che comunicava con la stanzetta ove io vegliavo.
Era da poco cessato l’ultimo scroscio di pioggia ed un gran silenzio era nella notte, quando d’improvviso sentii un grido proveniente dalla stanza da letto. Tesi l’orecchio, ma subito dopo il piccolo grido si rinnovò, e, prima ancora che fossi balzato sulla soglia, Laura era già là, discinta, tremante, con gli occhi sbarrati, scossa tutta da un lieve tremito.
– Hai inteso? – esclamò, ansando, stringendomi: – Pensi che mi sia ingannata anche questa volta?…
La guardavo perplesso, cercando di comprendere.
– Cosa dovevo intendere?…
Laura scosse il capo sconsolatamente:
– Pensi che abbia sognato anche questa volta?.… Rispondimi, non vi sono pipistrelli a Greencastle?…
Questa parola, pipistrello, mi colpì, e fu, per me, come un lampo di luce improvvisa.
– Comprendo, – esclamai: – E’ ancora una volta quell’orribile quadro, che ti ritorna alla mente… E’ quella schifosa bestiaccia dipinta in quel ritratto… Per un temperamento suggestionabile come il tuo, è bastato vederla per esserne colpita… Ma non temere, sfonderò subito quella tela e tutto sarà finito…
– No, no!… – proruppe lei, con impeto. – Non farlo, ti prego! Non farlo!
E come vide che io la fissavo, sbalordito, riprese un tono più calmo, più controllato:
– Basterà che tu faccia rimuovere il quadro di là e portare altrove, in una delle torri, in una soffitta lontana… Ma non sfondare quella tela… TU NON PUOI SAPERE CHI SIA RITRATTO IN QUELLA TELA…
Parole piene di un oscuro significato, che mi lasciarono per un momento interdetto. Ma fu impressione di breve durata: il pensiero di aver trovato la causa di tutti quei fenomeni che mi erano parsi sino allora inesplicabili (quasi da farmi dubitare del buon stato mentale di Laura), mi calmò.
Poco dopo facevo trasferire il famoso quadro in soffitta. E alcune ore più tardi partivo.

***

Non fossi partito mai! Ha, se le torri di Greencastle mi avessero tenuto prigioniero!… Fossimo stati entrambi, io e lei, colpiti dalla cosa orrenda!
La prima lettera di Laura che ricevetti era scritta in tono calmo, sereno. Solo un periodo aggiunto in fondo al foglio mi lasciò perplesso: « Sarai di ritorno per il ventisei novembre? ».
Le risposi comunicandole che, purtroppo, il mio viaggio non avrebbe avuto termine che in gennaio.
Trascorsero circa due settimane ed ecco un’altra lettera che mi raggiunse in navigazione: la lettera
fatale. La lettera DELLA CONFESSIONE.
Lord O’Nell si alzò, penosamente, dischiuse un cofanetto e ne trasse un foglietto un po’ ingiallito:
– Eccola!
– Noi tacevamo, ansiosi, aspettando.
« Amore mio », egli lesse: « Io non devo tacerti oltre la verità. Devo confessarti ogni cosa, prima che la vendetta di lui mi raggiunga, prima che io sia uccisa, lontana da te, senza che forza umana possa salvarmi, qui, nel castello di Greencastle che io non volli lasciare, che io non lascerò se non quando mi porteranno via, morta, per seppellirmi nel cimitero degli O’Nell.
Ascoltami e non rimproverarmi, perché nessuna colpa io ho commesso verso di te, neanche con il mio silenzio.
Prima di conoscerti, molti anni fa, a Firenze, in una gita compiuta con amici, mi imbattei in un giovane medico straniero, uno spagnolo pallido, dalla barba nerissima, dagli occhi penetranti… Aveva un fascino strano, bizzarro, e mi conquistò subito, avvincendomi, parlandomi del suo avvenire, che voleva fosse carico di gloria e di onori.
Lo rividi a Firenze, dove mi ero stabilita per qualche anno con i miei, divenne amico di casa, mi confessò il suo amore.
Non seppi resistergli. Non potevo resistergli.
Soltanto, poiché le sue condizioni erano modeste ed egli era troppo orgoglioso per ricevere una dote come un’elemosina, si fece promettere che io avrei atteso ancora qualche tempo: egli sarebbe partito con una spedizione scientifica per la Terra del Fuoco e contava di farsi un nome, per certi studi sulla fauna velenosa di quell’estremo lembo dell’America meridionale.
Glielo promisi.
Nell’accomiatarsi, egli, stringendomi la mano mi disse, fissandomi stranamente negli occhi:
– Bada che gli uomini come me non si debbono dimenticare. MAI. Essi si vendicano del tradimento, come dell’abbandono. Si vendicano CON ARMI CHE NESSUN UOMO AL MONDO CONOSCE!
Mi sentii assalire da una strana paura. Tuttavia lo rassicurai: mi pareva di essere così sicura di lui e di me.
Partì, e per lungo tempo non ne seppi nulla.
Non mi scrisse mai, né io gli scrissi. E, a poco a poco, le vicende della vita cominciarono a indebolirne l’immagine nella mia memoria: restava, del suo amore per me, un vago ricordo che mi dava la sensazione bruciante di una cicatrice non interamente rimarginata.
Un giorno, dopo circa nove mesi dalla sua partenza, la sera del ventisei novembre, mia madre, leggendo un giornale inglese, ebbe un sussulto ed esclamò:
– Toh!, quel povero amico nostro…
Non so perché, sentii un brivido e chiesi, levandomi in piedi:
– Chi?… Quale amico nostro?…
Mi tese il giornale, senza parlare, accennando ad un articolo firmato e datato da Buenos Aires.
Lessi: una spedizione di scienziati recatasi nella Terra del Fuoco, aveva avuto la sventura di perdere due dei suoi componenti, dopo un’agonia orribile, in seguito ad infiammazione sviluppatasi per certe ferite che si erano riscontrate su di loro, dopo una notte trascorsa incautamente all’aperto.
Non c’era da dubitare che si trattasse dei vampiri, gli immondi e feroci pipistrelli dell’America del Sud. E qui il giornale si diffondeva a lungo sulle abitudini di questo pericoloso e spaventoso chirottero, concludendo con il rimpiangere, soprattutto, la fine di una delle due vittime, un giovane e valoroso dottore spagnolo, che gli indigeni di scorta veneravano come un essere soprannaturale, chiamandolo, per il colore delle chiome e della barba, il dottor Nero ».
Non potevo ormai più dubitare: il « dottor Nero » era lui, l’uomo che mi aveva strappato la promessa di attenderlo, di diventare sua, l’uomo che aveva proferito anche l’oscura minaccia.
Il dolore che mi diede tale notizia mi fece sentire in pari tempo che il vincolo che avevo stretto con lui si era spezzato, e questo pensiero, non so perché, mi diede un senso di liberazione, come se mi fossi sottratta da una suggestione possente ed invincibile…
Sentivo, allora, che il mio amore per lui mi era stato imposto da una specie di influsso magnetico e che questo influsso, ora, era finito.
Io ero libera. Ero tornata ad essere interamente libera. La mia promessa non aveva ormai più alcuna ragione di venire mantenuta, dal momento che lui era morto.
Ed un mese dopo conoscevo te, e la tua bontà e la tua lealtà fiera e cavalleresca. Le tue virtù mi fecero comprendere come vi fosse al mondo un amore diverso DA QUELL’ALTRO, un amore nobile e grande: quell’amore che, dopo sette mesi, ci conduceva all’altare e mi dava il diritto di portare il tuo nome, quello degli O’Nell.
Ed ora ascolta, amore mio – continuava la lettera – ascolta la cosa assurda e terribile, ciò che tu solo saprai e che mi tiene sotto la potenza di una forza inesorabile, che mi ucciderà…
Credevo che il vincolo antico fosse finito con la morte di lui, credevo che nulla mi legasse a quel morto: AVEVO DIMENTICATO LA VENDETTA…
Ed EGLI mi riapparve, un giorno: mi riapparve qui, nel tuo castello, in quel ritratto che vedemmo insieme, quel fosco ritratto di uno conosciuto…
Rividi il suo viso pallido, la sua barba nerissima, i suoi occhi penetranti come lame… ed egli stringeva – ricordi? – tra le ceree mani la bestia orribile, che lo aveva ucciso…
Tu non VEDESTI ALTRO, tu non SENTISTI ALTRO…
Ma io vidi – VIDI, capisci? – il palpitare delle ali di quel pipistrello e SENTII che la sua bocca immota diceva una data: VENTISEI NOVEMBRE…
Era la data della mia sentenza, la data fatale della vendetta, ch’egli pronunciava, da quella tela, che è qui da duecento anni e che voi non sapete DI CHI SIA…
Da allora io ho inteso che ero perduta; e da allora la sua vendetta è cominciata…
Tu non SAPEVI e non SENTIVI, ma nella notte, era QUEL PIPISTRELLO, che veniva e si aggirava per la stanza, in larghe ruote, invisibile a tutti, muto ammonimento di CIO CHE DOVRA’ AVVENIRE e, forse, spaventoso strumento del suo castigo…
Volli illudermi, da principio, cercai di riconfortarmi, trattandomi da visionaria: ma, a poco a poco, finii col non dubitare più. Non ebbi più speranza.
Non ti volli dire nulla, ma tu intuisti qualche cosa nella notte che precedette la tua partenza, e facesti trasportare altrove quel ritratto, per rassicurarmi…
Fu vano.
Il destino si imponeva.
Ed il pipistrello, l’orribile bestia, è venuto ancora, la notte, nonostante io facessi chiudere tutte le porte, tutte le finestre. Nonostante che Matilde, la mia dama di compagnia, dormisse nella stanza accanto alla mia camera, e Patrick ed i servi, a cui nulla ho detto mai, dormissero nel corridoio e nelle anticamere.
È venuto ancora. I suoi volteggi ogni notte si abbassano sempre più, sempre più…
Sento il fremito delle sue ali, nella notte buia, sempre più vicino al mio viso…
IL VENTISEI NOVEMBRE: ecco la data in cui tutto ciò finirà. La data che EGLI HA SEGNATO e che nulla varrà a protrarre, che nessuna forza umana potrà allontanare da me.
Sto consumandomi nell’angoscia e nel terrore. I nervi non mi reggono più. Sono avvolta nella crudele atmosfera di un mondo soprannaturale.
Se tu non puoi venire, se tu non poi salvarmi ed io SENTO che nessuno lo potrà, al mondo – vieni, almeno in tempo per rivedermi sul letto di morte, prima che il cimitero degli O’Nell mi abbia. Vieni a baciarmi in fronte per l’ultima volta.
Così ti aspetta, morta, amandoti al di là della vita, come oggi, la tua Laura, infelice ed innocente ».

***

Le ultime parole furono lette da Sua Grazia con voce soffocata da un nodo di pianto.
Stette così, un poco, guardando quelle pagine, ove tutta una storia dolorosa e oscura era scritta. Poi disse, più sommessamente, come colpito da una stanchezza invincibile:
– La lettera era troppo strana, terribile e vibrante di verità perché io la credessi dettata da un’allucinazione, da una mente malata, da un’immaginazione morbosa. E poi, fosse stata anche scritta in un eccesso di follia, il dovere di correre accanto a mia moglie demente m’imponeva di non indugiare più e di tornare a Greencastle al più presto possibile.
Ventisei novembre!
Quella data fatale suonava ora al mio orecchio come un rintocco funebre. Se fossi giunto in tempo al castello!
La lettera mi era giunta con un ritardo inesplicabile. Alla data fatale mancavano appena tre giorni. Telegrafai subito all’Ammiragliato chiedendo d’urgenza di essere autorizzato a prendere un aereo per tornare immediatamente in Inghilterra.
Ma proprio quando il messaggio era stato inviato si scatenò una bufera infernale. La nave rischiò di venire sommersa dalle montagne d’acqua contro le quali i venti che soffiavano indemoniati da ogni direzione la mandavano a sbattere.
In plancia, ero divorato dal terrore di non poter salvare la mia nave ed i miei uomini, e dal terrore di non poter salvare lei, la mia Laura.
Per quanto i telegrafisti tentassero di mantenere i collegamenti, le comunicazioni radio si interruppero. Non solo non potevamo mandare messaggi, ma non potevamo neppure riceverne. Non poteva non esserci in tutto questo la mano di un destino oscuro, imperscrutabile ed orrendo che voleva ostacolare ogni mio tentativo per correre presso la donna che amavo e che sapevo in pericolo.
Per tutto il giorno, per tutta la notte ed il giorno seguente la pesante nave da guerra rimase in balia del mare imbestialito. Ci trovavamo in pieno Atlantico, lontanissimi da ogni costa. Sballottati da correnti contrarie, investiti da prua, da poppa, di fianco, dovevamo bordeggiare cambiando continuamente rotta, cercando di prendere di prua il mare imbestialito.
Finalmente al cader della notte del venticinque novembre il mare si calmò, il vento cadde: le comunicazioni con le stazioni telegrafiche poterono essere riprese.
Il messaggio dell’Ammiragliato mi venne subito consegnato: rientrassi pure. Un elicottero mi avrebbe prelevato dalla nave tra un paio d’ore e portato al più vicino aeroporto perché potessi noleggiare un aereo privato.
Tre ore dopo, infatti, lasciavo la nave a bordo dell’elicottero. Ma il viaggio non fu tranquillo. Perdemmo alcune ore per un guasto, quando l’elicottero fu costretto a scendere su un isolotto per essere riparato. Tullo concorreva ai danni miei e di Laura; erano circostanze, queste, che non potevano non essere addebitate alla misteriosa potenza di COLUI CHE CI PERSEGUITAVA.
Cosa provassi nel corso di quell’interminabile viaggio non potrei descrivere e nessuno potrebbe intendere… Avevo fretta e, insieme, avevo paura di arrivare. E sempre quella data fatale che mi avrebbe visto giungere con un largo margine di ritardo.
Infatti non arrivai che il giorno ventisette! Con ventiquattro ore di ritardo.
ERO ARRIVATO TROPPO TARDI!
La dama di compagnia di Laura, che mi ricevette all’ingresso insieme a Patrick ed al resto della servitù in lacrime, non poté dire altro, singhiozzando, che queste parole:
– Venite a baciarla…
Laura giaceva tutta bianca sul gran letto scolpito: aveva sul viso pallido un sorriso triste, il sorriso, l’ultimo, che ella aveva serbato per me. E in quel sorriso era l’addio al nostro amore, alla vita, al sole, a tutte le cose belle. Il sorriso di chi se ne va, rassegnato, vinto dalla fatalità.
Quando, passata la piena del dolore, potei levarmi in piedi, un bisogno imperioso di sapere tutto mi prese, più forte dell’angoscia, più forte dello schianto.
– Io non so e non posso dire quale strana cosa sia avvenuta, – balbettò la dama di compagnia – Posso giurare, però, che questa notte, risvegliata da un suo gemito – ella si lagnava spesso in queste ultime notti, ma bastava che io accorressi per vederla rinfrancata – mi sono avvicinata alla porta, come al solito. E questa notte io giuro di aver udito distintamente COME UN FREMITO D’ALI CHE URTASSERO CONTRO QUALCHE COSA… Ho spalancato l’uscio: nessuno. Ho chiamato, ma la signora, taceva… Era già finito tutto.
Ecco tutto quello che sono riuscito a sapere. Ma un ultimo indizio scopersi alla fine, quando mi curvai ancora una volta su Laura, per baciarla: ed io vidi, fremendo, DI CHE COSA ERA MORTA…
Laura aveva, al sommo del petto, un sottile solco, una striscia rossa, quasi invisibile, COME L’IMPRONTA DI UN’ALA TAGLIENTE…
Corsi alla torre dove il ritratto funesto vi si doveva trovare ancora. Ma un domestico mi avvertì che il vento, tre notti prima (nella notte della famosa tempesta in mare), aveva diroccato una parete mezzo cadente. Le pietre avevano seppellito ogni cosa. Mi precipitai sul mucchio. Non c’era più nulla. Solo un brandello di tela, nel quale due occhi turchini, acuti come due lame, pareva brillassero.
– Io so, – concluse milord, – che lo spirito malefico di lui mi perseguita, vuole la sua vendetta contro di me. Sento anch’io i pipistrelli, di notte, e li vedo. Farò la stessa fine di Laura, nel giorno designato… Non so quando… La fatalità incombe su di me. Tuttavia non ho paura. Andrò a raggiungere Laura e tutto questo finirà.
Un fremito d’orrore ci prese tutti in quel momento. Contro il vetro del balcone del salotto udimmo distintamente lo sbattere frenetico di lunghe, ampie ali.
– Sentite? Sono i pipistrelli!

NOTE
Racconti horror rari riscoperti da Sergio Bissoli. “Il dottor Nero e la notte dei pipistrelli” di William Kinston, apparso in Italia nel settembre 1962 sul numero 4 di “Terrore”, edito da Sansoni e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.
L’autore è ignoto. Forse un autore minore inglese, non presente in WHO’S WHO in horror and fantasy fiction by Mike Ashley. Oppure scrittore italiano sotto pseudonimo.


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