La città proibita di Gabriele Mainetti

La città proibita (Italia, 2025)

Regia: Gabriele Mainetti. Durata: 138’. Soggetto e Sceneggiatura: Stefano Bises, Gabriele Mainetti, Davide Serino. Fotografia: Paolo Carnera. Montaggio: Francesco Di Stefano. Musiche: Fabio Amurri. Scenografie: Andrea Castorina. Costumi: Susanna Mastroianni. Produttori: Mario Gianani, Lorenzo Gangarossa, Sonia Rovai, Alessia Sinistro. Produttori Esecutivi: Saverio Giuseppe Guarascio, Mandella Quilici, Gianluca Mizzi, Claudio Falconi. Case di Produzione: Wildside, Piper Film, Goon Films. Genere: Azione, Drammatico, Thriller. Interpreti: Enrico Borello (Marcello), Yaxi Liu (Xiao Mei), Marco Giallini (Annibale), Sabrina Ferilli (Lorena), Chiunyu Shanshan (mr. Wang), Luca Zingaretti (Alfredo), Tomal Islam (Śānti), Miki Yeung (Xiao Yun), Claudio Pallitto (Cip), Daniele Mosca (Ciop), Elisa Wong (madre di Mei), Abdoulaye Seck (Malik), Roberto He (Maggio), Poalo Buglioni (cameriere da Alfredo).

Un film girato da un autore che ama il cinema di genere italiano, già apprezzato in Lo chiamavano Jeeg Robot e (meno) in Freaks Out, ma che in questo lavoro ottiene la sua consacrazione come autore, spingendo sul genere fino in fondo, senza lasciarsi tentare da inutili intellettualismi. Mainetti racconta una storia che comincia in una Cina repressiva che proibisce il doppio figlio per famiglia, trasporta l’azione a Roma nel quartiere cinese, dove un villaggio gallico (per usare la citazione di Giallini) accerchiato da cinesi sopravvive come verace trattoria romanesca. E qui succede di tutto, il cinema di Bruce Lee incontra Tomas Milian e il noir metropolitano in salsa romanesca, in un tripudio di violenza e di fantasmagoriche scene d’azione. Mainetti è bravo anche come sceneggiatore, a volte prevedibile ma non troppo, quando è possibile prende sempre la via più originale, per non parlare del finale che è davvero originale. Bises e Serino collaborano a costruire una storia piena di colpi di scena e di combattimenti a base di kung-fu, dove l’eroe principale è Xiao Mei (Yaxi Liu), una combattente al femminile quasi invincibile che se la vede contro nemici efferati della mafia cinese. Personaggi credibili, su tutti Annibale, di una tragicità incredibile, un cravattaro romano impersonato da un Giallini in gran forma, che presta volto e dialetto alla personificazione dell’ultimo dinosauro, un uomo nostalgico del passato, razzista, ancorato alle tradizioni di una Roma che esiste solo nei suoi ricordi. Sabrina Ferilli è Lorena, la moglie di Alfredo il ristoratore innamorato che scappa con la sorella di Mei, molto brava in una parte che le calza a pennello come cassiera ai tavoli di una trattoria tradizionale. Bravo anche Enrico Borello nei panni del figlio Marcello, innamorato della cinesina combattente, che prima viene malmenato ma con l’incedere degli eventi si da fa travolgere da un’insolita relazione. Luca Zingaretti recita un piccolo ruolo come Alfredo il ristoratore, sempre incisivo e ben calato nel ruolo. Tutto funziona in questo film di puro genere ma con un messaggio di integrazione e di non resistenza al cambiare dei tempi. Centotrentotto minuti montati da Francesco Di Stefano a ritmo frenetico e fotografati da Paolo Carnera (sia in notturna che in piena luce) lungo le strade di una Roma periferica e degradata - dai mercati generali all’Eur - fino a toccare luoghi cittadini classici, persino il Foro Imperiale e il Colosseo. Colonna sonora di Fabio Amurri davvero suggestiva che comprende De Andrè (Canzone dell’amore perduto) e Mina (E se domani), persino Jimmy Fontana tradotto in cinese (Tu sarai la mia regina e io il tuo re). E che dire della citazione esplicita di Vacanze romane con Borello e Liu (estasiata) che percorrono una Roma notturna a bordo di una vespa ammirando i monumenti e i luoghi storici? Gli effetti speciali sono fantastici, i credibili combattimenti di kung-fu si svolgono nei luoghi più impensati (di complessa costruzione) che vanno dalla cucina di un ristorante a una sala da pranzo, per non parlare di una fabbrica in abbandono. Molte comparse nelle scene acrobatiche confezionate a dovere e ricche di crudo realismo, così come la violenza è spesso ai massimi termini. La regia di Mainetti è senza sbavature, movimenti di macchina che passano dalla soggettiva alla panoramica senza soluzione di continuità, così come la camera a mano lascia il posto alla macchina fissa e non te ne accorgi neppure. Il discorso sull’integrazione viene fatto usando la figura del rapper cinese di seconda generazione che disprezza il padre mafioso, vuol fare la sua vita, parla italiano ed è del tutto inserito tra i giovani romani. Finale da melodramma romantico con tutti i personaggi in scena, di una bellezza che non racconto, ma ve la lascio godere nel buio della sala. Per finire l’intuizione corretta di far parlare i cinesi nella loro lingua con i sottotitoli, invece di usare il solito italiano parlato con la elle al posto della erre. La commistione di generi che Mainetti realizza avrebbe fatto felice Lucio Fulci: kung-fu, noir, thriller, commedia, sentimentale, melodramma, romantico, azione, drammatico. Questo è cinema, bellezza! Non va perso, se in sala non riuscite (ma fate male) recuperatelo su Netflix. Se non vi piace restituisco i soldi del biglietto.

A cura di Gordiano Lupi



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