Sembrano scorci di Alepia, ma visti da una dimensione parallela, o qualcosa del genere. Visioni di diavoli ammucchiati, donne decrepite dai seni cadenti e le lingue a punta, gli occhi neri… [1]
Questo bel libro di Germano Hell Greco ci consegna l’immagine di una Puglia crudele, in cui convivono mondi e leggi antiche, precedenti all’ordinamento sociale dello Stato Italiano. Questo Sud contadino che ha sapore di mito, con delle radici nel folklore superstizioso, dove il cristianesimo popolare si fonde con reminiscenze più antiche (greche e pagane), mi ha ricordato le analisi di Ernesto De Martino sul tarantismo pugliese. Ho provato a rileggere il romanzo attraverso le sue lenti antropologiche.
Un mondo contadino in cui la vita è difficile, ma che intrappola nelle sue reti, da cui non riesci più ad uscirne: per sfuggire al paese di Alepia, ci si ritrova nei campi, ma poi non si è sicuri che sia lo stesso mondo di prima. O magari è un mondo che si sovrappone al primo, ed è sempre Alepia. E’ qui che vivono Kiki e Pietro. La prima si sente un’eclusa, un outsider rispetto all’ambiente in cui vive; mentre il secondo vive l’eredità del nonno che è capo di un’organizzazione criminale, oltre che della madre morente che assiste e dell’eredità di un padre artista prematuramente scomparso.
Un’altra coppia, complementare alla prima, sono Sandro e Giada. Se il primo è l’amico di infanzia di Pietro, ma rimane legato all’organizzazione del nonno dai legami delle organizzazioni, la seconda invece cerca di sopravvivere in questo ambiente anche attraverso il dono e la condivisione del proprio corpo. In questo coacervio di eredità finite male o non concluse, si innesta il culto di Santa Feba con i suoi denti, che è connesso alla nascita stessa di Alepia:
La banda spuntò da dietro l’angolo e invase la strada. Dietro seguivano le ballerine di Taranta, scalze, i pizzi delle gonne che svolazzavano a ritmo, il velo nero sui volti. Poi il baldacchino della Santa. […] Feba intanto ondeggiava fasciata di paramenti d’oro, i ninnoli e le fiaccole elettriche che la decoravano vibravano, aveva la bocca spalancata e vuota, il sangue che le colava dagli angoli. La gente si mise ad applaudire, una signora s’asciugò lacrime con un fazzoletto bianco di pizzo, un’altra brandì la gigantografia di un ragazzino, morto chissà come, e la puntò contro la statua come fosse un fucile. Gli astanti si misero a lanciare alla loro Madonna schegge di mandorle, per restituirle i denti. [2]
Questo insieme di simboli rituali, la base fenomenica di un “codice simbolico-archetipale” come sottolinea Maurizio Nocera a proposito del tarantismo [3], sembra fungere da contesto generale dell’intero racconto, da suo fermo sfondo e stabile amalgama che riappare in tutti i momenti oscuri. Esso ci ricorda che è Alepia la vera protagonista di questo racconto, questa città di una Puglia immaginaria, ma al contempo così reale nel suo essere così legata alla terra e ai campi. Nelle sue influenze greche e bizantine, come il Cristo Pantocratore vicino alla bara della madre di Pietro quando muore. [4] Alepia è nata con Santa Feba, coincide con lei:
“Alepia è nata con lei, dal suo martirio. E’ sempre stato un paesello sotto il giogo di un paio di famiglie malavitose. C’è stato sempre un parroco che dominava su tutti gli altri, perché custodiva in chiesa la statua di Feba, si è sempre festeggiata solo lei, la Santa dei Denti che noi stessi abbiamo trucidato. Ma non è stata la sola a crepare…” [5]
I campi, con i loro pozzi, sono un altro aspetto fondamentale del romanzo, che si staglia sullo sfondo di campagne cosparse di cadaveri. Il legame fra l’atto della mietitura e la morte è tipico delle civiltà contadine, secondo De Martino:
Nelle civiltà cerealicole del mondo antico spetta ai momenti critici della semina e del raccolto (in particolare all’epoca della mietitura) una notevole importanza ierogenetica, nel senso che in funzione di tali momenti si viene organizzando geneticamente una serie di simboli mitico-rituali, i quali offrono temi protettivi di ripresa e di reintegrazione anche per altri ambiti critici non strettamente agricoli, come per esempio la morte dell’individuo, i rapporti sociali e politici, la inserzione dell’individuo nel gruppo sociale, il rapporto fra i sessi, ecc.[…] [6]
Questo crudele mondo contadino, dalle vestigia antiche e collegato alle campagne, influenza globalmente qualsiasi aspetto della vita sociale e della sua organizzazione. Persino il nonno mafioso rispetta Santa Feba e la morte che si profila nei casolari. Santa Feba dalle carni dilaniate simboleggia la morte che proviene da questo stesso territorio, la falce del mietitore si rivede nei denti che sono le sue vestigia sacre, ma anche i puntini di sospensione che intervallano questo libro, donandogli il suo sapore particolare. Santa Feba, con le sue condizioni mitico-rituali e con la sua oscura dimensione straordinaria, rappresenta sia la Vergine che Atena/Aracne, come credenze archetipali della Grande Madre tipiche della Puglia e del Salento in particolare. In fondo è pur sempre “una Madonna”, anche se Nera, come ci ricorda il titolo:
La gente del Salento, in generale, ha una venerazione particolare per la Vergine (Aracne è una giovane vergine) e allo stesso tempo per la Grande Madre (Atena-Minerva è allo stesso tempo la Vergine per eccellenza, ma anche una Grande Madre androgina). Probabilmente questa credenza archetipale affonda le sue radici nelle età più remote, fino ad arrivare forse al neolitico e fors’anche al paleolitico salentino, a noi più vicine nel tempo rispetto ad altri periodi antichi del resto della Terra. [7]
Da tante scene crude del libro si comprende come vi sia un ordine che deve essere ristabilito. E il ritorno all’ordine è spietato, violento: Alepia ristabilisce la sua terribile armonia. De Martino ricollega ancora alle società contadine questo stesso concetto di riequilibrio:
Innanzitutto il mietere è visto come “violenza”, “uccisione”, “colpa”…[…] “L’altro che ha recato violenza è punito dalla sua colpa, l’ucciso è vendicato”, cioè l’operatore simbolico su cui si è trasferita e concentrata l’operazione del mietere è oggetto di comportamenti rituali compensatori e equilibratori dell’ordine violentemente alterato. [8]
Alepia non cambia mai e non succede mai nulla, ma la violenza dei suoi rituali ha conseguenze, scopi e natura sue proprie. È una domanda ricorrente in Madonna Nera e si lega al rituale del lancio delle mandorle per restaurare i suoi denti. [9] Ho provato a indagare queste conseguenze nelle loro radici storiche e culturali. Per tutta questa costellazione di nascosti motivi simbolici, ma anche per il semplice piacere della lettura di un folk horror ben scritto, vi consiglio di provare ad immergervi in questo romanzo di Germano Hell Greco, facendovi risucchiare nell’oscuro mondo primitivo di questa Puglia, di Alepia e dei denti di Santa Feba.
BIBLIOGRAFIA:
NOTE:
- G.H. Greco, Madonna Nera, Acheron Press, Città di Castello (PG) 2024, p. 21.
- G.H. Greco, Madonna Nera, op. cit., pp. 132-133.
- M. Nocera, Il morso del ragno. Alle origini del tarantismo, Capone Editore, Lecce 2005, p. 122.
- G.H. Greco, Madonna Nera, op.cit., p. 143.
- Ivi, p. 141.
- E. De Martino, Etnografia del tarantismo pugliese. I materiali della spedizione nel Salento del 1959, a cura di A. Signorelli e V. Panza, ARGO s.c.r.l., Lecce, 2011, p. 158.
- M. Nocera, Il morso del ragno. Alle origini del tarantismo, op.cit., p 125.
- Ivi, p. 159.
- G.H. Greco, Madonna Nera, op. cit., p. 142.
A cura di Davide Russo
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