Pupi Avati che cinema la vita! di Bartoli e Stanzani

Vita e opere di Pupi Avati

Per conoscere uno degli ultimi autori del nostro cinema

Pupi Avati che cinema la vita! (Italia 2025)
Regia, Soggetto, Sceneggiatura: Mauro Bartoli, Lorenzo K. Stanzani. Programmista Rai: Luisa Riccardi. Organizzazine Generale: Orso Rosso Film. Immagini di Repertorio: Duea Film, Duea/Acek, Teche Rai. Musiche: Toni Villa, Roberto Villa, Riz Ortolani. Produzione: Lab Film, Rai Documentari, Emilia Romagna Film Commission, Regione Emilia Romagna. Interpreti: Pupi Avati, Antonio Avati, Mariella Avati Ricci, Mariantonia Avati, Cesare Bastelli, Paolo Conte, Ezio Greggio, Steve Della Casa, Gian Luca Farinelli, Gianfranco Miro Gori, Lodo Guenzi, Neri Marcoré, Carlo Lucarelli, Massimiliano Perrotta, Filippo Scotti.


Un documentario che ripercorre la vita e le opere di Pupi Avati, anche le sconfitte e le illusioni perdute, non solo i successi e i momenti migliori, sottolineando la fatica e la costanza di un autore che ha cercato di emergere con ogni mezzo, perché aveva qualcosa da dire. “Guarda tutto e cerca di ricordarti bene quello che vedi. Quando sarai vecchio avrai solo questo da fare”, sono le parole del nonno estrapolate da un film di Avati, vero e proprio filo conduttore del suo cinema, una poetica del ricordo, pascoliana e proustiana (nessuno degli intervistati l’ha detto). Il documentario si sviluppa come un collage di pellicole montato in maniera non consequenziale che funge da corredo a una lunga intervista a Pupi Avati, supportata dalle considerazioni di alcuni attori, collaboratori e critici. Il nostro ultimo grande regista - così mi piace definirlo - erede di una generazione di cineasti che non c’è più, da Fellini a Pasolini, si racconta senza infingimenti, confidando di aver attraversato il nostro cinema classico tenendosi in disparte. Il peccato originale di Pupi Avati - per la nomenclatura classista degli anni Settanta - è stato sempre quello di definirsi democristiano, di non essere schierato, soprattutto di non essere incasellabile. Le parole scorrono su un sottofondo jazz per mettere in evidenza il primo amore del regista, una passione abbandonata (ma non rimossa) perché privo del talento necessario per emergere. Lucio Dalla è il musicista - amico che con i suoi stupendi assoli glielo fa capire, a mio parere per fortuna, visto che nel cinema Pupi Avati porta una voce originale, dice qualcosa di nuovo (e di antico, per restare al Pascoli), non si limita a imitare, come sarebbe accaduto con il clarinetto. “Abbiamo sempre fatto cinema senza badare alle mode del momento, all’ideologia corrente, proprio per questo abbiamo girato pellicole destinate a durare a lungo, storie che con il passare del tempo non invecchiano, ma (come il buon vino) migliorano”, dicono i fratelli Avati. Un cinema indipendente in tutto, realizzato con una modalità produttiva artigianale, dotato di quel tocco avatiano (non si può definire diversamente) che rende qualsiasi film un “genere Avati”. Le pellicole prodotte sono intrise di radici familiari, ricordo, nostalgia, spesso girate nei luoghi avatiani per eccellenza: la Bassa Lombarda, Bologna, l’Appennino, le valli di Comacchio. Il documentario trascura il cinema girato negli Stati Uniti, una buona fetta dei lavori di Avati sono ambientati nello Iowa, stato periferico che presenta qualche assonanza con le zone italiane di provincia, così come ci sono film dedicati al jazz, uno su tutti quello (stupendo) che narra la vita del musicista Bix BeiderbeckeAvati replica al cinema le situazioni vissute da ragazzo, seguendo le parole del nonno, in un mix di realtà e fantasia, sulle ali della nostalgia e del tempo perduto. Il documentario racconta cose per me fin troppo note, visto che ho analizzato l’intera produzione del regista nel volume Tutto Avati (Il Foglio Letterario Edizioni, 2018 - aggiornato nel 2025), ma per chi non sa niente delle sue origini è interessante seguire i primi passi di un autore nel mondo del cinema. Un certo Mister X che finanzia le prime fallimentari pellicole (Balsamus e Thomas), l’ingresso di Tognazzi nella vita cinematografica di Avati con La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone e i primi successi commerciali. Non può mancare una parte sul gotico padano, l’attenzione a La casa dalle finestre che ridono e Zeder, ma ci sono anche i film della nostalgia, gli amici del Bar Margherita - dove nascono i sogni -, le gite scolastiche, le feste di laurea, i regali di Natale. Ricordiamo Ennio Flaiano che risponde al gruppo di aspiranti cineasti: “Non scrivetemi più!”, ma Pupi non ha un piano b, se cade da cavallo si rialza e va avanti per la sua strada, anche quando arriva ultimo sa che deve insistere. Lo dice molto bene nella frase finale del documentario: “Io sono quello che ricostruisce i castelli di sabbia che gli altri demoliscono”. Antonio Avati abbandona l’idea di fare l’attore e si mette a scrivere sceneggiature con il fratello, vestendo il ruolo del produttore, spesso si fa venire geniali intuizioni su attori da impiegare in vesti poco consuete. Nascono nuovi ruoli drammatici per AbatantuonoGreggioRicciarelliD’Angelo, persino Boldi. Ricordiamo anche Silvio Orlando - attore morettiano - e Francesca Neri in un film intenso e commovente come Il papà di Giovanna che sfrutta al massimo le potenzialità di Alba Rohrwacher. Dalle parole del regista viene fuori l’idea del regista emarginato che vuol fare solo il suo cinema, ma lo spettatore attento comprende che questa emarginazione è stata la fortuna di Avati, libero di girare un originale cinema del ricordo, sempre riconoscibile, unico al mondo, dotato di un respiro diverso e del tocco magico della memoria. La bellezza del cinema di Avati sta nella scrittura profonda, nei dialoghi forbiti, nella recitazione di attori mai impostati ma capaci di portare una personalità vera sulla scena. Il documentario parla della factory avatiana: la fotografia di Bastelli, attori come Cavina (anche sceneggiatore), Delle Piane e Capolicchio, mettendo in risalto la grande capacità tecnica del regista, sia con la macchina da presa, sia come direttore di attori, la sua bravura nel tirare fuori il meglio dagli interpreti. Un documentario che ho visto con piacere ma che avrei preferito più snello, concentrato sugli spezzoni dei film e sulle parole del regista, aggiungendo le sole considerazioni di Antonio Avati. A mero titolo esemplificativo non ho capito il ruolo di Carlo Lucarelli nel cinema di Pupi Avati, a parte la bolognesità. Aggiungo che alcune considerazioni critiche sono ridondanti e che certi passaggi sono  ripetitivi, come quando si parla di jazz. Resta il fatto che ascoltare Pupi Avati nel racconto della sua vita non ha prezzo, da grande affabulatore è capace d’incantare mentre spiega a un pubblico che ascolta rapito. Pupi Avati che cinema la vita! è passato su Rai Tre in prima serata ma è ancora reperibile su Rai Play. Se non sapete niente del regista merita la visione, conoscerete uno degli ultimi autori del nostro cinema. Ecco il link:

A cura di Gordiano Lupi



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