Non prendere impegni stasera


Non prendere impegni stasera sembra un chiaro  invito a tenersi una serata libera e andare al cinema ed in effetti, io che ho ascoltato il richiamo, ne sono uscita soddisfatta; anche se, ovviamente, il titolo ha ben altro significato…
Gianluca Maria Tavarelli apre il suo quinto lungometraggio con una malinconica quanto bellissima sequenza sul groviglio di strade, di fili del tram e di binari ferroviari della città (Roma) che fa da connettivo tra i personaggi di cui racconta la storia; i nomi degli attori (è un cast molto “conosciuto”) scorrono tra i coriandoli luminosi della notte, tra le macchine che sfrecciano sull’asfalto, tra la gente in attesa del mezzo che li riporterà a casa, accompagnati dalla canzone di De Andrè. Mentre la musica si spegne, un campo lungo mostra un ponte su cui c’è un uomo, vestito di nero, che si butta giù nell’acqua ma lo vediamo da lontano e quindi  non si capisce chi è; una scritta in basso riporta la data (il 23 dicembre) e dice: IO CHE NON CE LA FACCIO PIU’ . Ma chi è l’”io” in questione? Perchè non ce la fa più? Ovvio che a non farcela più sia l’uomo che sta cercando il suicidio; ma un pochino anche io- spettatrice che lo sto guardando e magari sono io che non ce la faccio più. Tavarelli  specifica uno stato d’animo visivo: l’uomo che si è buttato nelle acque, tanto bene non deve stare; poi aggiunge la sovrascritta che conferma quanto l’immagine in campo lungo ci mostra, ma allo stesso tempo ce la  avvicina con quell’”IO” messo ad inizio frase: è l’”io “ che ora interessa, perché è lasciato troppo in sospeso, e quindi ora si vogliono avere delle risposte su chi, cosa e come di questa situazione.
Dopo questa scritta, il film inizia il lungo flash back che ripercorre le cause scatenanti di questo stato d’animo, come in una seduta psicoanalitica quando si deve ritornare alle origini della propria malattia, e si torna indietro a tre mesi prima (altra scritta: settembre) per cominciare a parlare e trovare un soggetto. La storia non ci offre solo una motivazione al malessere, ma molti di più, perché Tavarelli -che è anche lo sceneggiatore-  costruisce una storia plurale, parla di cinque diversi personaggi che si trovano ad affrontare tradimento, psicosi e paure, malattie fisiche e mentali manovrando le fila delle storie come in un film a episodi, ma che qui si succedono ritmicamente senza cartelli intermedi. C’è Alessandro (Andrea Renzi) che soffre di claustrofobia, ha una paura folle di salire sull’ascensore del suo ufficio e piuttosto di andare da uno psicologo ricorre alla chiromanzia. Giorgio (Alessandro Gassman) non riesce a superare la rottura con la sua ex fidanzata, Alessia (Francesca Inaudi), e scarica tutta la sua rabbia su chiunque gli capiti davanti, dal camionista alla cliente in fila alla cassa. C’è Andrea (Luca Zingaretti) che tradisce la moglie con Veronica, una commessa ventisettenne (Micaela Ramazzotti) ma non riesce a decidere in quale delle due relazioni restare; e Nanni (Valerio Rinasco), che si perde nell’amore per una donna già fidanzata, Paola (Donatella Finocchiaro). Alle malattie mentali subentrano quelle fisiche e Pietro (Giorgio Tirabassi) deve lottare contro un tumore, ripensare tutta la sua vita e abbandonare quella nomea da viveur che aveva, come l’amica Cinzia (Paola Cortellesi) gli ricorda.
  
Sono persone al bivio, provate e scosse nell’intimo, che si trovano tanto sole a dover affrontare le loro difficoltà quanto vicine sono nello sforzo di vincere la loro battaglia e scorgere una qualsiasi lucina che indichi la strada: sono tanti “IO” che hanno dei motivi abbastanza validi agli occhi di chiunque per dire che questa vita è uno schifo. Poiché però, ricordando Kundera,  non ci sono date due o tre vite per poter confrontare le diverse scelte, i personaggi devono fare i conti con questo dato di fatto e scegliere se vincere il loro male oppure lasciarsi travolgere e sopraffare. La narrazione plurale si districa bene tra i differenti casi e riesce a lasciare spazio ad ognuno. Il soggetto lo si è trovato ed è tutto  maschile: Tavarelli ha parlato del malessere interiore attraverso protagonisti maschili, sviscerando quello che loro hanno dentro. Ed è un bene così: il regista-sceneggiatore non ha peccato di onniscienza e non si è sentito così presuntuoso da parlare anche di altri psichi, cosa che avrebbe forzato la buona tenuta della vicenda, appesantendola inutilmente. All’inizio però eravamo stati avvertiti: è un uomo che si butta nel fiume e quindi sono occhi maschili che vivranno tale stato di malessere.
La storia ci dà quindi tante buone ragioni per arrivare a dire “Io che non e la faccio più”, senza mai scadere nella banalità del dolore ma anzi raggiungendo una certa tragicità che altri film appena usciti lasciano nel cassetto (e mi riferisco a Il bacio che aspettavo).  E quando il calendario ritorna al 23 dicembre, si avrà una sorpresa nel scoprire chi è l’uomo di nero vestito che cerca la morte nel fiume e che, appunto a sorpresa, non è nessuno dei personaggi che abbiamo incontrato, ma un passante, uno dei tanti che camminano per le strade di Roma e che anche lui, sebbene noi non ne sappiamo nulla, avrà avuto le sue ragioni per arrivare a pensare di non potercela più fare.
  
Alla domanda iniziale si ha una risposta e  l’”IO” ottiene un volto, ma è un volto nuovo, uno di quelli incontrati per caso sulla strada e contro il quale ci si è finiti addosso come per caso e di cui non si sa nulla. Non è però un semplice deus- ex- machina quello usato da Tavarelli perché oltre a costruire la tensione attorno alla domanda su quell’io iniziale e quindi ad essere origine e inizio della trama, lo sconosciuto che si butta nel Tevere è anche il mezzo visivo per considerare la condizione umana del dolore, tanto più personale e vissuta individualmente, quanto più è esperienza condivisa e di tutti.
Il dramma è individuale e collettivo e la richiesta che il chirurgo fa a Pietro, di tenersi libero la sera, dopo l’operazione, è un invito a comprendere il proprio dolore nella condivisione con gli altri. Il film lancia questi suggerimenti, senza sbavare in alcun modo nel moralismo e nel pietismo, e dà loro risalto aprendo pause narrative dedicate alla città e lasciando così spazio per raccogliere le riflessioni e non farsele sfuggire.
È un dramma che svela l’Italia malata non dall’alto, ma da dentro il malessere che il singolo deve affrontare e lo fa con la grazia e la forza di chi guarda, magari senza capire, ma guarda. È un film che lascia il dolceamaro in testa e nello stomaco. Da vedere, per pensare.

Giudizio: buono.

a cura di Elena Cappelletti