Non prendere impegni stasera sembra un
chiaro invito a tenersi una serata libera e andare al cinema ed in
effetti, io che ho ascoltato il richiamo, ne sono uscita soddisfatta;
anche se, ovviamente, il titolo ha ben altro significato…
Gianluca Maria Tavarelli apre il suo quinto lungometraggio con una malinconica quanto bellissima sequenza sul groviglio di strade, di fili del tram e di binari ferroviari della città (Roma) che fa da connettivo tra i personaggi di cui racconta la storia; i nomi degli attori (è un cast molto “conosciuto”) scorrono tra i coriandoli luminosi della notte, tra le macchine che sfrecciano sull’asfalto, tra la gente in attesa del mezzo che li riporterà a casa, accompagnati dalla canzone di De Andrè. Mentre la musica si spegne, un campo lungo mostra un ponte su cui c’è un uomo, vestito di nero, che si butta giù nell’acqua ma lo vediamo da lontano e quindi non si capisce chi è; una scritta in basso riporta la data (il 23 dicembre) e dice: IO CHE NON CE LA FACCIO PIU’ . Ma chi è l’”io” in questione? Perchè non ce la fa più? Ovvio che a non farcela più sia l’uomo che sta cercando il suicidio; ma un pochino anche io- spettatrice che lo sto guardando e magari sono io che non ce la faccio più. Tavarelli specifica uno stato d’animo visivo: l’uomo che si è buttato nelle acque, tanto bene non deve stare; poi aggiunge la sovrascritta che conferma quanto l’immagine in campo lungo ci mostra, ma allo stesso tempo ce la avvicina con quell’”IO” messo ad inizio frase: è l’”io “ che ora interessa, perché è lasciato troppo in sospeso, e quindi ora si vogliono avere delle risposte su chi, cosa e come di questa situazione.
Gianluca Maria Tavarelli apre il suo quinto lungometraggio con una malinconica quanto bellissima sequenza sul groviglio di strade, di fili del tram e di binari ferroviari della città (Roma) che fa da connettivo tra i personaggi di cui racconta la storia; i nomi degli attori (è un cast molto “conosciuto”) scorrono tra i coriandoli luminosi della notte, tra le macchine che sfrecciano sull’asfalto, tra la gente in attesa del mezzo che li riporterà a casa, accompagnati dalla canzone di De Andrè. Mentre la musica si spegne, un campo lungo mostra un ponte su cui c’è un uomo, vestito di nero, che si butta giù nell’acqua ma lo vediamo da lontano e quindi non si capisce chi è; una scritta in basso riporta la data (il 23 dicembre) e dice: IO CHE NON CE LA FACCIO PIU’ . Ma chi è l’”io” in questione? Perchè non ce la fa più? Ovvio che a non farcela più sia l’uomo che sta cercando il suicidio; ma un pochino anche io- spettatrice che lo sto guardando e magari sono io che non ce la faccio più. Tavarelli specifica uno stato d’animo visivo: l’uomo che si è buttato nelle acque, tanto bene non deve stare; poi aggiunge la sovrascritta che conferma quanto l’immagine in campo lungo ci mostra, ma allo stesso tempo ce la avvicina con quell’”IO” messo ad inizio frase: è l’”io “ che ora interessa, perché è lasciato troppo in sospeso, e quindi ora si vogliono avere delle risposte su chi, cosa e come di questa situazione.
Dopo questa scritta, il
film inizia il lungo flash back che ripercorre le cause scatenanti di
questo stato d’animo, come in una seduta psicoanalitica quando si deve
ritornare alle origini della propria malattia, e si torna indietro a tre
mesi prima (altra scritta: settembre) per cominciare a parlare e
trovare un soggetto. La storia non ci offre solo una motivazione al
malessere, ma molti di più, perché Tavarelli -che è anche lo
sceneggiatore- costruisce una storia plurale, parla di cinque diversi
personaggi che si trovano ad affrontare tradimento, psicosi e paure,
malattie fisiche e mentali manovrando le fila delle storie come in un
film a episodi, ma che qui si succedono ritmicamente senza cartelli
intermedi. C’è Alessandro (Andrea Renzi) che soffre di claustrofobia, ha
una paura folle di salire sull’ascensore del suo ufficio e piuttosto di
andare da uno psicologo ricorre alla chiromanzia. Giorgio (Alessandro
Gassman) non riesce a superare la rottura con la sua ex fidanzata,
Alessia (Francesca Inaudi), e scarica tutta la sua rabbia su chiunque
gli capiti davanti, dal camionista alla cliente in fila alla cassa. C’è
Andrea (Luca Zingaretti) che tradisce la moglie con Veronica, una
commessa ventisettenne (Micaela Ramazzotti) ma non riesce a decidere in
quale delle due relazioni restare; e Nanni (Valerio Rinasco), che si
perde nell’amore per una donna già fidanzata, Paola (Donatella
Finocchiaro). Alle malattie mentali subentrano quelle fisiche e Pietro
(Giorgio Tirabassi) deve lottare contro un tumore, ripensare tutta la
sua vita e abbandonare quella nomea da viveur che aveva, come l’amica
Cinzia (Paola Cortellesi) gli ricorda.
La storia ci dà quindi tante buone ragioni per arrivare a dire “Io che
non e la faccio più”, senza mai scadere nella banalità del dolore ma
anzi raggiungendo una certa tragicità che altri film appena usciti
lasciano nel cassetto (e mi riferisco a Il bacio che aspettavo).
E quando il calendario ritorna al 23 dicembre, si avrà una sorpresa nel
scoprire chi è l’uomo di nero vestito che cerca la morte nel fiume e
che, appunto a sorpresa, non è nessuno dei personaggi che abbiamo
incontrato, ma un passante, uno dei tanti che camminano per le strade di
Roma e che anche lui, sebbene noi non ne sappiamo nulla, avrà avuto le
sue ragioni per arrivare a pensare di non potercela più fare.
Il dramma è individuale e collettivo e la richiesta che il chirurgo fa a Pietro, di tenersi libero la sera, dopo l’operazione, è un invito a comprendere il proprio dolore nella condivisione con gli altri. Il film lancia questi suggerimenti, senza sbavare in alcun modo nel moralismo e nel pietismo, e dà loro risalto aprendo pause narrative dedicate alla città e lasciando così spazio per raccogliere le riflessioni e non farsele sfuggire.
È un dramma che svela l’Italia malata non dall’alto, ma da dentro il malessere che il singolo deve affrontare e lo fa con la grazia e la forza di chi guarda, magari senza capire, ma guarda. È un film che lascia il dolceamaro in testa e nello stomaco. Da vedere, per pensare.
Giudizio: buono.
a cura di Elena Cappelletti