Somewhere di Sofia Coppola


Johnny Marco è una star hollywoodiana che alloggia nel Chateau Marmont Hotel. Passa le sue giornate partecipando a feste, ubriacandosi, circondandosi di donne disponibili e girando a zonzo con la sua Ferrari per le strade di Los Angeles. Una vita da sogno, ma assolutamente vuota. Un giorno però riceve la visita della figlia adolescente Cleo...


Con Somewhere, il suo quarto lungometraggio, la Coppola si è aggiudicata il Leone d’Oro al Festival di Venezia 2010. Un risultato prevedibile (tanta l’attesa a quattro anni di distanza da Marie Antoinette), ma forse non pienamente condivisibile. Da amante assoluto del suo stile di regia rimango un po’ perplesso nel vedere che in realtà, già al quarto film, dopo circa (solo) 10 anni di attività ad alti livelli, la talentuosa regista stia già facendo i conti con un autocitazionismo ai limiti della ripetitività (speriamo che Tim Burton non sia contagioso). Nulla da dire sulla tipica fissità dei suoi piani sequenza; sulla riduzione all’osso delle performances attoriali; sugli impedimenti fisici dei protagonisti che esternano un’incapacità cronica di relazionarsi pienamente col mondo; niente da dire sulle varie riflessioni autobiografiche anche e (come sempre) soprattutto in chiave musicale: (ri) benvengano, quindi, anche gli Strokes che riciclano una versione “tranquilla” di I’ll try anything once (peraltro bellissima), assolutamente perfetta per l’immagine di padre e figlia in piscina. 
Sì, perché Somewhere è un bel film, a tratti toccante e molto ironico; lento, ma solo perché non può essere altrimenti. Eppure non lascia il segno. Piace, ma non colpisce. Tutto è pervaso da un’orrenda sensazione di già visto: un sapore non nuovo.
Mi pare ovvio che, osservando gli stanchi movimenti di Stephen Dorff, venga in mente il depresso Bill Murray di Lost In Translation. Anzi, devo dire, purtroppo, che questo Somewhere  mi sembra tanto il fratello minore del capolavoro che è valso l’Oscar alla bella Sofia ormai sette anni fa. I parallelismi sono evidenti: una riflessione impietosa sull'attore e sulla sua “condizione” (costretto a recitare per uno spot di Whisky il primo; costretto a stare con un calco sul viso per 40 minuti il secondo); binomio tra ragazza giovane e attore vecchio (qui Johnny è vecchio dentro – ma la maschera da vecchio che gli fanno indossare esplicita il tutto magistralmente); fatidico viaggio all'estero con ovvia ospitata in trasmissione televisiva di paese sottosviluppato in fatto di entertainment (il Johnny Carson giapponese e i “Telegatti” – presa in giro del nostro paese? Non credo); parentesi famigliare davanti alla TV della stanza d’albergo di film che non si capiscono (La dolce vita in Lost in Translation; Friends doppiato in italiano in Somewhere); incapacità fisica che esterna un blocco interiore del protagonista (essere un gigante in Giappone per Murray; avere il braccio rotto e addormentarsi di schianto durante l’amplesso per Dorff). La famosa Porsche che Murray doveva comprarsi per la crisi di mezza età diventa una ferrari in Somewhere (di nuovo Johnny prematuramente vecchio). Mi fermo qui. Ma solo perché amo questa regista e apprezzo i suoi film. E apprezzo onestamente anche quest’ultimo, una magistrale e sublime rappresentazione degli inceppamenti della vita: ancora il braccio di Johnny che si rompe; vorrebbe poter dire a un giovane attore che lui ha studiato recitazione, ma non è così, perché nel mondo dello spettacolo ci è capitato per caso; la fuoriserie costretta dai limiti di velocità cittadini (e che a un certo punto si rompe); il rapporto con la figlia che forse ha una svolta, ma forse no; le colossali dormite nei momenti in cui l’eccitazione dovrebbe irrompere;.la chitarra scordata di Teddy Bear


Apprezzo e rispetto questo film, dicevo: anche se in realtà si riduce all’insieme delle parti noiose di Lost in Translation. Cosa manca in Somewhere, quindi? Forse proprio Bill Murray…



Voto: sufficiente.




Di seguito il trailer originale italiano:



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