Dentro le pietre di Joseph Payne Brennan

« È inconcepibile per me » scrisse il mio amico investigatore psichico Lucius Leffing « che qualunque persona di razionale percezione e sensibilità, possa passare un lungo periodo della sua vita in una specifica abitazione senza lasciare qualcosa di se stesso impregnato, per così dire, dentro le pietre, legno o cemento del posto. »
Come vividamente mi ricordai di questa affermazione, qualche tempo dopo! Ma incominciamo dall’inizio.
Ero stato lontano da New Haven per molti anni e ritornai in uno stato abbastanza depresso fatto di ricordi e di rimpianti.
La mia salute non era buona. La febbre reumatica dell’infanzia aveva alla fine danneggiato il cuore. Inoltre, avevo un disturbo agli occhi. Il nervo ottico era inspiegabilmente infiammato; la luce forte mi faceva soffrire. Nell’oscurità e nella luminosità attenuata, comunque, potevo vedere abbastanza bene, anche se in realtà io sentivo che la mia visione stava diventando anormale.
Dopo aver affittato una stanza in una delle poche aree residenziali rimaste (che non erano ancora state contaminate dal diffuso contagio dell’umana e sociale degenerazione) io incominciai a fare lunghe passeggiate lungo le vie della città. Di solito sceglievo le giornate nuvolose, quando il sole era nascosto; quando il cielo era coperto e la luce grigia, anziché bianca, i miei occhi smettevano di farmi male e io potevo passeggiare in relativa tranquillità.
La città era molto cambiata. Talvolta riuscivo a malapena a capire dove mi trovavo. Interi isolati con piccole casette erano stati spazzati via. Enormi strutture nuove, efficienti ma brutte, sorgevano da tutte le parti. Perplesso, io frequentemente mi rifugiavo nel non ancora distrutto parco comunale, il Bosco come era chiamato qui. Comprendevo comunque che questo ultimo rifugio alberato era sotto assedio; vari interessi erano in moto per coprire quell’oasi di verde col cemento, allo scopo di creare un immenso parcheggio a pagamento.

Un pomeriggio di tardo ottobre quando il cielo minacciava la pioggia uscii per una passeggiata. La mancanza del sole riposava i miei occhi; l’aria fredda in qualche modo mi calmava. Per circa un’ora camminai senza meta. Per un improvviso capriccio decisi di visitare una parte della città che avevo fino ad allora trascurato. Ero vissuto in questo quartiere quando ero bambino, oltre 40 anni fa. Anche se avevo solo 3 anni quando la mia famiglia si trasferì, avevo ricordi vividi di quella casa ed i suoi dintorni.
La casa era a due piani, rossa di mattoni, costruita solidamente, localizzata al numero 1248 di State Street. Quando vivevo là, un grande olmo stava di fronte alla costruzione. Sul retro c’era un ampio terreno incolto che si stendeva fino alla via adiacente, ed era un campo da gioco ideale.
In seguito l’olmo era stato abbattuto, il terreno quasi interamente riempito di case popolari e l’intero quartiere si era avviato verso il declino.
Mentre mi avvicinavo a quella vecchia area, ero spaventato da ciò che vedevo. Alcune case erano state abbattute; altre erano vuote, mostrando vetri rotti, porte fracassate e verande crollate. In un isolato ogni casa era vuota e parzialmente in rovina. Ero stupefatto e sconcertato. Non avevo visto una desolazione simile fin dai tempi della guerra.
Sotto questo grigio cielo di ottobre, con la nebbiolina che stava per arrivare, vedevo uno dei più squallidi scenari che si potessero immaginare. Provavo un’intensa oppressione spirituale, e mentre seguitavo a camminare lungo quelle vie stranamente deserte, il mio scoramento aumentava.
Finalmente incontrai un passante già tutto intabarrato in un giaccone invernale. Mi guardò sospettosamente quando gli chiesi perché lì c’erano così tante case fracassate e vuote.
« Perché qui deve passare la nuova superstrada 91 » lo sconosciuto mi rispose affrettando il passo.
Anche se adesso avevo appreso che c’era una razionale spiegazione per tutta quella desolazione, non mi sentivo affatto meglio. Ero fermamente convinto che sarebbe bastata una semplice modifica al tracciato della nuova superstrada per farla passare attraverso terreni piatti e paludosi, distanti appena poche miglia da lì. Il costo di questa deviazione sarebbe stato solo una frazione di quello da sostenere per la demolizione di tutti quegli edifici.

Mi aspettavo che la casa della mia prima giovinezza fosse già stata abbattuta. Provai quindi una leggera esultanza nello scoprire che essa stava ancora là. Ho detto leggera perché naturalmente sapevo che era condannata a sparire. Già le finestre erano rotte, la porta scardinata e parte della siepe antistante era stata abbattuta dal passaggio di camion e ruspe.
Mentre la guardavo ricordavo chiaramente episodi di oltre 40 anni prima e riflettevo sulla precarietà in cui vivono gli abitanti delle piccole città. Per scelta, o più probabilmente per necessità, questi cittadini si spostano da una casa all’altra. Non hanno stabilità, non hanno continuità. Quando qualcuno visita il proprio vecchio quartiere può scoprire che quella sua precedente abitazione è scomparsa. Il luogo può essere stato occupato da un progetto di urbanizzazione per villini a schiera, o da un blocco di garage oppure da un grande posteggio a pagamento.
La casa, gli alberi, il cortile, perfino il marciapiede e la strada possono essere stati rasi al suolo e cancellati. Chi ritorna poi in quei posti prova una sensazione di sconfitta, un senso di sbigottimento, di caos. Un uomo incomincia allora a sentire che sta perdendo la propria identità oppure che, veramente egli ormai non possiede più un’identità. Così egli si sente sperduto nel tempo, senza passato né futuro. Non c’è più nulla dove egli possa ritornare, niente di permanente dove possa continuare a vivere nell’incerto futuro. Isolato, intristito, alla deriva, questo individuo sperimenterà pertanto una solitudine dello spirito che nulla può calmare. Migliaia di abitanti delle moderne città si sentono sradicati, affannati in cerca di un focolare, di una abitazione che condivida il sapore del tempo, di un posto caldo e continuativo sulla terra che li unisca con il proprio passato e con un futuro nel quale è ancora possibile di avere la speranza.
Con questi pensieri deprimenti nella testa io stavo davanti alla perduta casa di mattoni rossi della mia infanzia. Provai l’impulso di entrare, ma supposi che non era sicuro, e molto probabilmente era anche proibito.

Scendeva l’oscurità. La nebbiolina si ispessiva e io ancora indugiavo in quel luogo.
Mi allontanai da quella casa da demolire nella quale avevo abitato a lungo e vagai per strade desolate, sbirciando attraverso finestre rotte e porte scardinate che non sarebbero più state aperte da una mano amica.
In alcune finestre, tendine marcite e annerite, che nella confusione dell’affrettato trasloco erano rimaste lì, fluttuavano nel freddo vento di Ottobre. Strani pezzi di mobili, piatti e altri ornamenti stavano sparsi sul pavimento. Intere vite erano trascorse in alcune di quelle case. Ora queste vecchie dimore erano diventate solo rifugi vuoti, in attesa della totale e finale distruzione.
L’intera area sembrava deserta, silenziosa, prosciugata da ogni forma di vita. Perfino il solito rumore della città arrivava lì stranamente attutito e lontano.
Vagai senza speranza oppresso dalla desolazione che mi circondava, però desiderando accanitamente di rimanere ancora lì.
La nebbia si ispessì, l’oscurità si fece totale e io non me ne andai via.
Malgrado l’oscurità potevo vedere abbastanza bene.
Questa anormale abilità la attribuii alla mia allergia alla luce forte. Sentivo che questa condizione era dovuta alla infiammazione del mio nervo ottico, della quale ho già parlato.
Attraversai un viale, stranamente luccicante per i pezzi di vetri rotti di alcune finestre, e mi fermai per osservare una casa, grottescamente inclinata, col tetto crollato. Era una piccola abitazione bianca, costruita con economia e nonostante ciò vidi che il proprietario, una volta, la aveva accudita teneramente. Aveva un colore luminoso; la piccola cassetta per le lettere era lucidata; e un vecchio giardino ormai incolto e tutto calpestato circondava il luogo. Così assorto nei miei pensieri guardavo questa casa desolata attraverso la nebbia sempre più fitta; fu allora che vidi una faccia alla finestra del pianterreno. Era il viso di un vecchio, bianco, sofferente, pieno di una inesprimibile desolazione.

Lo guardai stupefatto. Il mio primo pensiero fu che fosse un vagabondo penetrato nella casa abbandonata con lo scopo di trascorrere la notte. L’umidità, probabilmente gli accentuava i reumatismi.
La faccia sconosciuta continuava a guardarmi; andai via, sentendomi a disagio, e rabbrividii, incolpando la nebbia fredda.
Avevo attraversato un gruppo di case quando vidi una donna. Enormemente grassa, stava seduta su una sedia di vimini nella veranda semidistrutta di una casa a due piani. Portava occhiali con lenti spesse che parevano riflettere un chiarore proveniente da sorgenti nascoste. Non c’era la luna, sicuramente, e non vedevo luci artificiali nei paraggi.
Ero stupito, ma supposi che alcune persone abitassero ancora illegalmente nelle vecchie case di quel quartiere, in attesa di trasferirsi nelle loro nuove residenze in costruzione. Provai l’impulso di affrettare il passo, di tirare dritto senza guardarmi più intorno. Invece, testardamente e contro il mio buon senso, non lo feci.
Anzi, feci una sosta, mi schiarii la voce e dissi: « Buonasera ».
La donna grassa non mi rispose; non diede segno di avermi sentito. Probabilmente, pensai, oltre ad avere la vista corta era anche un poco sorda.
Avanzai di qualche passo nel vialetto e ripetei ad alta voce: « Buonasera ».
Allora sbattei le palpebre sbalordito. La sedia di vimini era vuota! Mi fermai di colpo e la guardai. Prima, per un istante, avevo abbassato gli occhi sul marciapiede per essere sicuro di non inciampare sui detriti; in quei pochi secondi probabilmente la donna si era alzata ed era rientrata in casa.
Ero meravigliato. La donna era grassa, però si era spostata con una stupefacente rapidità. Mi voltai, e tornai sul marciapiede allontanandomi.
Supposi che la donna fosse consapevole di stare lì abusivamente ed era rientrata in fretta in casa per evitare discussioni con uno sconosciuto.
Mentre mi allontanavo mi voltai indietro. Rividi ancora lo scintillio dei suoi occhiali; la donna grassa adesso stava di nuovo sulla sedia di vimini. Qualcosa, più che la nebbia turbinante mi fece rabbrividire. Raggelato, affrettai il passo.

Era tardi, mi dissi, sarebbe stato meglio lasciare in fretta quelle sconnesse strade nebbiose e tornare a casa per farmi una buona tazza calda di the.
Camminavo rapidamente, ma non potevo fare a meno di guardare le case in rovina, mentre ci passavo davanti.
Improvvisamente mi fermai. Il cuore mi batteva forte. Una fredda ondata di paura mi formicolava sulla pelle. Con occhi e bocca spalancata guardavo attraverso quel tenue muro di nebbia e sentivo che il raziocinio e la sanità mentale mi stavano abbandonando.
Quasi metà di quelle case diroccate e abbandonate adesso erano tutte chiaramente occupate. Vidi pallide facce tristi sbirciare da una dozzina di differenti finestre. Oscure, nebbiose figure sedevano dentro alcuni porticati. Un vecchio, contorto dai dolori reumatici, lavorava fiaccamente in un minuscolo giardino. Una donna di mezza età, pallida come la morte, ma con una espressione di rabbia sconsolata stampata sulla faccia, si guardava intorno standosene vicino ad un cancello rotto.
Peggiore di queste erano altre visioni. Vidi una sedia a dondolo muoversi dentro ad un portico, anche se non c’era nessuno seduto. Scorsi una mano simile a un artiglio aggrappata ai mattoni di un edificio. Nell’orto di una casa mezza distrutta notai ciò che sembrava essere una testa di donna, senza corpo, con un grande cappello di paglia, che si muoveva lentamente nell’intrico di una trascurata aiuola di fiori.
Sentivo la morsa della vicina pazzia. Non provavo più nessun desiderio di restare a guardare. La fuga immediata e imperativa diventò il mio unico scopo.
Corsi forsennatamente attraverso tutte quelle vie abbandonate e non abbandonate pieno di paura come se fossi inseguito da un cane. Corsi finché il mio cuore resse e poi un forte senso di vertigine mi prese.
Arrivato comunque lontano da quel posto maledetto con tutte quelle bianche facce mostruose, la nebbia appiccicosa e uno strano grande silenzio, io crollai sulla soglia di una casa.
Alcune ore dopo raggiunsi l’albergo e sprofondai nel letto. Per giorni rimasi in stanza ammalato. Il mio cuore era affaticato dallo sforzo e inoltre manifestavo i segni di una pleurite. Mentre giacevo a letto, meditai sulla mia spettrale esperienza nelle vie del mio vecchio quartiere, fra quelle case silenziose.

Mi convinsi che i miei occhi infiammati e ultrasensibili mi avevano ingannato, che solo la nebbia vagante e la mia immaginazione erano state la causa di tutto.
Ma, settimane dopo, quando raccontai la mia avventura all’amico investigatore psichico Lucius Leffing, lui scosse la testa dopo la mia spiegazione.
« Sono fermamente convinto, » mi disse « che né i tuoi occhi infiammati né la tua immaginazione, abbiano evocato i fantasmi che hai descritto. Come ti scrissi recentemente è inconcepibile che una persona di razionale percezione e sensibilità possa passare un lungo periodo della vita in una abitazione, senza lasciare qualcosa di sé impregnata, per così dire, dentro le pietre, nel legno o nel cemento di quella costruzione. Ciò che hai visto erano i residui psichici delle povere anime scomparse che, da generazioni, hanno trascorso la vita in quelle case che ora stanno per demolire. I loro resti psichici sono rimasti attaccati a quelle abitazioni e, come tu mi hai raccontato, alcuni di essi sono ormai così consumati e sbiaditi da apparire ancora solo come dei semplici frammenti… frammenti di povere anime sperdute e senza pace! »

NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. “Dentro le pietre” di Joseph Payne Brennan, titolo originale: “In the Very Stones”, pubblicato nel 1973 in “Stories of Darkness and Dread”, edito da Arkham House, tradotto da Sergio Bissoli e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.


Tutti i diritti riservati per immagini e testi agli aventi diritto ⓒ.