I due volti del male di William Kinston

La prima volta che lo vidi, un fremito mi corse rapidissimo per le membra, quasi avvertendomi che quell’uomo mi doveva riuscire fatale.

Me ne ricordo nitidamente, nonostante siano passati due anni – due anni eterni – angosciosi, di vita da prigioniero, con il cuore oppresso e le orecchie intronate dagli urli bestiali dei miei orrendi vicini, in questa angusta celletta con le inferriate alla finestra, e i pochi oggetti fissati solidamente alle pareti ed al pavimento, per paura, dicono, che non me ne abbia a servire in uno dei miei consueti eccessi di pazzia furiosa.

Era una sera di gennaio umida e triste e me ne tornavo in fretta a casa, dal circolo, quando appena aperto il portone, scorsi lui, ritto ai piedi della scala.

Pareva attendesse qualcuno.

Rivedo ancora, rabbrividendo, quella sinistra figura di vecchio malefico. Di statura eccessivamente bassa, magro ed ossuto e ritratto nelle membra: il viso lungo e smorto, dalla pelle rizza, cadente in pieghe giallognole, il naso adunco, le labbra bianche e crespe, e gli occhi… gli occhi erano un orrore.

Appena comparvi sul portone egli sollevò rapidamente le palpebre socchiuse, flaccide e pesanti e le iridi grandi mi apparvero per un istante: di un colore chiarissimo, quasi bianche, con dei toni giallastri, e la pupilla nera dilatata straordinariamente.

Poi il lampo giallo si spense subito sotto quelle palpebre ricadenti.

Un solo istante, ma come fu funesto per me.

Quello sguardo acuto che penetrò lacerando e abbattendo ogni ostacolo, fino nell’intimo della mia anima e la frugò tutta e la esplorò in un secondo e che, come una punta rovente, si cacciò veloce nel mio cervello, tanto da darmene un dolore quasi sensibile; e quella espressione fugace di maligna soddisfazione e di trionfo insieme, della iride gialla, mi compresero, credetemi, di uno sguardo arcano ed inesprimibile.

Gli occhi, intanto, si distolsero dai miei. Ed allora mi sentii come liberato dalla forza misteriosa che mi aveva per un momento inchiodato al suolo, paralizzandomi.

Una forza oscura, potente, sovrumana.

Compiendo uno sforzo io continuai il mio cammino. Raggiunsi la scala ed, appoggiandomi fremente alla ringhiera, cominciai a salire, vacillando stranamente, con la mente confusa.

Cosa mi stava succedendo, dunque? Cosa mi era accaduto in quei brevi istanti, durante i quali avevo incontrato lo sguardo malefico di quell’uomo?

Giunto davanti all’uscio del mio appartamento, aprii in fretta e richiusi di colpo la porta, guardando indietro con la coda dell’occhio, terrorizzato, temendo veramente che qualcuno mi inseguisse, mi afferrasse per un braccio, facesse di me una vittima designata ed impotente a ribellarsi alla forza oscura.

Indescrivibile la sensazione che provai. Difficilissima da rendere con quella potenza espressiva che dà il clima a tutta la spaventosa vicenda.

Entrai in casa a tentoni, al buio, con il cuore stretto, cercai l’interruttore ed al chiarore amico respirai di sollievo. Mi sentivo liberato da un grave incubo.

Ma la notte, quella notte fu un tormento.

Patii l’angoscia di sogni penosi. E la mattina seguente mi destai con la testa pesante, un’angoscia che non riuscivo a vincere. Tuttavia mi vestii, uscii e mi recai al mio studio di avvocato. Pensavo che riprendendo il mio normale tran-tran quotidiano tutto si sarebbe normalizzato dentro di me.

E così mi parve in un primo momento, perché il mal di testa con il quale mi ero destato al mattino, a poco a poco si attenuò. Ma appena calò la sera, ecco che l’emicrania mi aumentò a tal punto che dovetti lasciare lo studio e tornarmene a casa.

Quando mi trovai sul pianerottolo del primo piano (io abito al terzo), mi sentii nuovamente invadere da un’inquietudine, da una smania inesprimibile.

A mano a mano che salivo verso il mio appartamento l’ansia e l’inquietudine aumentavano singolarmente in me.

Le gambe mi tremavano, un sudore diaccio mi imperlava la fronte. Senza saperne il perché, sentivo stringermisi il cuore al solo pensiero di trovarmi tra poco sul pianerottolo del terzo piano.

Che cosa, dunque, di spaventoso, di terribile mi aspettava lassù?…

Quando giunsi ai piedi dell’ultima serie di gradini ed alzai gli occhi, esitando, mi resi chiaramente conto della ragione del mio spavento, che prima avevo soltanto intuito.

***

Fermo, in cima alla scala, proprio davanti all’uscio che prospettava il mio, stava il vecchio della sera innanzi. La luce della lampadina fissata al piano di sotto, non giungendo a rischiararlo per intero, ne vedevo soltanto la brutta faccia illuminata dal sotto in su, indovinando nell’ombra il profilo curvo della persona rattrappita.

Il viso appariva avariato di luce e di ombra. I solchi delle rughe erano segnati in nero, profondissimi. La bocca, questa volta, sorrideva.

Ma cos’era quel sorriso? Una smorfia sguaiata? Una contrazione dolorosa? Un ghigno diabolico?

Certo, non ho visto mai nulla di tanto spaventoso: di più, nel vano buio e lurido che, dalle labbra aperte presentava la bocca sdentata, spiccano nettamente due strisce biancastre: due denti, due soli, lunghissimi, arcua denti a mo’ di zanne, e in alto gli occhi che mi fissavano con un lampo di trionfo, che il vecchio non si curava più di nascondere, nelle iridi gialle, dilatate.

Ma quale non fu il mio orrore, quando distogliendo lo sguardo da quella luce sinistra e fascinatrice insieme, e cercando un rifugio più in basso, nel buio, vidi in esso muoversi e ingrandirsi rapidamente due punti gialli, dai toni rossastri, luminosi come due lanterne, sfavillanti come braci, che sollevandosi ad un tratto bruscamente, cominciarono ad avanzare verso di me.

E scorsi allora con irragionevole terrore, con uno spavento che mi prendeva alla gola, uscire dall’ombra un gatto grossissimo, tutto nero, dal pelo lucido e ritto, la coda eretta, arruffata, ascendere lentamente e silenzioso, con movimenti tortuosi di rettile, fissandomi sempre con le sue pupille di fuoco, ed arretrarsi, finalmente, sull’ultimo gradino, proprio di fronte a me, che l’attendevo immobile, come ipnotizzato, dominato da una sensazione di fatalità ineluttabile.

La bestia emise un miagolio sommesso, e ritraendo la bocca mostrò due denti bianchi, lunghi ed azzurri, somigliantissimi stranamente per la forma a quelli del suo padrone.

Ma la cosa terribile che accadde (o forse fu soltanto l’immaginazione a suggerirmela), fu vedere il gatto nero trasformarsi rapidissimamente nella figura del vecchio, in una magica sovrapposizione, o, addirittura, in una metamorfosi che qualsiasi cervello normale avrebbe respinto come impossibile mostruosità.

Eppure, nonostante giurassi a me stesso che ciò era assurdo, il vecchio ed il suo gatto erano divenuti la stessa cosa: l’animale ed il suo padrone erano una persona sola.

Indietreggiai inorridito. L’urlo di angoscia che mi sali alle labbra, fu strozzato dall’ansia. Rivolsi gli occhi dove avevo lasciato il vecchio e vidi che effettivamente lui non c’era più: per quanto volgessi lo sguardo intorno, nessuna traccia di lui: egli era proprio la, dunque, dinanzi a me, una cosa sola, con il suo gatto. Bestia e uomo in un connubio mostruoso.

– Non può essere!… – mi udii mormorare: – E’ mostruoso!…

Udii come una risatina satanica levarsi da quel groviglio di uomo-bestia: un lungo brivido mi percorse la schiena, mi parve, in quel momento, di impazzire.

– Indietro, indietro! – urlai, protendendo le braccia, come per allontanare da me la mostruosa visione.

Ma ora il groviglio uomo-bestia avanzava verso di me e non pareva che il mio grido ed il mio gesto fossero sufficienti ad arrestare quella inesorabile avanzata.

Mi guardai disperatamente intorno: qualcosa, qualcosa da scagliare contro il mio nemico, qualcosa con cui ferirlo, distruggerlo…

Nulla!

Non avevo nulla con cui colpire, nulla con cui difendermi, nulla con cui distruggere il mostro.

Ormai pochi passi ci separavano. Ed improvvisamente ecco che la scena mutò. Vidi distintamente – distintamente dico – vidi l’uomo e la bestia separarsi, diventare due esseri distinti. Fu uno sdoppiamento che soltanto la magia poteva rendere possibile.

Ma mentre il vecchio era fermo, immobile e ghignante, il gatto nero con uno scatto volteggiò nell’aria, le zampe dalle unghie protese, le fauci spalancate in cui brillavano i denti aguzzi, balzò verso di me, ed istintivamente mi rattrappii su me stesso, cercando di offrire il minimo bersaglio possibile alla bestia.

Balzando sulla mia schiena piegata, il gatto nero affondò le unghie nella carne, trapassando il cappotto e la giacca, con le sue unghie acuminate; sentii sul volto il fiato caldo dell’assalitore ed un lezzo come di cadavere mi colpi le nari.

Un grido lungo, altissimo, di uomo ferito a morte salì da me ripercuotendosi per tutto il casamento. Come impazzito mi contorsi mi sbracciai per staccarmi il gatto nero dalla schiena.

La bestia, con un balzo felino toccò l’impiantito e corse verso il suo padrone, che aveva levato un braccio chiamandola a sé, senza pronunciare una sola parola di richiamo.

Ansante, in tumulto mi raddrizzai appoggiando le spalle al muro, quasi avessi voluto scavare entro di esso un rifugio in cui sottrarmi al maleficio.

Non so quanto tempo rimasi così, attendendomi da un momento all’altro chissà quale nuovo ed occulto maleficio.

Scuotendomi ad un tratto da quel torpore strano che a poco a poco mi aveva invaso, alzai gli occhi sul vecchio egli sorrideva in una maschera orrenda.

Quel sorriso ebbe il potere di sottrarmi a quel fascino, con un subito accesso di rabbia.

Di rabbia e di vergogna insieme per essermi fascino, con un subito eccesso di rabbia.

– Maledetto! – mormorai.

Facendomi forza salii allora i pochi gradini, pestando forte i piedi, e quando passai accanto al vecchio, lo fissai ben bene e con intenzione negli occhi – che subito egli nascose sotto le palpebre – e percorrendo a lunghi passi il pianerottolo raggiunsi la porta di casa mia, la aprii, entrai in fretta e voltandomi, spinto da una forza irresistibile, a guardarlo dalla fessura dell’uscio socchiuso, lo vidi ancora immobile davanti alla porta di fronte, con il suo gatto nero maledetto, accoccolato ai suoi piedi, rappresentazione del male.

Vidi che il vecchio ghignava ancora… Infuriato afferrai il battente, lo tirai a me, e spingendolo violentemente lo sbatacchiai con fracasso.

L’eco si ripercosse a lungo per il silenzio delle scale.

Mi posi in ascolto. Da principio non intesi nulla, poi mi parve di udire qualcosa di misterioso.

Accostai l’orecchio al foro della serratura, sorpresi il cigolio lieve dell’uscio di fronte che si apriva. Poi un passo leggero, furtivo ed il colpo sordo del battente che si chiudeva.

***

Un’idea orribile mi si affacciò alla mente, riempiendomi di spavento: il vecchio abitava là, vicino a me. Avrei dovuto dunque vederlo sempre, tutti i giorni!… Avrai dovuto subire la presenza invisibile anche quando la porta di casa mia lo separava da me.

Mi sedetti in poltrona e cominciai a congetturare su quel vecchio. Trascorsi una notte agitatissima. Sulle prime ore dell’alba aprii piano piano la porta per non farmi sentire da lui, scivolai fuori, sul pianerottolo, con gli occhi fissi all’uscio di fronte. Trattenendo il respiro, discesi le scale del terzo piano; ma arrivato al secondo piano mi slanciai giù con furia ed in pochi attimi mi trovai sulla strada.

Emisi un sospiro di sollievo.

Guardai su, alle finestre del suo appartamento: erano ancora chiuse. Quella calma esteriore mi rassicurò alquanto. Forse non erano che scherzi della mia fantasia, tutte quelle paure.

La sera, tornando, non feci alcun sgradevole incontro. Tranquillo mi coricai. Ma ad un tratto una grande apprensione interruppe il mio sonno: spalancai gli occhi, mi guardai attorno nel buio, mi rizzai a sedere sul letto.

Provavo un’inquietudine strana, simile a quella che mi agitava allorché incontrai il vecchio sulle scale per la prima volta.

Stetti così, a lungo. L’inquietudine in me cresceva. Alla fine balzai dal letto e, senza sapere perché, mi diressi alla porta d’uscita. A mano a mano che mi vi accostavo, l’oppressione aumentava. Quando raggiunsi l’uscio il cuore mi batteva con pulsazioni violente. Appoggiai la mano tremante al chiavistello e, quasi come se agissi per volontà altrui, cominciai a farlo scorrere lentamente, nonostante sapessi che al di là di quella porta vi era la causa del mio terrore.

Come potrei dare un’idea di quel moto straordinariamente silenzioso.

Aprii il battente con la stessa cautela e ad una fessura appena percepibile applicai l’occhio avido. Là, a pochi passi, vidi scintillare, fissi nei miei, due grandi occhi rotondi, luminosi, fiammeggianti, di un bagliore giallo-rossastro.

Mi ritrassi subitamente, inorridito non so nemmeno io perché. Feci scorrere il battente e mi appoggiai con le spalle alla porta, ansante.

La cosa terribile fu quando mi staccai dalla porta per tornare a coricarmi. Appena ebbi spento la luce, nel buio fitto della stanza, rivolgendo lo sguardo alla porta che avevo ben chiuso, vidi le punte di due occhi luminosi, malefici.

Gli sguardi del gatto nero passavano attraverso il legno. Avevano la facoltà di splendere attraverso la porta lanciandomi il loro messaggio infernale.

Mi sentii tremare. Se potevo essermi lasciato dominare dall’immaginazione nel corso dell’episodio avvenuto il giorno prima, ora il dubbio che si trattasse frutto della mia immaginazione quel che mi stava accadendo in questo momento non era più possibile.

Ero ben desto. Non avevo bevuto. I miei nervi, quantunque sovreccitati, li dominavo.

Feci allora un esperimento: sempre al buio, presi dalla mia scrivania un foglio di carta bianca e ponendolo come fosse uno schermo ad un paio di metri dalla porta vidi nell’oscurità, riflettervisi sopra i due fari luminosi del gatto mefistofelico.

Non potevano esserci più dubbi. Soltanto una potenza infernale, mostruosa era in grado di compiere

ciò.

Lasciai cadere il foglio e protesi la palma aperta della mia mano destra: la luce di quello sguardo cadde sull’epidermide ed io dovetti subito distogliere la mano, poiché sotto quei due raggi che sulla mano convergevano, una sensazione di intenso calore mi bruciò la pelle.

Non ero pazzo.

Una potenza infernale veramente mi aveva scelto come vittima.

La notte successiva, alla stessa ora, venni nuovamente svegliato da quella sensazione strana.

Ma questa volta anziché dirigermi alla porta, me ne andai verso la finestra, che spalancai di colpo.

Sporgendomi vidi sotto di me il balenio degli occhi del gatto, immobile sul cornicione sporgente all’altezza del terzo piano.

Mi sorvegliava. Mi teneva sotto il controllo continuo, spietato del suo sguardo bruciante.

Il cornicione passava sotto la finestra del vecchio. Io avrei potuto appostarmi ed attendere che il vecchio si affacciasse, per colpire con due colpi di rivoltella ben centrati tanto il vecchio che la sua malefica bestia.

Ma li avrei uccisi, poi? Non erano forse invincibili ed indistruttibili?

Passeggiai nervosamente per tutta la notte, in su e in giù per la stanza. Ogni tanto mi affacciavo per vedere se il gatto era ancora là. C’era sempre. Immobile e funesto, con il suo sguardo maledetto che passava attraverso le porte, attraverso i muri, che mi perseguitava senza tregua.

Ad un certo momento esasperato, mi affacciai con un catino colmo d’acqua: lo avrei costretto ad andarsene. Rovesciai il catino d’acqua sulla bestia ed allora vidi una cosa straordinaria che mi fece mancare il cuore. Appena l’acqua toccò il gatto maledetto, ecco levarsi dal negro pelo della bestia una densa fumata di vapore. Eppure l’acqua che avevo attinto dal rubinetto era fredda, quasi ghiacciata. Forse era il pelo del gatto incandescente? Una palla di fuoco che tutta l’acqua del mondo non avrebbe potuto spegnere. Ora avevo l’esatta misura della natura infernale della bestia e del suo padrone.

***

Da quella sera vidi quegli occhi gialli, luminosi e malefici dovunque fissassi lo sguardo: ogni luce assumeva la loro forma ed il loro splendore. In ogni angolo buio essi rilucevano sinistri: dalle pagine di un libro, da un quadro, dalla parete…

Era diventata un’ossessione terribile, insopportabile.

Pensavo che il gatto nero fosse un aiuto potente al vecchio che senza dubbio stava macchinando qualcosa di pauroso ai miei danni. Una specie di diabolico ministro di lui, una fantastica arma nella sua mano adunca, uno strumento dallo straordinario potere di persecuzione.

Cercai di ribellarmi a questa idea. Ma non lo potei, nonostante la ritenessi assurda.

Tutte le notti sentivo il gatto fissarmi da qualche punto invisibile. Mi fissava attraverso le pareti che dividevano le stanze, attraverso le porte serrate. E quello sguardo giallastro, inesorabile, intaccò, alla fine, anche il mio fisico.

Dovetti rimanere a letto con febbre altissima per parecchi giorni. In poco tempo mi sentii stremato da questa accanita, inesorabile persecuzione.

Ero diventato l’ombra di me stesso e sentivo oscuramente, che la mia malattia e la mia rovina erano volute, causate dal terribile vecchio mio vicino.

Un desiderio prepotente di sapere s’impadronì di me interamente.

Dovevo scoprire il maleficio che mi era stato lanciato contro.

***

Un giorno, scosso da un’agitazione febbrile, mi levai, mi vestii alla meglio e mi sedetti accanto all’uscita pronto a spalancarlo al minimo rumore che mi venisse dall’altra parte.

Non sapevo neppure io che attendessi. Tuttavia presentivo che stava maturando un avvenimento straordinario. Rimasi in attesa per parecchie ore. Mano a mano che il tempo passava, il nervoso sempre più si impadroniva di me.

Ad un tratto udii aprirsi la porta di fronte alla mia ed uscire qualcuno dall’appartamento.

Il passo leggero, appena strisciato, mi avvertì che era lui, il vecchio.

Aspettai ancora a lungo per esser certo che fossi sceso in strada. Poi apersi deciso la porta, andai all’uscio di fronte, appoggiai la mano sul battente spinsi piano.

La porta cedette.

Entrai con il cuore stretto. Camminai in punta di piedi, sospettoso come un ladro.

Ora il mistero che circondava quell’uomo e la sua malefica bestia mi si sarebbe offerto.

***

Non facendo più rumore di un topo, entrai in una stanza dalle pareti nude, priva affatto di mobili. Passai in un’altra, quasi vuota anch’essa, con un solo lettuccio, estremamente misero, un giaciglio quasi da mendicante.

Spirava nell’ambiente una pesante atmosfera: tristezza, abbandono, incubo. Mi pesava sul cuore.

In un angolo della camera scorsi una porticina aperta. Con il cuore che mi pulsava con ritmi sempre più accelerati, mi vi accostai e sporsi la testa nel vano, per vedere.

Era uno stanzino basso e quadrato, che da una finestra a vetri appannati riceveva una luce tanto scarsa, che sul principio non distinsi nulla.

Ma quando cominciai ad abituarmi a quella penombra!…

Quale spettacolo si presentò ai miei occhi.

Vidi nel mezzo dello stanzino con il profilo nero fumato nel buio, il gatto misterioso, con la coda ritta, il pelo eretto, fermo, immobile, in contemplazione innanzi ad una specie di quadro, appeso alla parete di fronte a me.

***

Intuii che in quel quadro doveva esserci qualcosa che mi riguardava. Infatti era così. Mi sembrò che il cuore cessasse di battere per un momento.

Su quella superficie rettangolare, tersissima, vidi riprodotta la mia figura, con le linee ancora confuse non ben determinate, come un abbozzo, come se l’opera misteriosa non fosse tutta compiuta e attendesse di esserlo.

Associai e raffrontai in un attimo quella figura abbozzata e la rovina mia incipiente: quel ritratto doveva essere finito dal vecchio e dal gatto!

Ed anche la mia rovina essi avrebbero compiuto insieme.

Pazzo di rabbia e di spavento, mandai un grido e mi slanciai nello stanzino, come una belva, senza saper bene se dovessi ammazzare il gatto o distruggere il quadro malefico.

La bestia volse la testa nera e mi fissò con i grandi occhi di fuoco.

Quello sguardo ebbe il potere di arrestare il mio slancio. Era una forza misteriosa alla quale non riuscivo a sottrarmi. Rimasi inchiodato al suolo, con la mente vuota e con lo sguardo attonito, fermo sul mio nemico invincibile.

Restammo non so quanto tempo a fissarci così, l’un l’altro. Il gatto paralizzava ogni mia attività, togliendomi completamente le forze. Ed io, dal mio canto, ero costretto a fissarlo dal fuoco irresistibile che si sprigionava dalle fosforescenti pupille.

Ad un certo punto il gatto balzò dallo sgabello su cui era accoccolato e fuggi dalla stanza. Nello stesso tempo sentii aprirsi la porta e nella camera attigua udii il passo leggero, lievemente strascicato del vecchio.

Poi un miagolio singolare ed una specie di colloquio mormorato. In ultimo, lui in persona, comparve alla soglia: gli occhi bianco-giallognoli mi fissarono un poco, liberi dall’ombra grave delle palpebre. La bocca ghignava, mostrando le gengive nude e i due denti lunghi e ricurvi.

Mi si accostò ed io ebbi l’impressione che quei due denti stessero per conficcarsi nel mio collo. Mi trassi d’istinto. Il ghigno del vecchio si accentuò.

Egli, senza dire una parola, si voltò indicandomi la porta con un cenno fermo e cortese, congedandomi.

***

Ero troppo sicuro, ormai, che il vecchio tramava voleva la mia perdita: per mezzo del suo gatto maledetto egli mi toglieva ogni energia, ogni volontà e perfino, in certi momenti, la facoltà di riflettere.

Ero certo che ciascuna parte del mio essere, che nel deperimento continuo e rapidissimo dovuto a quel magnetismo e a quella suggestione crudele, si allontanava da me, andava a completare quel suo quadro orrendo.

Tra poco sarei stato consumato, sarei scomparso inevitabilmente ed esso avrebbe trionfato. Presi a odiarlo allora, a odiarlo ferocemente, come non ho mai odiato nessuno. La mia vita stessa era sostentata e prolungata dalla potenza straordinaria di quella passione.

L’odiai tanto che, per un momento, pensai di ucciderlo. Ma l’idea mi spaventò e la mia brama di vendetta si ritorse invece subito sopra un altro: pensai di uccidere il gatto.

Spento che avessi quel suo alleato, un’arma formidabile sarebbe stata tolta di mano al mio nemico: non avrei dovuto più subire la sua tremenda suggestione e mi avrebbe arriso la speranza di ricuperare, con la sua morte, la mia forza, la mia energia, la mia serenità.

Forse quel ritratto, scomparsa la diabolica bestia, si sarebbe confuso ancora di più: forse sarebbe sparita in esso ogni traccia del mio volto. Forse ogni linea svanita avrebbe riportato in me una parte dell’uomo che ero stato.

Animato da questa speranza, risolsi irrevocabilmente.

Quando il vecchio fosse uscito, la sera, io sarei entrato nella camera dove si trovava il giaciglio e sul quale il gatto dormiva. Il luogo dove il giaciglio si trovava lo ricordavo benissimo: avrei colpito la bestia con mano sicura, anche al buio.

Affilai accuratamente uno stiletto antico, ne provai con calma, senza la più piccola esitazione, il filo sull’unghia: tagliava come un rasoio. Soddisfatto, lo riposi aspettai pazientemente la sera.

Le ore si succedevano lentissime, ma io attendevo il momento di agire con una freddezza di cui stupivo io stesso. Ero tanto sicuro dell’esito da non dubitare minimamente.

Quando il cielo cominciò ad oscurarsi, io mi trovavo già da un paio d’ore in ascolto dietro l’uscio.

Il fatto si sarebbe compiuto tra breve.

***

Verso le undici udii il vecchio uscire e scendere le scale. Se n’era andato.

Attesi un momento, poi mi posi lo stile tagliente di una tasca e presi con me un grimaldello.

Uscii.

Richiusi la porta alle mie spalle a andai a quella dell’appartamento del vecchio.

Tirai fuori l’arnese di ferro, ma nell’introdurlo nella serratura sentii che non era chiusa e che sarebbe bastato una semplice pressione della mano per aprire la porta.

Era strano il vecchio, dopo avermi sorpreso in casa sua, se ne fosse andato lasciando aperta la porta, quasi ad invitarmi a ritentare quell’intrusione in casa sua. Questo non poteva significare un tranello? Non era quasi un invito a diffidare? A prestare attenzione a ciò che stavo facendo?

In quel momento non mi lasciai assalire da tutti questi interrogativi. Volevo compiere la mia vendetta. Volevo distruggere il potere arcano, malefico e maledetto della bestia nera che mi perseguitava.

Spinsi il battente. Il battente girò silenziosamente sui cardini. Mi introdussi nel vano senza fare il minimo rumore e mi trovai nella prima stanza, quella vuota.

Cercai di orientarmi nel buio e mi diressi con una calma che non credevo di trovare in me stesso, verso l’uscio che dava nella stanzetta del giaciglio.

Ne toccai con le mani agitate nelle tenebre, lo stipite e, guidandomi a tentoni, procedetti ancora.

Poco più di un metro in là, mi dovevo trovare proprio accanto al lettuccio.

Allora mi fermai ed estrassi il pugnale.

***

Nella stanza vi era un silenzio perfetto ed un’oscurità assoluta.

Il momento di agire era venuto.

Non dovevo per nessuna ragione indietreggiare. Dovevo agire con estrema cautela e con altrettanta fermezza.

Il mio nemico doveva morire.

Stetti per un momento immobile, cercando di discernere nell’oscurità fittissima la mia vittima.

Un tumulo di memorie spaventose si agitò in quel momento nella mia anima.

Ricordai la notte in cui il gatto malefico mi aveva fissato da dietro l’uscio, la notte successiva in cui mi guardava attraverso le imposte della finestra. Il vapore misto ad odore di zolfo che era salito da lui quando gli aveva gettato il catino colmo di acqua gelida…. Tutto mi tornò alla memoria come in un film in cui l’inverosimile si mescola alla realtà più crudele, all’incubo più spaventoso, al terrore agghiacciante.

Ricordai la scena orrenda dello stanzino…

Un’onda di furore mi gonfiò il petto. Cacciai nel silenzio un urlo altissimo, feroce. Un urlo che, penso, soltanto un pazzo furioso può emettere attingendolo dal fondo della sua ottenebrata, sconvolta coscienza.

Digrignai i denti. Sentivo la testa in fiamme ed un esasperato, indominabile bisogno di uccidere.

Mi precipitai sul lettuccio, menando colpi alla cieca… Il pugnale calò, una due, tre volte…

Non so quante.

Poi, ansante, sudato, afferrai le coltri grosse e pesanti, le arrotolai in fretta, le buttai sulla vittima, coprendola tutta, e vi montai sopra, pestandola con le ginocchia, e con i piedi, in un accesso di incontenibile, mostruoso furore.

Ad un tratto un colpo di vento spalancò le imposte della finestra mal chiusa e la luna, coperta in parte dalle nubi, rischiarò debolmente lo stanzino.

Sollevai allora il pesante viluppo delle coltri.

Guardai ed inorridii.

Sotto di me stava, sanguinante e rattrappita, non già la malvagia bestia nera, ma un esserino biondo, dalle guance rosse, dalle tenere membra.

Una bimba. La figlia decenne degli inquilini del primo piano. La figura esile della piccola era lì, imbrattata di sangue sino all’inverosimile, nuda e straziata.

Gli occhi bianchi, sbarrati, mi fissavano senza vita. La bocca contratta, scopriva i piccoli denti, candidi e belli come perle. Perché, perché era lì, per quale arcana e malefica potenza quella dolce creatura che tante volte incontrandola per le scale avevo carezzato sulle bionde chiome, perché, per quale orrenda fatalità era finita sotto i colpi esasperati del mio pugnale?

Che cosa c’entrava lei? Perché le potenze infernali avevano voluto che io sacrificassi la sua vita, la sua purezza, le squarciassi il cuore?

Mi battei i pugni in testa. Gridai impazzito di dolore, di rabbia, di angoscia. Girai come un pazzo per tutta la stanza, senza sapere quel che facevo. E poi mi fermai di fronte al quadro: accesi la luce e vidi, vidi la cosa mostruosa.

La mia figura era stata compiuta in ogni suo particolare. Ma quel che vi era di mostruoso era questo: io era rappresentato con in pugno il coltello grondante di sangue, mentre sotto di me, raffigurata nella posa in cui ora la piccina si trovava nel suo letto di morte, vi era lei: straziata da colpi crudeli.

In quell’attimo mi volsi. Il vecchio ed il gatto erano presso la porta della stanza, in silenzio e ghignanti, sì, entrambi ghignavano. Quando feci l’atto di scagliarmi su di loro con il pugnale levato in alto, uomo e bestia diventarono tutt’uno. Io vidi il mostruoso connubio dell’uomo bestia compiere un balzo dalla finestra e scomparire nelle tenebre fitte della notte.

Allora gridai, a lungo, con ululato da lupo, finché non accorse gente. Mi trovarono in ginocchio sul corpo nudo della bambina trafitta, sporca di sangue e di lacrime.

NOTE

Racconti horror rari riscoperti da Sergio BissoliI due volti del male di William Kinston, apparso in Italia nel gennaio 1963 sul numero 8 di Terrore, edito da Sansoni e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost. L’autore è ignoto, forse scrittore italiano sotto pseudonimo. Terrore 8 è l’ultimo numero di questa splendida e breve collana. Dopo pochi anni sarebbe scomparsa dalle bancarelle dell’usato e anche dalla memoria dei lettori. Speriamo che queste nostre pubblicazioni on-line contribuiscano a ricordarla e apprezzarla come merita.


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