Non è un paese per vecchi


Il cacciatore di antilocapre Llewelyn Moss è impegnato in una delle sue battute giornaliere quando, a un certo punto, in una zona desertica, si accorge della presenza di alcuni camioncini. Avvicinatosi si rende conto di essere di fronte a quel che rimane di una sparatoria avvenuta per uno scambio di droga fallito. L’unico superstite della strage riesce a comunicargli dove si trova l’uomo che è scappato coi soldi. Moss segue le sue tracce e lo trova, morto poco lontano da lì, con in mano una valigia contenente del denaro. La cifra è considerevole (almeno 2 milioni di dollari) e il cacciatore non ci pensa due volte a prenderla con sé. Non sa che però, da quel momento in poi, attirerà su di sé la furia di vari delinquenti a caccia del denaro da lui ritrovato. Uno su tutti, lo psicopatico Anton Chigur, uno spietato killer che decide della sorte delle sue vittime con il lancio di una monetina. Una vicenda complessa che l’ormai stanco e quasi pensionato sceriffo Ed Tom Bell dovrà cercare di risolvere.

Tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi è il premio Oscar 2008 come miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e miglior attore non protagonista (Javier Bardem). E’ inoltre vincitore di due Golden Globe 2008 (miglior attore non protagonista – sempre Bardem – e miglior sceneggiatura non originale).
Regia dei fratelli Cohen che, con il loro stile inconfondibile, ritornano al dramma poliziesco già trattato con successo 12 anni prima con il meraviglioso Fargo, la cui violenza, però, risulta molto più ammorbidita rispetto alla nuova pellicola. Certo i parallelismi con il film ambientato nelle nevi sono molteplici: i luoghi deserti; inetti alle prese con situazioni molto più grandi di loro; investigatori particolari e ridicoli a causa di caratteristiche fisiche spiccatamente anomale (Ed Tom Bell è troppo vecchio e stanco; Marge Gunderson, il capo della polizia in Fargo è incinta ed è molto goffa a causa del pancione); violenza così esplicita ed eccessiva tanto da perdere completamente  il senso del tragico.

Già, perché i Cohen sono così: eccessivi al punto tale da diventare surreali anche nelle situazioni di maggior aderenza alle dinamiche realistiche: un esempio su tutti, il killer Anton Chigur, silenzioso, terrificante, cinico, astuto e senza pietà, ma con un comportamento talmente fuori dal mondo e dalle movenze talmente ridicole che lo fanno sembrare un moderno Charlot assetato di sangue che non uccide le sue vittime con una normale arma da fuoco, ma con una bombola d’ossigeno che spara aria compressa in grado di penetrare i crani delle persone come se usasse pallottole. La violenza, la suspence e la paura sembrano essere la regola, eppure sono innumerevoli le situazioni in cui lo spettatore non sa se deve ridere per gli eccessi rappresentati o se deve sconvolgersi per l’assenza di una logica che possa in qualche modo salvare l’astruso caos che caratterizza tutta la vicenda. Ci si sente braccati da un senso di inadeguatezza perenne (i protagonisti nei confronti della vicenda, con tutti i loro flashback che li separano dal mondo reale; la violenza che si manifesta in maniera brutale, ma che nel contempo ci sconvolge a causa della sua disarmante banalità…). 

 La banalità del male, appunto, per dirla alla Hannah Arendt, è qui rappresentata in tutta la sua sconvolgente realtà ed è talmente intrisa di violenza che sembra quasi essere la parodia di se stessa, grazie anche al contorno di sangue raggrumato e a fiotti, analizzato così da vicino come neanche il peggiore dei voyeur avrebbe saputo fare. Un film dei Cohen, insomma, né più né meno, con tutti suoi interrogativi e con tutte le sue sorprese che lo rende, sì, quasi inaccessibile ai più, ma che è in grado di comunicare pienamente al pubblico sentimenti autentici che riemergono come per magia da un’atavica memoria.
  
Giudizio: ottimo.