Inside man di Spike Lee


Divertissement d’autore.
Prendete un produttore di Hollywood tra quelli più proficui e blasonati, unitelo ad uno dei registi più “indie” della scena americana, amalgamateli con la sceneggiatura di un perfetto esordiente, e fate distillare il prodotto attraverso una manciata degli attori oggi più ricercati sulla piazza. Poi godetevi il risultato che avete tra le mani, che s’intitola Inside Man. Il primo lavoro veramente mainstream di Spike Lee, prodotto da Brian Grazer e sceneggiato da Russell (chi era costui?) Gewirtz, è un film perfettamente riuscito, un long drink di azione e tensione, intelligente e raffinato, divertente e perfino sorprendente, per certi versi. Lo si beve tutto d’un fiato, senza starci a pensare, salvo poi accorgersi, alla fine, che non è cinema da bere, malgrado le apparenze o le credenziali di partenza. Gli si conceda pure una notevole scaltrezza nella confezione formale, che blandisce lo spettatore in maniera molto piacevole e sorniona fin dai titoli di testa e fin dall’attacco incalzante della colonna sonora (un pezzo di musica “bollywood” remixato in salsa club che decisamente sa il fatto suo); gli si conceda anche la partenza in quarta, calibrata ad arte, che richiama alla memoria tanto cinema glorioso degli anni ’70, quel cinema di rapine e di guardie e ladri che trova la sua forma paradigmatica in Quel pomeriggio di un giorno da cani.
Ma tutto ciò che nel film potrete trovare di mainstream nel senso più malizioso della parola, cioè usato ad arte per accattivarsi i favori del botteghino strizzando l’occhio al pubblico più frivolo, è in realtà al servizio di una storia di assoluta dignità narrativa, tanto da aver fatto – e questo è un vanto non da poco - respirare una grande boccata d’aria fresca proprio a quel cinema che omaggia, e che poteva correre il rischio di restare vittima di quella stessa claustrofobia che dipinge e che ispira. Perché malgrado le iniezioni di adrenalina che Lee e il suo direttore della fotografia (Matthew Libatique, che girava video musicali di un certo livello fino a che un certo Aronofsky non l’ha scoperto e Joel Schumacher, lungimirante qual è, se l’è accaparrato) ci somministrano all’inizio, la vena action della narrazione subisce una sorta di calcolato inaridimento dopo i primi venti minuti, per andare a incastrarsi in un macroscopico “stand off”, uno stallo. Rapinatori dentro, polizia fuori; in mezzo: una cinquantina di ostaggi. Niente di più classico. Poi, piano piano, il detective Frazier, che ha il faccione simpatico (fin troppo, ma tanto gli vogliamo bene uguale, no?) di Denzel Washington, si comincia a fare le domande che già in sala anche noi ci stiamo facendo. Qualcosa non quadra. Anche Frazier, sudato e a disagio, si sta rendendo conto che quel pivello dello sceneggiatore o non sa niente di rapine in banca, o forse ne sa pure troppo. Infatti benché vengano tenuti in piedi i cliché del caso, la fisionomia della storia prende una via sua, prima in maniera sottile, poi sempre più evidente, e le cose si mescolano, diventano più sfumate, forse qualche cattivo non è così cattivo come sembrava, forse qualche buono la coscienza proprio candida non ce l’ha. Entrano in gioco altri personaggi, una adamantina Jodie Foster, un impeccabile Cristopher Plummer; altri tasselli di una vicenda che sembrava una rapina e basta, e invece forse è solo la punta di un iceberg.
  
C’è qualcuno che si sta prendendo gioco di tutti. In realtà chi ci mena per il naso è sia il prode Clive Owen dentro lo schermo, che ci regala una piacevolissima interpretazione anche quando è costretto a recitare bardato con occhiali e fazzoletto sul viso, una delle più belle figure di criminale “smart” degli ultimi tempi (senza mai intruppare nel gigionesco ultra-cool e irritante, nello stile del Mr Ocean di Clooney, per intenderci); sia, di qua dallo schermo, il summenzionato Russell Gewirtz, lo scrittore della storia. E la sensazione è proprio quella di essere stati portati per un divertente detour lungo più di due ore, in giro per un tipo di film, quando ciò che vedevamo era quello ma contemporaneamente anche qualcosa d’altro. Tutto per colpa di uno Spike Lee in piena forma (complice anche uno scrittore indiscutibilmente dotato, per quanto alla sua prima prova) che se rinuncia per una volta a fare il suo cinema, lo fa nella maniera più intelligente possibile, rivisitando un genere a lui non familiare e rimaneggiandolo da dentro, senza stravolgerlo, ma inserendo solamente la sua mano all’interno, presente e invisibile. Inside Man ha infatti anche questo pregio: è girato da uno dei più importanti e indipendenti autori americani (e qui la parola “autore” meriterebbe non una ma sei maiuscole), eppure, salvo qualche indizio tecnico qua e là, Spike Lee resta l’eminenza oscura, completamente al servizio della vicenda che vuole narrare e dei personaggi a cui vuole dare vita, senza imporre la sua mano, senza lasciare firme debordanti. Una bella lezione d’umiltà, cioè di grandezza. Fossero tutti così, i “divertissements” d’autore.

a cura di Emanuele Boccianti
Fonte: Offscreen