ACAB: la serie (2024)
Produzione: Cattleya (e Netflix)
Adattamento e Sceneggiatura: Filippo Gravino, Carlo Bonini, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini
Regia: Michele Alhaique
Cast: Adriano Giannini, Marco Giallini, Valentina Bellè, Pierluigi Gigante
Alcuni di noi (me incluso) hanno avuto la fortuna di vedere A.C.A.B. (All Cops Are Bastards) nel 2012. È un grande film che poi fa parte della trilogia della criminalità romana di Sollima. Un prodotto duro, cattivo, che ti fa male dentro e che nonostante tutto è così reale. Ben dodici anni dopo ci ritroviamo con una serie che ne è il seguito e che ci ripropone, in sei episodi, le vicende della celere di Roma.
Un gruppo di poliziotti è in servizio contro i manifestanti No-TAV. Ci sono caos, urla, esplosioni, violenza, sembra una guerra. Lo è anche per i morti e i feriti quando una bomba viene lanciata tra le fila della polizia ferendo gravemente uno degli agenti. Una squadra della celere di Roma parte alla vendetta e insegue un gruppo di manifestanti nei boschi, malmenandoli brutalmente e mandandone uno in coma.
Questi i primi minuti di ACAB e la premessa di una storia che poi continua narrando le vicende personali degli agenti che si snodano, in una spirale di dolore e violenza, sempre all’ombra di questo iniziale massacro e sul motto, da una parte visto come inno e dall’altro come maledizione: “Celerino: figlio di puttana!”
Io amai il film, penso di averlo visto cinque o sei volte. Ha il pregio di disegnarti bene una realtà della quale siamo più o meno coscienti (ed è quanto mai attuale visto che, mentre scrivo queste parole, la polizia e i manifestanti si affrontano in mezza Italia dopo che i Carabinieri hanno ucciso un ragazzo). Calzi bene quelle scarpe, ma sono scomode. Vieni calato dentro quelli che sembrano dei mostri, gente che ammazza i ragazzi di botte, che nasconde le prove, che fa squadra nel senso più mafioso del termine, eppure non riesci a non empatizzare con loro. Sono dei disgraziati, sono vittime di una società che spesso li odia e non sempre ha ragione, sono guerrieri senza una guerra, ma costretti a comportarsi come tali. Sono mostri creati su misura da una società mostruosa. È quasi impossibile non immedesimarsi in molti di questi soggetti e non provare la rabbia che provano loro, anche se solo guardandoli attraverso uno schermo, e dopo sentire la vergogna quando ti rendi conto quanto escono dagli schemi. Per quanto sia facile vederlo come un film di denuncia politica (o magari alcuni ci vedranno solo un’esaltazione dei loro eroi) in realtà io trovo che parli più di esseri umani, del dramma e magari, quello sì, di uno stato incapace e corrotto che crea mostri e lo fa su entrambi i lati della barricata.
È una serie violentissima, cruda, drammatica, diretta magistralmente (una parte è girata come un film di zombie, pazzesco!). Le scene di combattimento sono realistiche e ben girate, la musica tiene su il passo di ogni scena senza sovrastarle mai e gli interpreti sono veramente nella parte (Ammetto di avere un debole per Marco Giallini). La serie è moderna, irretisce (l’ho vista tutta d’un fiato nonostante le oltre cinque ore), potrebbe avere altri cento episodi e continuerebbe a tenere il ritmo. Non ha un vero inizio, non ha una vera fine e non pesa, dipinge un quadro e lo fa fin troppo bene già così. Potremmo dire che riprende esattamente la formula del vecchio film con personaggi quasi tutti nuovi (si salva giusto Mazinga). C’è sempre il nuovo che è buono, ma viene trascinato nella violenza. Ci sono ancora una banda di uomini distrutti che ha una sola famiglia ed è la squadra. C’è ancora una fine aperta che si spiega da sé e si ricollega facilmente a un possibile nuovo inizio.
Non è una serie facile, non è una serie che tutti potranno capire, ma vi assicuro che è molto bella.
A cura di Marco Molendi
Tutti i diritti riservati per immagini e testi agli aventi diritto ⓒ.