Non sorridere al bambino dai riccioli d’oro; non toccare la sua guancia di porpora: il bambino dai riccioli d’oro è colui che non ti aspetti…
Era mezzogiorno in punto.Un mezzogiorno afoso, come novecentonovantanove altri. E il signor Ashal non era tipo da perdersi a considerare il caldo o qualsiasi altra sfumatura del tempo. Si sarebbe stupito, ma non tanto, se quel mezzogiorno fosse stato freddo; quel mezzogiorno di ferragosto: non si stupiva più tanto di nulla, da quando gli uomini s’erano messi a lanciare certi ordigni nello spazio, anche con le bombe H inserite nelle capsule dei missili.
Per questo motivo il signor Ashal uscì lietamente dal suo ufficio. S’accomodò la cartella sotto il braccio e sgambettò allegramente, senza curarsi dei suoi cinquant’anni e della sua pancia piuttosto voluminosa, sul marciapiedi, a fianco di frotte di scolari che uscivano allora dalle lezioni.
Era un tipo distratto, Wewel Ashal. E si maledisse una volta di più. Si dette una forte pacca sulla fronte e si fermò di botto.
– L’appuntamento, mormorò, l’appuntamento: queste non sono cose da dimenticare…
E si avviò, con passo deciso, al Museo della Scienza.
Il vasto piazzale che dava all’ingresso del Museo, a quell’ora, era deserto. E il grande portone era chiuso. Ma lui non se ne curò. Proseguì del suo passo deciso e penetrò nel grande portale di noce, come se non vi fosse. Non si stupì minimamente di questo suo potere, il distratto Wewel Ashal; e quando il portone chiuso fu alle sue spalle, rimase immobile a osservare il limite del lunghissimo corridoio che gli si presentava.
Era curioso, quel dinosauro tuttossa che pareva sorridergli. E anche il ghigno di quell’uomo-scimmia imbalsamato, che lasciava intravedere esasperanti venature costrette dal tempo e dalla mano paziente dello scienziato.
Respirò due volte, e poi si compiacque dell’eco sinistro dei suoi passi, sul pavimento.
Camminò deciso verso il fondo e si trovò proprio al cospetto di un gigantesco Samurai scheletrito, raccolto con le forti ossa nella corazza, col teschio che gli sorrideva dall’elmo arrugginito. Qualche gioco di fili e di sostegni doveva permettere ai resti del valoroso guerriero di poter sostenere con tanta naturalezza, col braccio alzato nell’atto di colpire, la pesante, fredda scimitarra.
Lì si fermò. Consultò per un attimo l’orologio: mezzogiorno era passato da qualche minuto. « Pazienza, pensò; non sarà la fine del… ma si corresse subito, anche nel pensiero; pazienza, speriamo che non vi sia nulla di grave, per questo piccolo ritardo ».
L’altro, comunque, non aveva tardato. Ne sentiva la presenza, il buon Wewel Ashal, in quell’ambiente. Lo stesso diffuso odore di ciclamini, che s’era sparso attorno, impregnando l’aria e le cose, proprio come a casa sua, la sera prima.
« Il lancio della bomba H tramite la capsula di un missile THOR non è riuscito ». La voce dello speaker, alla televisione, era alquanto monotona.
« Gli scienziati hanno provveduto a disintegrare la carica esplosiva contenuta nella capsula e il missile è svanito al largo delle isole di Pasqua ».
Wewel ingoiò brontolando l’ultimo goccio e spense l’apparecchio con rabbia.
« Fate pure, fate pure: ci ammazzerete tutti, borbottò; tutti ».
« Buonasera ».
Wewel si voltò di scatto. La vocina gli era parsa timida e bianca. Non vide subito il bambino che era seduto comodamente nella sua poltrona preferita, quattro volte più grande di lui.
Era un bel bambino. Gli occhi celesti, una lunga veste candida, con un delicato fregio nell’orlagione, in stile romanico, un fregio d’oro. Aveva riccioli lunghi e curiosamente, piacevolmente disordinati. Un sorriso magnifico, magnifico.
– Chi sei? – chiese Wewel.
Il bambino continuava a sorridere.
E Wewel non s’accorse nemmeno che non gli rispondeva, rapito com’era nella contemplazione del suo bellissimo volto. Delle sue manine rosee, che giocavano leggermente con l’orlo consunto della vecchia poltrona.
– Sei un angelo?… Un angelo… Ho sempre pregato per vedere un angelo. E mi hanno mandato il più bello…
Così dicendo Wewel prese ad avvicinarsi alla bella creatura, che continuava a sorridergli.
– Non avvicinarti, gli disse severo il bambino; – è meglio che non ti avvicini.
Ma Wewel non lo ascoltava. Le mani protese, sfiorò la carnagione rosea del bambino, ma ritrasse subito, violentemente, le mani. Aveva percepito qualcosa.
E ora il bambino non gli sorrideva più. Aveva gli occhi fissi su di lui, in un cipiglio severo, e il colore della sua pelle andava sempre più macerandosi.
E Wewel inorridì. Inorridì di quelle rughe chiassose e profonde, di quelle vene macilente e di quelle piaghe che andavano lentamente imprimendosi, lentamente e inesorabilmente, sul volto del fanciullo.
– Ti avevo detto di non avvicinarti.
– Sei un angelo? – Lo chiese con minor convinzione, ora, Wewel.
Il bambino sghignazzò, volgarmente. Mentre la peluria andava coprendo le sue guance e le sue braccia.
Allora Wewel notò il pus che andava raggrumandosi e propagandosi, con violenza, su quella carne che un attimo prima era rosa.
– Un angelo?
Solo allora Wewel si accorse di quello strano intenso odore di ciclamini, che arieggiava intorno. Annusò. E respirò a pieni polmoni di quell’aria. Il bambino continuava a fissarlo, immobile, mentre le sue carni subivano quel crescente processo di macerazione.
– Sei ammalato… Sei venuto da me a farti curare, fanciullo?
Il ragazzo continuava a sghignazzare. Ora era in piedi. E pareva ancora più piccolo di prima, più minuto, con la testa enorme, macabra per quelle vene e quelle rughe disgustanti, che gli si piegava in avanti.
La sua mano si alzò, lentamente.
– Sono venuto a prenderti, maledetto uomo. Io sono la morte.
« Strano tipo, quel ragazzo: chi l’avrebbe mai detto che la morte era così? ».
Ma non ci pensò poi tanto, Wewel, quella mattina, perché le pratiche dell’ufficio non permettevano distrazioni: tre giorni per preparare a dovere la relazione sulla distribuzione dei cementi ai cantieri del lato est della città.
E il suo dovere doveva e voleva farlo sino in fondo, anche se sarebbe morto a mezzogiorno di quella stessa giornata.
Mezzogiorno. Per quell’ora doveva trovarsi al Museo della Scienza, in fondo al primo corridoio, di fronte allo scheletro di un guerriero Samurai con la scimitarra in mano.
« Sarà chiuso, a quell’ora », aveva replicato.
« Non preoccuparti », aveva risposto il ragazzo – vecchio; « passerai per il portone chiuso. Perché sarai già virtualmente morto ».
Wewel aveva sorriso.
E ora si trovava lì, a osservare il ghigno del Samurai scheletrito, a domandarsi il principio di gravità che permetteva a quella grossa, abnorme scimitarra d’essere sorretta dalla mano di un morto. E ad assaporare il gustoso profumo di ciclamini, d’intorno.
– Salve.
Wewel si voltò.
– Devi scusarmi il ritardo, disse impacciato; – ma non sono abituato a queste cose.
Il ragazzo dal volto rugoso di vecchio sorrideva. Se quello poteva dirsi un sorriso.
– Ho sempre saputo – proseguì sempre più timidamente Wewel – che si morisse in un modo diverso, e che la morte fosse vestita di nero, con un cappuccio consunto sul cranio di una vecchia megera, con in mano una falce simbolica, che…
Parlava e parlava il buon Wewel. E il ragazzo vecchio sorrideva.
Non sapeva, Wewel, che dal giorno prima erano trascorsi milioni di anni.
NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. “Colui che non ti aspetti” di Peter C. Arnold, apparso nel 1962 in “I Racconti del Terrore 4”, collana edita da Gino Sansoni Editore, e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.
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