La casa delle streghe di Clark Howard

Un racconto presentato da Alfred Hitchcock

Pubblicato in Italia nell'agosto 1961 sul giornale "La Domenica del Corriere"

Ho passato tutta la stagione senza il minimo guaio. Tutto liscio, pulito, in ordine. Poi, proprio l’ultima sera, anzi all’ultima ora dell’ultima sera me ne è capitato uno da compensare la quiete dei mesi passati e da bastarmi per molte stagioni future.
Posseggo una baracchetta, un piccolo gioco d’azzardo in mezzo alle attrazioni di uno dei più grandi parchi divertimenti del Medio Ovest.
Tre pareti di legno, un tetto impermeabile, un banco lungo un paio di metri. Dietro il banco ci sono io e c’e la grande ruota della fortuna.
Sugli scaffali intorno ci sono i regali per i vincitori: bambole, macchine per fare i toasts, bottiglie, apparecchi radio tascabili e roba simile.
E’ una botteguccia dove vendo la fortuna, capite? E rallegro l’ambiente con file di bandierine e di strisce colorate, tanto per dare nell’occhio.
Il trucco è semplice. Ho questa ruota verticale con ventun numeri. Voi scegliete un numero, pagate 25 centesimi, io giro la ruota e se il numero esce vi do un tagliando. Con tre tagliandi scegliete il premio che vi pare. Io giro la ruota, dico. E la controllo, si capisce. La mia baracca non è un’opera di beneficenza. Ma di solito lascio vivere anche i giocatori. I miei premi li compro all’ingrosso, a prezzo di liquidazione e quel che cerco è di guadagnare un dollaro o due su ogni premio che consegno.
E’ come se avessi una bottega: compro a cinque, cedo a sei o sette, a seconda del cliente. Di solito il giocatore mette lì un dollaro, sceglie un numero e tira quattro colpi e ottiene un solo tagliando. Dopo di che se ne va rassegnato. Allora io ritiro l’unico tagliando e per consolarlo gli do una penna a sfera a buon mercato, o un paio di orecchini di vetro e ho guadagnato 85 centesimi. Qualcuno invece si ostina a voler conquistare tre tagliandi e scegliere il premio grosso. E mette giù un dollaro dopo l’altro. In questo caso lo lascio fare finché vedo che si avvicina al mio prezzo, gli do a tempo giusto il secondo tagliando e quando ho guadagnato anche il paio di dollari per me gli lascio vincere il terzo tagliando. Così il cliente riceve la sua radio o quel che vuole per un paio di dollari meno di quello che gli costerebbe in negozio, io gliela do per un paio di dollari più di quel che l’ho pagata e siamo tutti contenti.
E’ un bel lavoretto singolo, e di solito non ho guai. La stagione dura quattro mesi, da maggio a settembre, e per il resto dell’anno tiro avanti tranquillo con quel che ho guadagnato durante l’estate.
Il mio banco è a circa metà strada, in posizione ottima, proprio a fianco della « Casa delle Streghe ». Vengono da me proprio dopo che sono usciti di là spaventati da tutti quei mostri, quei ragni, quei draghi che saltano giù dal soffitto o dalle pareti. Quando sono passati dalla « Casa delle Streghe » sono maturi per un bel giochetto d’azzardo tranquillo tranquillo.
Il parco chiude a mezzanotte.
Era l’ultima sera della stagione ed erano passate da poco le dieci quando tre giovanotti vennero al mio banco. Erano giovani ma ben piantati tutti e tre. Stivali da motociclista, giacche di pelle. Di quelli che si fanno largo a gomitate e a prepotenza. Avevano un aspetto cattivo sotto l’arco di luce gialla del mio « stand ». Cominciai subito a girare la ruota ed essi cominciarono subito a pagare. Al primo colpo feci guadagnare un tagliando ad uno dei tre e poi li lasciai a bocca asciutta per due giri. Al quarto giro feci guadagnare un tagliando ad un altro, poi niente per altri quattro colpi. Poi diedi un tagliando al terzo cliente, così ognuno aveva un biglietto. Però ogni cliente riceve un tagliando di colore diverso, capite? Così non possono metterli insieme e portarmi via il premio grosso prima di avermelo pagato. I tre continuarono a mettere giù monetine e io continuai a far girare la vecchia ruota. Negli otto giri che seguirono feci vincere un solo tagliando a uno dei tre. Il giochetto è assai veloce. I tre giovanotti erano lì da appena cinque minuti e io avevo già incassato dodici dollari. Finalmente due dei ragazzi ne ebbero abbastanza e ad ognuno diedi in premio una penna a sfera. Ma il terzo era ostinato. Pareva deciso a conquistare una radiolina.

I tre vagabondi
Era il più grosso dei tre e sembrava il più carogna. E più perdeva e più sembrava carogna. Era anche quello che aveva già in mano due tagliandi e sembrava deciso a conquistare il terzo.
Cominciò a giocare un dollaro alla volta puntando quattro numeri sulla ruota. Mentalmente calcolavo quanto aveva sborsato: gli mancavano ancora quasi quindici dollari per avere in premio la radio. Ma lui duro: continuava a spillare dollari, e io duro a girare la ruota senza lasciarlo vincere.
Quando ebbe sborsato altri dieci dollari pareva diventato matto. Inoltre era all’asciutto. Si frugò in tutte le tasche cercando altro denaro ma sapeva già di non averne più. Però aveva un’altra cosa: mentre si svuotava le tasche in cerca di monete gli vidi fra le mani un lungo lucente coltello a serramanico.
Alla fine si aggrappò al banco, allungò una faccia minacciosa e disse:
- Voglio una di quelle radio.
Gli feci il mio più bel sorriso:
- Ma sì, caro - dissi. - Ancora un paio di giri e dovresti vincere il terzo tagliando. La fortuna è in arrivo.
- Non ho più quattrini. Me li hai presi tutti tu.
- Mi spiace, caro. Se vuoi una radio devi continuare a giocare. Fatti dare qualche dollaro dai tuoi amici. Ti do un consiglio: punta sul diciotto. Fra due o tre colpi uscirà.
« Ancora un dollaro » pensai « e poi gli do la macchinetta. Così me ne libero ».
Ma l’altro, muso duro e occhio torvo: - Non mi faccio prestare denaro - disse. - Hai avuto quanto ti basta, strozzino. Adesso dammi una radio se no salto il banco e me la piglio.
Io tenni fermo e misi una mano sotto il banco dove c’era un bastone. Fissai negli occhi il tizio ma mi sentii inquieto. Quello faceva sul serio:
- Bada strozzino... - disse, e cercò di girare attorno al banco. Teneva una mano in tasca, forse proprio dove c’era il coltello.
Tirai fuori il bastone e lo tenni in vista: - Fermo là - dissi cercando di darmi un tono cattivo. - Non cercare guai, se non vuoi pentirtene. Qui è pieno di guardie. Se faccio un fischio venti sbirri ti saltano addosso.
Si fermò di colpo e mi guardò fisso. Il suo volto era rigido di odio represso. Uno dei suoi compari si avvicinò e lo prese per un braccio:
- Sta buono, Frankie - disse - non cercare rogne. Lo sai che siamo a piede libero dopo la rissa.
La frase mi fece ricordare una rissa fra squadre rivali di giovani farabutti avvenuta un paio di settimane prima. Un morto e un ferito. Forse c’erano anche questi tre.
Il tizio chiamato Frankie continuava a fissarmi, sempre tenendo la mano in tasca, sempre con l’aria di volermi tagliare a pezzetti.
- Forse hai ragione... - disse controvoglia. Scrollò via la mano dell’amico, si eresse fiero in tutta la sua statura, e fissandomi negli occhi tirò fuori lentamente il coltello e ne fece scattare la lama, come se volesse mostrarmela. Stese l’altro braccio e vi strofinò sopra la lama nel gesto di affilarla.
- Facciamo un patto - disse - dammi una radio e amici come prima.
Guardai sul viale e vidi che due poliziotti in uniforme si avvicinavano lentamente. Allora fissai Frankie e gli dissi con tono deciso:
- Niente da fare, fratello.
Nuovo lampo di odio nei suoi occhi. Chiuse il coltello e se lo mise in tasca. Anche lui aveva visto le guardie.
- Va bene disse - ci rivedremo.
Si voltò e se ne andò seguito dai due compari. Li guardai allontanarsi, perdersi in mezzo alla gente, e rimisi il bastone sotto il banco.
Non ci furono molti clienti dopo la partenza dei tre eroi e incominciai a radunare le mie cose. Avevo venduto le mie scorte di premi ad un collega che andava a sud con una fiera ambulante. Cominciai a mettere la merce negli scatoloni. Poco dopo le undici Corinna venne a trovarmi. Era una delle ragazze del varietà: una brunetta simpatica ma niente di sensazionale.
- Salute Sam - disse.
- Come va bambola? Tutto bene?
- Scosse le spalle: - Così così - disse.
Venne dietro il banco, si sedette e domandò:
- Che cosa fai dopo la chiusura?
- Non so. Perché?
- Le ragazze danno una festa d’addio da Rollo. Vuoi venire?
Rollo era un ristorante appena fuori del parco dei divertimenti. « Festa di chiusura, tutti invitati. Chissà che ressa » pensai. « E poi quei tre tipacci... ».
- Credo di no - dissi - parto di buon’ora per il sud e voglio dormire un po’.
Avevo fatto nove bigliettoni durante l’estate. E con novemila dollari in banca pensavo di prendere un po’ di riposo a Miami. E più pensavo a quei tre e più avevo la tentazione di tagliare la corda appena chiusa la fiera.
- Grazie, Corinna. Ci rivedremo alla prossima stagione.
Quando se ne fu andata spensi le luci, tirai giù le lampade e le bandierine, e finii di imballare i premi.
A mezzanotte le luci furono spente e soltanto poche rare lampade rimasero accese nel viale centrale. Gli ultimi visitatori si avviarono all’uscita. La stagione era conclusa, potevo andarmene. Ma ero inquieto. Ad ogni minuto mi guardavo intorno come se qualcuno dovesse spuntare. Ero ancora ossessionato da quei tre vagabondi.

Agguato
Venne il tizio al quale avevo venduto i premi. Il suo furgone era di là della strada e non poteva portarlo dove ero io. Allora lo aiutai a portare le scatole. Dovemmo fare cinque viaggi ma alla fine il carico fu terminato. Mi pagò, ci dicemmo buona fortuna e io tornai alla mia baracca per chiudere le imposte.
Il viale era scuro e deserto. Camminavo cauto guardandomi attorno ad ogni passo, tenendomi lontano dalle zone d’ombra e dagli « stands » vuoti. Era più forte di me, mi sentivo inquieto. Mi ritornavano all’orecchio le parole di quel prepotente: « Ci rivedremo! ».
Arrivai al mio « stand » chiusi in fretta e furia tutto quanto e presi la mia borsa di tela. Per essere più sicuro pensai di passare da un cancello secondario evitando l’uscita principale.
Ero a metà strada quando vidi un’ombra sorgere davanti a me e avvicinarsi lentamente.
Mi sentii congelare. Non trovai nemmeno la forza di fuggire. L’ombra venne vicina, più vicina, finché mi fu davanti.
Poi una torcia elettrica si accese. Tirai un sospiro e sorrisi. Il vecchio Fritz, il guardiano notturno.
- E allora, Sam? Una buona stagione, eh?
- Sì, Fritzie - dissi - abbastanza buona. - Presi un fazzoletto e mi asciugai il sudore. - E tu come stai?
- Abbastanza bene - disse. - Il cancello grande è già chiuso. Sei l’ultimo ad uscire, Sam.
- Sì, dopo di te però.
- Oh, io faccio ancora una sola ronda lungo la rete di cinta, poi esco dal cancello piccolo, chiudo e fin dopo l’inverno non se ne parla più.
Gli battei una mano sulla spalla: - Arrivederci, Fritz.
Me ne andai. Quando fui presso l’uscita mi voltai e vidi lontano sul viale il lampeggio della sua torcia elettrica.
Aprii il pesante cancello di ferro e uscii. La stradicciola laterale appariva deserta, aveva poca luce. Stavo per chiudere il cancello quando udii la voce:
- Ehi, strozzino.
Mi voltai di scatto e vidi Frankie. Era a due metri da me. Un ghigno freddo gli torceva la bocca.
Arretrai verso il cancello ma due braccia mi attanagliarono da tergo.
Udii la risata di Frankie, una risata volgare, crudele. Si avvicinò adagio.
Mi sentii preso dal terrore. Queste canaglie facevano sul serio. Non mi rimaneva che vendere cara la pelle.
Con l’energia della disperazione mi dibattei come un selvaggio, mi liberai dalla presa del complice e colpii Frankie in pieno stomaco. Mi voltai di scatto e sbattei l’altro compare contro il cancello. Sentii il colpo della sua testa contro il ferro e lo vidi accasciarsi. Per un attimo stetti lì fermo. Per un attimo pensai di essermi liberato. Ma in quel momento qualcosa si abbatté sulla mia guancia, vidi le stelle e caddi a terra abbandonando la borsa. La terza canaglia! Avevo dimenticato il terzo! Colpii il pavimento nella caduta e rimasi lì dolorante. Tentai di risollevarmi e un calcio mi colpi ad un fianco, seguito da un secondo, da un terzo. Strisciai più svelto che potei sul pavimento e mi alzai gemendo.
Allora ne vidi due che mi muovevano contro. Uno era Frankie e in mano stringeva il coltello aperto. L’altro era quello che mi aveva colpito al viso. Un tirapugni d’ottone brillava nella sua mano destra.
Vidi il cancello semiaperto ed ebbi l’idea di rientrare nella fiera. Mi gettai nel passaggio sperando di poterli chiudere fuori. Raggiunsi il cancello, entrai e lo tirai verso di me. L’altro, quello col tirapugni, si mise di mezzo per impedirmi di entrare e ricevetti il cancello sul muso. Mi allontanai correndo ma il cancello rimase aperto. Mi voltai e vidi Frankie che stava sollevando l’amico. Il terzo era di nuovo in piedi, tutti e tre attraversarono la soglia.
Radunai tutte le forze e corsi via: raggiunsi il viale di centro e corsi… dietro di me sentivo tre paia di piedi che battevano il selciato.

Chi è in trappola?
Corsi finché non potei più fiatare: dovetti fermarmi per non cadere. Mi gettai in un angolo d’ombra e mi appiattii contro la parete di uno « stand ».
Guardai su: era il mio « stand ». Possibile? Guardai dietro: ma sì, ecco la Casa delle Streghe. Quello era proprio il mio « stand ». Guardai ancora la Casa delle Streghe.
Le pareti non avevano il loro solito colore. Perché? Mi ricordai d’improvviso che le porte e le finestre venivano sbarrate con imposte di metallo che si potevano chiudere dall’esterno ma non dall’interno.
Dall’esterno si potevano chiudere o aprire...
Mi inginocchiai, strisciai fino all’angolo del mio « stand » e guardai in giro. Ascoltai attentamente. Non riuscivo a vedere Frankie e i suoi compagni ma udivo risuonare i loro passi. Non correvano più, si aggiravano qua e là cercandomi. Erano a una trentina di metri...
Forse ce la faccio, pensai, se non perdo tempo...
Uscii dal nascondiglio e strisciai sulle ginocchia verso la Casa delle Streghe. Il cemento era duro ma continuai a strisciare cercando di far presto e di non far rumore. Finalmente arrivai davanti alla porta della Casa delle Streghe. Mi fermai ad ascoltare.
I passi si avvicinavano. Ripresi a camminare carponi, passai davanti alla porta, svoltai l’angolo. Alla prima finestra che trovai mi alzai e mi appiattii contro la parete; pian piano sganciai la sbarra che faceva da catenaccio e aprii l’imposta di ferro. Allungai la mano e provai a spingere la finestra. Speriamo che si apra, pensai. La finestra si apri.
Lasciai socchiusa l’imposta di metallo e tornai a sgattaiolare fino davanti alla porta. Tolsi le sbarre, socchiusi l’imposta di metallo. Dietro l’imposta c’era una porta di legno. Una porta senza serratura. L’aprii. Allora presi una delle sbarre di ferro e la lasciai cadere a terra per attirare l’attenzione dei miei nemici. Poi entrai nell’oscurità completa. Procedetti tastando le pareti: conoscevo la Casa delle Streghe, la avevo visitata più volte. Cercai di ricordarmi la disposizione dei locali. Adesso ero nella prima sala, quella coi dipinti di draghi. La finestra che avevo aperto doveva essere la prima lungo la parete dopo l’angolo, la parete sull’esterno.
Procedetti lentamente, un centimetro alla volta, finché arrivai all’angolo.
In quel momento li udii arrivare davanti alla porta. Restai lì immobile. Potevo appena intravedere i loro profili sulla soglia. Erano fermi tutti e tre, stavano in ascolto, cercavano i miei movimenti, un rumore.
La finestra era ad un paio di metri di distanza. Feci un altro passo lungo la parete, ma lo strisciare delle scarpe era udibile nel silenzio. Mi fermai e sentii il sudore freddo bagnarmi il corpo. « Vuoi vedere » pensai « che mi sono messo in trappola? ».
Una delle ombre sulla soglia entrò e scomparve nelle tenebre. Sentii le mani tastare le pareti e il fruscio dei piedi riecheggiare con strana intensità nel locale vuoto. Il cuore mi saltava in petto: voltai il capo verso il punto dove avevo lasciato aperta la finestra e cercai di calcolare quanto era lontana: chissà, forse con tre o quattro rapidi passi potevo arrivarci. Udii un altro rumore di piedi, vicinissimi e di mani che tastavano la parete. Da un momento all’altro una di quelle mani avrebbe scoperto la mia presenza e allora sarebbe stata la fine.
Provai la tentazione di correre alla finestra, di tuffarmi fuori all’aperto... Ma capii che non avrei fatto in tempo neppure a scavalcarla.

La morsa
Se soltanto si fossero messi a cercare dall’altra parte, se si fossero avviati verso la seconda sala... Un lampo mi attraversò il cervello: tirai fuori il portasigarette di pelle, lo alzai sopra la testa, cercai mentalmente la direzione della porta verso la seconda sala, e tirai con tutte le forze il più lontano possibile nelle tenebre.
L’oggetto cadde nella zona giusta e fece un rumore come se qualcuno avesse mosso un piede.
Le due ombre lasciarono la soglia ed entrarono di corsa. Il terzo, quello che mi era vicino, Si staccò dalla parete e si getto in direzione del rumore.
Allora mi mossi. Il rumore delle loro scarpe impediva di udire i miei passi. Trovai la finestra, la scavalcai rapidamente e fui fuori. Appoggiai l’imposta di ferro e rimisi la pesante sbarra catenaccio. Poi corsi alla porta. L’ansia di arrivare in tempo mi toglieva il respiro, le mani mi tremavano, il fianco, colpito dai calci del giovane delinquente, mi dava dolore atroce, e la guancia colpita dal tirapugni era gonfia e dolente, la lingua gonfia, gli occhi pieni di lacrime...
Corsi come un ubriaco inciampando, cadendo, appoggiandomi alla parete della casa. Un solo pensiero urlava in me: la porta… la porta… corri… corri…
Arrivai all’angolo e corsi lungo la facciata. Ricaddi, mi rialzai; imprecavo, singhiozzavo e correvo.
Arrivai alla porta. Dall’interno sentivo un rumore di voci. Tirai la pesante porta di metallo che girò cigolando. Sentii nell’interno un rumore di passi: qualcuno correva all’uscita. Sentii un’imprecazione: era la voce di Frankie.
Spinsi con fatica la porta, mi appoggiai contro e la spinsi con tutte le forze.
La porta stava per chiudersi del tutto quando un braccio apparve attraverso l’ultima fessura e cercò di fermarne il movimento.
Ma era troppo tardi, sotto la mia spinta la porta di ferro strinse quel braccio come in una morsa. Sentii un rumore secco, cui segui dall’interno un urlo atroce.
Continuai a spingere e alla debole luce esterna vidi che il pugno pian piano cedeva. Le dita si aprirono e un oggetto cadde al suolo: il pugnale di Frankie.
Allentai leggermente la pressione e il braccio ricadde all’interno. Tutto questo era avvenuto in pochi secondi. Ora chiusi del tutto la porta, sollevai una dopo l’altra le sbarre catenaccio e le infilai al loro posto.
Dall’interno una gragnola di pugni e di pedate si abbatté sulla porta. Gli altri due erano arrivati e si erano accorti di essere chiusi dentro.
Li sentii urlare mentre mi allontanavo dalla Casa delle Streghe. Passai accanto al mio « stand » e raggiunsi il viale principale ormai quasi interamente al buio.
Quando fui sul viale mi fermai per riposare, per ascoltare. Non li sentivo più. « Sono quelle imposte » pensai « quelle pesanti imposte. Tengono dentro tutti i rumori ».

« Questa volta no »
Tornai al cancello secondario. Mentre stavo per uscire dal parco vidi lampeggiare la torcia di Fritz, il guardiano. Era a circa cento metri e si avviava all’uscita. Certamente aveva finito l’ultimo giro di ispezione attorno alla rete di cinta che era lunga quattro chilometri. Ritrovai la mia borsa nel punto dove era caduta, e senza aspettare Fritz uscii dal parco.
A qualche centinaio di metri all’esterno, trovai una cabina telefonica. Cercai in tasca una moneta, la misi nella fessura, formai un numero.
- Voglio… voglio la polizia - dissi a bassa voce.
Sentii la signorina formare il numero. Mi appoggiai alla parete della cabina. La faccia mi bruciava. Esplorai con un dito, delicatamente. La pelle era gonfia, lacerata, incrostata di sangue. Poi mi toccai il torso dove avevo ricevuto i calci e gemetti per il dolore. « Devo avere qualche costola rotta » pensai.
Tremavo, piangevo, mi pareva di impazzire per la collera e il dolore. « Sono ignobili canaglie » pensai. « Sono pericolosi vagabondi, buoni a nulla, delinquenti.
« E il seguito? Le guardie sarebbero andate a prenderli, li avrebbero messi al fresco per qualche giorno e poi qualche giudice li avrebbe lasciati liberi perché minorenni.
« Sono ragazzi, vero? Teddy boys. Un po’ esuberanti, diremo, ma in fondo non sono cattivi.
« E poi sarebbero tornati sulla pubblica via con la loro prepotenza, la loro violenza, il pugnale… ».
Scossi lentamente la testa.
« No, questa volta no » pensai. « Questi tre no. Per quel che mi riguarda, no! ».
Riappesi il ricevitore, ritirai la mia moneta e uscii dalla cabina.
« Sarà un inverno lungo, ragazzi » pensai mentre mi allontanavo. « Sarà un inverno lungo e freddo in quella Casa delle Streghe! ».

NOTE
Racconti rari riscoperti da Sergio BissoliLa casa delle streghe di Clark Howard è apparso sulla Domenica del Corriere nell’agosto 1961. Clark Howard scrittore americano (1932-2016). Vincitore del Premio Edgar Allan Poe Award. Racconto pubblicato per la prima volta su Club GHoST.


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