Mi guardai le mani. Erano tutte macchiate di sangue
Da un anticipo di agosto si era passati a uno strascico di marzo
Era alta certamente più di un metro e settanta. Aveva i capelli di un biondo sfumante nel rosso, lisci ma con ciocche che le incorniciavano il viso. La pelle delle braccia, nude fino al gomito, era bianchissima. Gli occhi parevano più viola che azzurri; sospettai che portasse lenti a contatto. Il viso era composto, l’aria un po’ da snob. La giudicai troppo elegante per essere una qualunque studentessa, nonostante lo zainetto. Indossava una gonna abbastanza corta, e una camicetta sufficientemente sbottonata.
Puntò decisa verso i quattro sedili dov’ero sistemato io. Si vede che aveva adocchiato il posto libero davanti a me. Gli altri due, lato corridoio, erano occupati da un sacerdote grassoccio che dormiva beatamente, e da un signore in giacca e cravatta con la faccia nascosta da “Il Sole 24 Ore”. Chiese scusa ai due, scavalcò le loro gambe, e mentre lottavo con me stesso per non guardarla troppo, e nello stesso tempo la sbirciavo avidamente, sistemò lo zaino sul vano portabagagli, si lisciò la gonna, e sbuffando si sedette.
Puntò decisa verso i quattro sedili dov’ero sistemato io. Si vede che aveva adocchiato il posto libero davanti a me. Gli altri due, lato corridoio, erano occupati da un sacerdote grassoccio che dormiva beatamente, e da un signore in giacca e cravatta con la faccia nascosta da “Il Sole 24 Ore”. Chiese scusa ai due, scavalcò le loro gambe, e mentre lottavo con me stesso per non guardarla troppo, e nello stesso tempo la sbirciavo avidamente, sistemò lo zaino sul vano portabagagli, si lisciò la gonna, e sbuffando si sedette.
Quei giorni di fine maggio furono tra i più caldi dell’anno. A metà giugno avevo l’esame di Informatica, e maledicevo ogni giorno l’afa insopportabile. Al caldo e all’esame si aggiunse pure lei.
Mi guardò di sbieco per qualche secondo.
– Non è che frequenti il corso di Costruzione di Macchine del professor Scotti, per caso? -, chiese inaspettatamente.
Trasalii. Il corso di Costruzione di Macchine del professor Scotti. Certo che lo frequentavo, ma lei non l’avevo mai vista. E dire che le ragazze a Ingegneria Meccanica si contano sulle dita di una mano…
– Sì -, le risposi. – Anche tu lo frequenti?
– Eh già. Mi sembrava di averti visto da qualche parte…
Dopo questa osservazione, per tutto il tragitto non disse più nulla. Fissava fuori del finestrino e sembrava avermi completamente dimenticato. Io avrei continuato il discorso, ma ero intimidito. Un po’ guardavo il paesaggio, un po’ il sacerdote che continuava a dormire, un po’ il signore elegante e la sua copia del “Sole 24 Ore”. Nei rapidi passaggi da un soggetto all’altro, fotografavo le sue gambe e la sua scollatura. Cercavo di evitare il suo sguardo.
In vista di Fossano mi preparai per scendere. Lei rimase incollata al suo posto; probabilmente era di Cuneo, pensai. Avevo deciso, dopo mille ripensamenti, di non salutarla. Mentre già sul corridoio m’appendevo lo zaino alla spalla, staccò gli occhi dal finestrino e li posò su di me.
– Allora ci vediamo lunedì prossimo -, disse sorridendo, con un tono carico di sottintesi.
– Lunedì prossimo? Vuoi dire alla lezione del professor Scotti? – Per miracolo riuscii a non balbettare.
– Proprio così. Non mancare, eh? – Fece ciao con la mano, come ai bambini.
– Ci sarò, stai tranquilla. Anche tu non mancare, però… -, e le sorrisi.
Mi diressi all’uscita, sentendomi euforico.
Fuori, sull’onda dell’entusiasmo, non potei fare a meno di raggiungere il finestrino dove lei era seduta. Le avrei fatto ciao con la mano, ricambiando il suo gesto di prima. Il posto però era vuoto. Vuoto come quello dirimpetto, prima occupato da me.
Di fianco riconobbi il sacerdote, che si era svegliato e mi fissava. Anche il signore seduto di fronte mi fissava, la copia de “Il Sole 24 Ore” ripiegata nel grembo. O almeno mi fissavano i suoi occhiali neri.
Forse è andata in bagno, pensai allontanandomi. Peccato. Avrei volentieri rivisto il suo volto, per non rischiare di dimenticarlo.
Mi guardò di sbieco per qualche secondo.
– Non è che frequenti il corso di Costruzione di Macchine del professor Scotti, per caso? -, chiese inaspettatamente.
Trasalii. Il corso di Costruzione di Macchine del professor Scotti. Certo che lo frequentavo, ma lei non l’avevo mai vista. E dire che le ragazze a Ingegneria Meccanica si contano sulle dita di una mano…
– Sì -, le risposi. – Anche tu lo frequenti?
– Eh già. Mi sembrava di averti visto da qualche parte…
Dopo questa osservazione, per tutto il tragitto non disse più nulla. Fissava fuori del finestrino e sembrava avermi completamente dimenticato. Io avrei continuato il discorso, ma ero intimidito. Un po’ guardavo il paesaggio, un po’ il sacerdote che continuava a dormire, un po’ il signore elegante e la sua copia del “Sole 24 Ore”. Nei rapidi passaggi da un soggetto all’altro, fotografavo le sue gambe e la sua scollatura. Cercavo di evitare il suo sguardo.
In vista di Fossano mi preparai per scendere. Lei rimase incollata al suo posto; probabilmente era di Cuneo, pensai. Avevo deciso, dopo mille ripensamenti, di non salutarla. Mentre già sul corridoio m’appendevo lo zaino alla spalla, staccò gli occhi dal finestrino e li posò su di me.
– Allora ci vediamo lunedì prossimo -, disse sorridendo, con un tono carico di sottintesi.
– Lunedì prossimo? Vuoi dire alla lezione del professor Scotti? – Per miracolo riuscii a non balbettare.
– Proprio così. Non mancare, eh? – Fece ciao con la mano, come ai bambini.
– Ci sarò, stai tranquilla. Anche tu non mancare, però… -, e le sorrisi.
Mi diressi all’uscita, sentendomi euforico.
Fuori, sull’onda dell’entusiasmo, non potei fare a meno di raggiungere il finestrino dove lei era seduta. Le avrei fatto ciao con la mano, ricambiando il suo gesto di prima. Il posto però era vuoto. Vuoto come quello dirimpetto, prima occupato da me.
Di fianco riconobbi il sacerdote, che si era svegliato e mi fissava. Anche il signore seduto di fronte mi fissava, la copia de “Il Sole 24 Ore” ripiegata nel grembo. O almeno mi fissavano i suoi occhiali neri.
Forse è andata in bagno, pensai allontanandomi. Peccato. Avrei volentieri rivisto il suo volto, per non rischiare di dimenticarlo.
A Fossano nel pomeriggio doveva esserci stato un temporale. Sull’asfalto c’era qualche pozzanghera e l’aria era più fresca. Inforcai la bicicletta e pedalai verso casa. Mangiai cena in fretta, riuscendo a rispondere in maniera decente alle solite domande di mamma e papà. Martina non c’era, cenava in pizzeria con Giovanni e altri amici.
Dopo cena andai in camera. Accesi lo stereo e misi su un CD degli Style Council, una collezione dove ci sono “You’re the best thing”, “Long hot summer” e “The Paris match”.
Accompagnato da quella musica mi distesi sul letto, chiusi gli occhi, cercai di richiamare alla memoria la ragazza. I capelli biondo rossi, le ciocche intorno al viso, gli occhi azzurro-viola. La scollatura e le belle gambe, naturalmente. E poi la pelle bianchissima, l’aria un po’ da snob, la voce ormai da donna. Chissà quanti anni aveva?
Poi mi venne in mente il corso di Costruzione di Macchine del professor Scotti. A lezione non l’avevo mai vista e il corso a terminava a metà giugno. Com’era possibile che l’avesse frequentato? E se non l’aveva fatto, perché mi aveva mentito? Insomma, da dove spuntava fuori, quella meraviglia di ragazza?
Non ci capivo niente e la testa mi girava un po’. Solo una cosa era certa: dovevo rivederla. Già fremevo che venisse lunedì.
Dopo cena andai in camera. Accesi lo stereo e misi su un CD degli Style Council, una collezione dove ci sono “You’re the best thing”, “Long hot summer” e “The Paris match”.
Accompagnato da quella musica mi distesi sul letto, chiusi gli occhi, cercai di richiamare alla memoria la ragazza. I capelli biondo rossi, le ciocche intorno al viso, gli occhi azzurro-viola. La scollatura e le belle gambe, naturalmente. E poi la pelle bianchissima, l’aria un po’ da snob, la voce ormai da donna. Chissà quanti anni aveva?
Poi mi venne in mente il corso di Costruzione di Macchine del professor Scotti. A lezione non l’avevo mai vista e il corso a terminava a metà giugno. Com’era possibile che l’avesse frequentato? E se non l’aveva fatto, perché mi aveva mentito? Insomma, da dove spuntava fuori, quella meraviglia di ragazza?
Non ci capivo niente e la testa mi girava un po’. Solo una cosa era certa: dovevo rivederla. Già fremevo che venisse lunedì.
Poco più tardi telefonai a Luca.
– Mi è successa una cosa oggi in treno! Devo raccontartela…
Intuii il suo sorriso. – Si tratta di ragazze?
– Indovinato. I dettagli a dopo.
Mentre camminavo sotto i portici di via Roma mi risuonava nella mente la dolce nenia della frase di commiato pronunciata da lei.
Allora ci vediamo lunedì prossimo.
Trovammo un tavolino libero nel dehor affollato del Caffè Roma. Luca mi guardava con un’aria sorniona e vagamente saputella. Gli avevo raccontato cos’era successo, e gli avevo esternato – più che altro per scaramanzia – tutti i miei dubbi.
– Perché ti fai tutte queste domande? Io fossi in te penserei solo ad approfittarne. Appena la rivedi, invitala in pizzeria.
– In pizzeria? Ma sei scemo? Quella è una tipa da ristorante raffinato e macchina sportiva.
Luca accentuò il sorriso. – Allora non ci credo che TU hai fatto colpo. Tu c’hai solo l’aria da povero studente sfigato.
Lo rividi domenica sera, la sera della “vigilia”. Per evitare di sentire altri commenti, gli chiesi della sua “storia” con Anna. “Storia” tra virgolette, perché nessuno aveva ancora capito se uscissero insieme oppure no, forse neanche loro due.
L’argomento come al solito liberò tutta la sua logorrea. Capivo all’incirca un quaranta per cento dei suoi sproloqui, perso com’ero nei miei sogni a occhi aperti sull’indomani. Al momento giusto però annuivo, per non dare l’impressione di non ascoltare.
– Stai pensando alla ragazza del treno, non è vero? -, mi domandò, in una pausa delle sue perorazioni.
– Certo -, ammisi. – Domani la vedo. Devo prepararmi spiritualmente.
Rise di gusto. – “Spiritualmente”! Addirittura! Ma piantala. Fai tanto il sofisticato, però secondo me vuoi portartela a letto.
Feci tintinnare il ghiaccio nel bicchiere di menta, sorridendo sotto il suo sguardo complice.
– Mi è successa una cosa oggi in treno! Devo raccontartela…
Intuii il suo sorriso. – Si tratta di ragazze?
– Indovinato. I dettagli a dopo.
Mentre camminavo sotto i portici di via Roma mi risuonava nella mente la dolce nenia della frase di commiato pronunciata da lei.
Allora ci vediamo lunedì prossimo.
Trovammo un tavolino libero nel dehor affollato del Caffè Roma. Luca mi guardava con un’aria sorniona e vagamente saputella. Gli avevo raccontato cos’era successo, e gli avevo esternato – più che altro per scaramanzia – tutti i miei dubbi.
– Perché ti fai tutte queste domande? Io fossi in te penserei solo ad approfittarne. Appena la rivedi, invitala in pizzeria.
– In pizzeria? Ma sei scemo? Quella è una tipa da ristorante raffinato e macchina sportiva.
Luca accentuò il sorriso. – Allora non ci credo che TU hai fatto colpo. Tu c’hai solo l’aria da povero studente sfigato.
Lo rividi domenica sera, la sera della “vigilia”. Per evitare di sentire altri commenti, gli chiesi della sua “storia” con Anna. “Storia” tra virgolette, perché nessuno aveva ancora capito se uscissero insieme oppure no, forse neanche loro due.
L’argomento come al solito liberò tutta la sua logorrea. Capivo all’incirca un quaranta per cento dei suoi sproloqui, perso com’ero nei miei sogni a occhi aperti sull’indomani. Al momento giusto però annuivo, per non dare l’impressione di non ascoltare.
– Stai pensando alla ragazza del treno, non è vero? -, mi domandò, in una pausa delle sue perorazioni.
– Certo -, ammisi. – Domani la vedo. Devo prepararmi spiritualmente.
Rise di gusto. – “Spiritualmente”! Addirittura! Ma piantala. Fai tanto il sofisticato, però secondo me vuoi portartela a letto.
Feci tintinnare il ghiaccio nel bicchiere di menta, sorridendo sotto il suo sguardo complice.
Prima che arrivasse il lunedì la sognai due volte.
Nel primo sogno, ero il regista di una rappresentazione teatrale che aveva come obiettivo il mettere in scena lo zodiaco. Seduto dietro una scrivania e sigaro in bocca come Tinto Brass, circondato dai miei collaboratori, una per una valutavo le candidate al ruolo della Vergine. Ovviamente le candidate dovevano spogliarsi: così avrebbero recitato durante la rappresentazione.
Apparve lei. Appena la vidi capii che quella ragazza (che nel sogno ero certo di non conoscere) era assolutamente perfetta per il ruolo. Non permisi che si spogliasse davanti a tutta quella gente. La condussi nel mio studio e le chiesi di raccontare la sua storia (non so come ma sapevo che aveva una storia da raccontare). Vedevo le sue labbra muoversi, ma non sentivo le sue parole. A un tratto si mise a piangere, di un pianto disperato. Provai una tristezza infinita. La presi per mano e la costrinsi a distendersi sul divano, nel tentativo di calmarla. Poco dopo, ancora in lacrime, lei volle abbracciarmi, e mi baciò. Poi mi sussurrò nell’orecchio:
Allora ci vediamo lunedì prossimo…
Mi svegliai in preda a una sensazione di struggente tenerezza. Sentivo così vicina la sua presenza che avevo l’impressione avesse dormito accanto a me. Era come se ci fosse ancora l’impronta del suo corpo nel mio letto, e in essa mi sentivo immerso come in un abbraccio caldo. Fuori aveva cominciato a piovere, ma io ero tutto sudato.
Nel secondo sogno, ero un gatto randagio perso in una città buia. La città era sotto il dominio dei gatti, ma io mi ero perso, per qualche motivo che non ricordo. Venni fermato in un vicolo scuro e pieno d’immondizia da tre gatti-gendarmi. I gatti-gendarmi mi portarono al cospetto della Regina dei gatti, per essere giudicato. La Regina dei gatti, a differenza degli altri gatti che erano veri, era un cartone animato. Però sembrava più vera lei di tutti gli altri gatti. Aveva occhi sottilissimi e rivolti all’insù, come i cinesi. Sorrideva sempre, di un sorriso sottile e larghissimo, furbo.
Poiché era molto affaccendata, disse, e non aveva tempo da perdere, rinviava il mio giudizio a lunedì prossimo.
Solo al risveglio mi resi conto che la Regina dei gatti era lei.
Nel primo sogno, ero il regista di una rappresentazione teatrale che aveva come obiettivo il mettere in scena lo zodiaco. Seduto dietro una scrivania e sigaro in bocca come Tinto Brass, circondato dai miei collaboratori, una per una valutavo le candidate al ruolo della Vergine. Ovviamente le candidate dovevano spogliarsi: così avrebbero recitato durante la rappresentazione.
Apparve lei. Appena la vidi capii che quella ragazza (che nel sogno ero certo di non conoscere) era assolutamente perfetta per il ruolo. Non permisi che si spogliasse davanti a tutta quella gente. La condussi nel mio studio e le chiesi di raccontare la sua storia (non so come ma sapevo che aveva una storia da raccontare). Vedevo le sue labbra muoversi, ma non sentivo le sue parole. A un tratto si mise a piangere, di un pianto disperato. Provai una tristezza infinita. La presi per mano e la costrinsi a distendersi sul divano, nel tentativo di calmarla. Poco dopo, ancora in lacrime, lei volle abbracciarmi, e mi baciò. Poi mi sussurrò nell’orecchio:
Allora ci vediamo lunedì prossimo…
Mi svegliai in preda a una sensazione di struggente tenerezza. Sentivo così vicina la sua presenza che avevo l’impressione avesse dormito accanto a me. Era come se ci fosse ancora l’impronta del suo corpo nel mio letto, e in essa mi sentivo immerso come in un abbraccio caldo. Fuori aveva cominciato a piovere, ma io ero tutto sudato.
Nel secondo sogno, ero un gatto randagio perso in una città buia. La città era sotto il dominio dei gatti, ma io mi ero perso, per qualche motivo che non ricordo. Venni fermato in un vicolo scuro e pieno d’immondizia da tre gatti-gendarmi. I gatti-gendarmi mi portarono al cospetto della Regina dei gatti, per essere giudicato. La Regina dei gatti, a differenza degli altri gatti che erano veri, era un cartone animato. Però sembrava più vera lei di tutti gli altri gatti. Aveva occhi sottilissimi e rivolti all’insù, come i cinesi. Sorrideva sempre, di un sorriso sottile e larghissimo, furbo.
Poiché era molto affaccendata, disse, e non aveva tempo da perdere, rinviava il mio giudizio a lunedì prossimo.
Solo al risveglio mi resi conto che la Regina dei gatti era lei.
Lunedì non la incontrai; non la vidi neppure.
Non la vidi sul treno delle sette e dieci per Torino, affollato all’inverosimile. Poco male, pensai. Per essere sicuro avrei dovuto fare il giro del treno, e la cosa mi pareva assurda. Inoltre lezione di Costruzione di Macchine iniziava alle dieci e mezza, poteva darsi che avesse deciso di prendere il treno successivo.
La lezione cominciò senza che lei fosse ancora entrata in aula. Presi posto nell’ultima fila di banchi, per controllare meglio la situazione. Il professor Scotti spiegava il montaggio dei cuscinetti a rulli conici con il solito fare tranquillo ma partecipe.
Passò un quarto d’ora e di lei nessuna traccia. Poi passò mezz’ora. Tre quarti d’ora. Un’ora. Niente.
Durante l’intervallo controllai meglio nella folla di studenti, sia in aula che fuori dall’aula. Nulla da fare: non c’era. Evidentemente non era venuta. Mi aveva mentito, accidenti. Perché?
All’inizio fui depresso. Seguii svogliatamente la seconda parte della lezione, senza far caso alle persone che entravano in aula. Mi sentivo tradito e non capivo cos’avessi fatto per meritarmi un simile trattamento.
Decisi di non fermarmi in mensa e di rincasare con il treno delle tredici e venti. Camminando tra le case eleganti della Crocetta, sotto il sole caldo, mi sentii meglio e ripresi ottimismo. Forse non era potuta venire per qualche contrattempo; forse stava addirittura poco bene. Perché l’avevo subito accusata di avermi tirato il bidone? Non possedendo il mio numero di telefono, non aveva avuto modo di avvertirmi.
L’avrei vista alla prossima lezione, mercoledì mattina. Oppure alle esercitazioni, venerdì pomeriggio.
Per sicurezza feci il giro del treno. Lei ovviamente non c’era, però vidi un’altra cosa, che mi infuse coraggio. Più o meno a metà treno, un sacerdote in carne e un signore in giacca e cravatta stavano seduti uno di fronte all’altro. Il sacerdote dormiva; il tipo elegante leggeva “Il Sole 24 Ore”.
Erano gli stessi del venerdì precedente.
Non la vidi sul treno delle sette e dieci per Torino, affollato all’inverosimile. Poco male, pensai. Per essere sicuro avrei dovuto fare il giro del treno, e la cosa mi pareva assurda. Inoltre lezione di Costruzione di Macchine iniziava alle dieci e mezza, poteva darsi che avesse deciso di prendere il treno successivo.
La lezione cominciò senza che lei fosse ancora entrata in aula. Presi posto nell’ultima fila di banchi, per controllare meglio la situazione. Il professor Scotti spiegava il montaggio dei cuscinetti a rulli conici con il solito fare tranquillo ma partecipe.
Passò un quarto d’ora e di lei nessuna traccia. Poi passò mezz’ora. Tre quarti d’ora. Un’ora. Niente.
Durante l’intervallo controllai meglio nella folla di studenti, sia in aula che fuori dall’aula. Nulla da fare: non c’era. Evidentemente non era venuta. Mi aveva mentito, accidenti. Perché?
All’inizio fui depresso. Seguii svogliatamente la seconda parte della lezione, senza far caso alle persone che entravano in aula. Mi sentivo tradito e non capivo cos’avessi fatto per meritarmi un simile trattamento.
Decisi di non fermarmi in mensa e di rincasare con il treno delle tredici e venti. Camminando tra le case eleganti della Crocetta, sotto il sole caldo, mi sentii meglio e ripresi ottimismo. Forse non era potuta venire per qualche contrattempo; forse stava addirittura poco bene. Perché l’avevo subito accusata di avermi tirato il bidone? Non possedendo il mio numero di telefono, non aveva avuto modo di avvertirmi.
L’avrei vista alla prossima lezione, mercoledì mattina. Oppure alle esercitazioni, venerdì pomeriggio.
Per sicurezza feci il giro del treno. Lei ovviamente non c’era, però vidi un’altra cosa, che mi infuse coraggio. Più o meno a metà treno, un sacerdote in carne e un signore in giacca e cravatta stavano seduti uno di fronte all’altro. Il sacerdote dormiva; il tipo elegante leggeva “Il Sole 24 Ore”.
Erano gli stessi del venerdì precedente.
Martedì piovve tutto il giorno. Da un anticipo di agosto si era passati a uno strascico di marzo. Meglio così, pensai. Un clima del genere si adattava benissimo allo studio.
Ci pensò mia sorella Martina, studentessa di Architettura, a mettermi i bastoni tra le ruote. A giugno aveva l’esame di Scienza delle costruzioni. Era arrivata al “principio dei lavori virtuali”, e, naturalmente, non ci stava capendo un bel niente.
Siccome di Scienza avevo preso ventotto, e Martina in fondo era mia sorella, mi sentii quasi obbligato ad aiutarla. Le spiegai e rispiegai il principio, percorremmo e ripercorremmo la dimostrazione, svolgemmo e risvolgemmo gli esercizi. Mi parve che Martina avesse assimilato il principio. Poi squillò il telefono. Era Luca.
– Ci siamo lasciati -, m’informò subito. Aveva la voce rotta, di chi ha appena pianto.
– Allora eravate ancora insieme…?
– Cazzo, Roberto, stavolta è sul serio. Ha fatto tutto lei.
– Va bene. Cioè, scusa. Vediamoci stasera al Caffè Roma, ti va?
– Grazie. – Riappese.
Era destino che la sera precedente il giorno in cui (in teoria) dovevo rivederla avessi da sorbirmi il povero Luca.
Fuori pioveva a dirotto. Dal dehors del caffè erano spariti tavolini e sedie, il selciato era tutto una pozzanghera. Indossavo il pull-over perché anche dentro sentivo fastidiosi spifferi d’aria.
– Perché non vi lasciate veramente, una buona volta? -, domandai a Luca.
Quasi sputò il sorso di karkadè che stava trangugiando.
– Ma sei coglione o cosa? Non posso lasciarla. Mio padre mi ucciderebbe.
– Tuo padre? Cosa c’entra tuo padre, adesso? Sei tu a uscire con Anna, mica tuo padre.
– Con tutte le volte che te l’ho spiegato.
E per l’ennesima volta, me lo spiegò. Di come suo padre fosse ancora la sua unica fonte di reddito. Di come suo padre avesse preso Anna in simpatia, e tutti i suoi amici, me compreso, in antipatia. Di come infine suo padre, rimasto vedovo da poco e con un unico figlio, considerasse Anna una di famiglia. E apprezzasse molto i suoi tajarin ai funghi porcini della val Vermenagna (i nonni di Anna abitavano a Vernante).
Ci pensò mia sorella Martina, studentessa di Architettura, a mettermi i bastoni tra le ruote. A giugno aveva l’esame di Scienza delle costruzioni. Era arrivata al “principio dei lavori virtuali”, e, naturalmente, non ci stava capendo un bel niente.
Siccome di Scienza avevo preso ventotto, e Martina in fondo era mia sorella, mi sentii quasi obbligato ad aiutarla. Le spiegai e rispiegai il principio, percorremmo e ripercorremmo la dimostrazione, svolgemmo e risvolgemmo gli esercizi. Mi parve che Martina avesse assimilato il principio. Poi squillò il telefono. Era Luca.
– Ci siamo lasciati -, m’informò subito. Aveva la voce rotta, di chi ha appena pianto.
– Allora eravate ancora insieme…?
– Cazzo, Roberto, stavolta è sul serio. Ha fatto tutto lei.
– Va bene. Cioè, scusa. Vediamoci stasera al Caffè Roma, ti va?
– Grazie. – Riappese.
Era destino che la sera precedente il giorno in cui (in teoria) dovevo rivederla avessi da sorbirmi il povero Luca.
Fuori pioveva a dirotto. Dal dehors del caffè erano spariti tavolini e sedie, il selciato era tutto una pozzanghera. Indossavo il pull-over perché anche dentro sentivo fastidiosi spifferi d’aria.
– Perché non vi lasciate veramente, una buona volta? -, domandai a Luca.
Quasi sputò il sorso di karkadè che stava trangugiando.
– Ma sei coglione o cosa? Non posso lasciarla. Mio padre mi ucciderebbe.
– Tuo padre? Cosa c’entra tuo padre, adesso? Sei tu a uscire con Anna, mica tuo padre.
– Con tutte le volte che te l’ho spiegato.
E per l’ennesima volta, me lo spiegò. Di come suo padre fosse ancora la sua unica fonte di reddito. Di come suo padre avesse preso Anna in simpatia, e tutti i suoi amici, me compreso, in antipatia. Di come infine suo padre, rimasto vedovo da poco e con un unico figlio, considerasse Anna una di famiglia. E apprezzasse molto i suoi tajarin ai funghi porcini della val Vermenagna (i nonni di Anna abitavano a Vernante).
Quella notte feci il terzo e ultimo sogno riguardante lei. Fu decisamente il più terribile. Fu anche il più profetico, come compresi più tardi.
Eravamo in treno. Seduti di fronte, proprio come quella volta. Avevo voglia di fare l’amore con lei. Subito, senza porre tempo in mezzo. L’afferrai per un braccio. La condussi attraverso il corridoio verso il bagno. Non oppose resistenza. Quando ci chiudemmo dentro quello spazio angusto, lei cominciò a diventare evanescente, incorporea, poi trasparente, come fatta d’aria, poi non ci fu più. Mentre scompariva, sussurrò debolmente:
– Roberto, voglio morire.
Mi guardai le mani. Erano tutte macchiate di sangue.
Eravamo in treno. Seduti di fronte, proprio come quella volta. Avevo voglia di fare l’amore con lei. Subito, senza porre tempo in mezzo. L’afferrai per un braccio. La condussi attraverso il corridoio verso il bagno. Non oppose resistenza. Quando ci chiudemmo dentro quello spazio angusto, lei cominciò a diventare evanescente, incorporea, poi trasparente, come fatta d’aria, poi non ci fu più. Mentre scompariva, sussurrò debolmente:
– Roberto, voglio morire.
Mi guardai le mani. Erano tutte macchiate di sangue.
Mercoledì si svolse tutto come lunedì.
Non la vidi in treno la mattina, del resto non la cercai neppure. Non venne a lezione di Costruzione di macchine. Non la incontrai sul treno del ritorno, su cui invece c’erano, seduti uno di fronte all’altro, il sacerdote e il tipo con “Il Sole 24 Ore”. Dovevano conoscersi, perché facevano sempre coppia.
Prima di dar sfogo al mio disappunto, decisi di aspettare il venerdì. Non l’avevo incontrata proprio di venerdì, sul treno per Cuneo delle diciotto e venti? Qualcosa voleva pur dire.
Ma venerdì, sia sul treno delle dodici e venti per Torino (del resto abbastanza deserto, e lo perlustrai tutto), sia a esercitazione di Costruzione di macchine, io non la vidi.
Arrivai alla stazione alle diciotto precise. Sapevo che se non l’avessi vista sul treno, probabilmente non l’avrei vista mai più. Anche se la settimana dopo avrei continuato a cercare. Poi non ci sarebbe stato più nulla da fare, perché finivano le lezioni e iniziavano gli esami.
Feci il giro del treno, già abbastanza affollato. Non la trovai.
Mentre risalivo sconsolato le carrozze, notai nuovamente il sacerdote grassoccio (già mezzo addormentato) e il tipo elegante nascosto dal “Sole 24 Ore”, ovviamente seduti uno di fronte all’altro. Rallentai il passo. Mi venne in mente di sedermi lì, di fianco al tipo elegante, lato finestrino, come avevo fatto il venerdì precedente. Chissà che non avrebbe portato fortuna?
Ma il posto era già occupato. Da uno studente di Informatica di Savigliano, un tipo solitario e taciturno, che aveva fama di genio e che conoscevo di vista. Aveva lo sguardo fisso fuori del finestrino. Sembrava che dormisse a occhi aperti.
Decisi comunque di sedermi vicino a loro. Due dei quattro sedili dall’altra parte del corridoio erano liberi; ne occupai uno. Appena il treno fosse partito, avrei fatto un ultimo, disperato giro di controllo. E poi mi sarei dedicato all’autocommiserazione, arte in cui ero maestro.
Non la vidi in treno la mattina, del resto non la cercai neppure. Non venne a lezione di Costruzione di macchine. Non la incontrai sul treno del ritorno, su cui invece c’erano, seduti uno di fronte all’altro, il sacerdote e il tipo con “Il Sole 24 Ore”. Dovevano conoscersi, perché facevano sempre coppia.
Prima di dar sfogo al mio disappunto, decisi di aspettare il venerdì. Non l’avevo incontrata proprio di venerdì, sul treno per Cuneo delle diciotto e venti? Qualcosa voleva pur dire.
Ma venerdì, sia sul treno delle dodici e venti per Torino (del resto abbastanza deserto, e lo perlustrai tutto), sia a esercitazione di Costruzione di macchine, io non la vidi.
Arrivai alla stazione alle diciotto precise. Sapevo che se non l’avessi vista sul treno, probabilmente non l’avrei vista mai più. Anche se la settimana dopo avrei continuato a cercare. Poi non ci sarebbe stato più nulla da fare, perché finivano le lezioni e iniziavano gli esami.
Feci il giro del treno, già abbastanza affollato. Non la trovai.
Mentre risalivo sconsolato le carrozze, notai nuovamente il sacerdote grassoccio (già mezzo addormentato) e il tipo elegante nascosto dal “Sole 24 Ore”, ovviamente seduti uno di fronte all’altro. Rallentai il passo. Mi venne in mente di sedermi lì, di fianco al tipo elegante, lato finestrino, come avevo fatto il venerdì precedente. Chissà che non avrebbe portato fortuna?
Ma il posto era già occupato. Da uno studente di Informatica di Savigliano, un tipo solitario e taciturno, che aveva fama di genio e che conoscevo di vista. Aveva lo sguardo fisso fuori del finestrino. Sembrava che dormisse a occhi aperti.
Decisi comunque di sedermi vicino a loro. Due dei quattro sedili dall’altra parte del corridoio erano liberi; ne occupai uno. Appena il treno fosse partito, avrei fatto un ultimo, disperato giro di controllo. E poi mi sarei dedicato all’autocommiserazione, arte in cui ero maestro.
Devo ripetermi ancora una volta, purtroppo. Girai tutto il treno e non la trovai.
Tornai al mio posto. Maledicevo la mia sfiga in generale, la mia tendenza a imbattermi nelle situazioni più strane, nelle persone più inaffidabili. Imprecavo mentalmente contro di lei per non aver tenuto fede alle sue promesse. Mi sentivo stanco, depresso, con nessuna prospettiva sentimentale. Mi consideravo un fallito. Canticchiavo a memoria una canzone dei Danny Wilson di un album uscito cinque anni prima, Imaginari girl. Si adattava perfettamente allo stato d’animo in cui mi trovavo.
Dopo Carmagnola, abbastanza prevedibilmente, stavo già sbollendo. Ero troppo stanco per continuare a compatirmi. Inoltre cominciavo ad almanaccare che forse lunedì avrei potuto rivederla. E se fosse stata a casa un’intera settimana per un malanno? Magari un’influenza intestinale, con il caldo che aveva fatto… Chissà, forse c’era ancora qualche possibilità…
Rivolsi l’attenzione ai tre tipi seduti alla mia sinistra. Il sacerdote dormiva e ogni tanto russava. La faccia del tipo elegante, al solito, era nascosta dal “Sole 24 Ore”. Mi colpì l’atteggiamento dell’informatico saviglianese. Fissava un po’ fuori del finestrino, un po’ davanti a sé, il posto rimasto vuoto, con occhi spalancati e aria imbambolata. Ebbi l’impressione che ogni tanto parlasse da solo. Forse il troppo studio l’aveva fatto uscire di testa.
In prossimità di Savigliano cominciò a prepararsi per scendere. Si alzò e recuperò lo zaino con mosse impacciate, come se temesse di urtare qualcuno o disturbare troppo. Si portò sul corridoio. Stava per allontanarsi, quando d’improvviso si voltò a guardare il posto vuoto, davanti a quello che aveva appena lasciato.
Fece un timido sorriso. Poi disse, come in risposta a qualcuno:
– Va bene, a lunedì mattina.
Si allontanò verso la piattaforma di uscita, con passo rapido.
A lunedì mattina…
Proprio in quel frangente di improvviso smarrimento ricordai un particolare. Venerdì scorso, appena uscito dal treno, avevo dato un’occhiata attraverso il finestrino, al posto in cui lei doveva essere seduta. Volevo farle ciao con la manina.
Il posto era vuoto. Lei non c’era più.
O forse non c’era mai stata?
Tornai al mio posto. Maledicevo la mia sfiga in generale, la mia tendenza a imbattermi nelle situazioni più strane, nelle persone più inaffidabili. Imprecavo mentalmente contro di lei per non aver tenuto fede alle sue promesse. Mi sentivo stanco, depresso, con nessuna prospettiva sentimentale. Mi consideravo un fallito. Canticchiavo a memoria una canzone dei Danny Wilson di un album uscito cinque anni prima, Imaginari girl. Si adattava perfettamente allo stato d’animo in cui mi trovavo.
Dopo Carmagnola, abbastanza prevedibilmente, stavo già sbollendo. Ero troppo stanco per continuare a compatirmi. Inoltre cominciavo ad almanaccare che forse lunedì avrei potuto rivederla. E se fosse stata a casa un’intera settimana per un malanno? Magari un’influenza intestinale, con il caldo che aveva fatto… Chissà, forse c’era ancora qualche possibilità…
Rivolsi l’attenzione ai tre tipi seduti alla mia sinistra. Il sacerdote dormiva e ogni tanto russava. La faccia del tipo elegante, al solito, era nascosta dal “Sole 24 Ore”. Mi colpì l’atteggiamento dell’informatico saviglianese. Fissava un po’ fuori del finestrino, un po’ davanti a sé, il posto rimasto vuoto, con occhi spalancati e aria imbambolata. Ebbi l’impressione che ogni tanto parlasse da solo. Forse il troppo studio l’aveva fatto uscire di testa.
In prossimità di Savigliano cominciò a prepararsi per scendere. Si alzò e recuperò lo zaino con mosse impacciate, come se temesse di urtare qualcuno o disturbare troppo. Si portò sul corridoio. Stava per allontanarsi, quando d’improvviso si voltò a guardare il posto vuoto, davanti a quello che aveva appena lasciato.
Fece un timido sorriso. Poi disse, come in risposta a qualcuno:
– Va bene, a lunedì mattina.
Si allontanò verso la piattaforma di uscita, con passo rapido.
A lunedì mattina…
Proprio in quel frangente di improvviso smarrimento ricordai un particolare. Venerdì scorso, appena uscito dal treno, avevo dato un’occhiata attraverso il finestrino, al posto in cui lei doveva essere seduta. Volevo farle ciao con la manina.
Il posto era vuoto. Lei non c’era più.
O forse non c’era mai stata?
Solo più tardi mi resi conto che il sacerdote grassoccio, subito dopo che l’informatico saviglianese aveva lasciato la scena, si era svegliato emettendo una specie di tremendo gorgoglio. E che il tipo elegante finalmente aveva ripiegato con cura la sua copia del “Sole 24 Ore”, rivelando la faccia scavata e il paio di occhiali con spesse e rotonde lenti nere che già conoscevo.
I due si erano scambiati un sorriso.
I due si erano scambiati un sorriso.
Il fine settimana fu terribile. Di giorno non studiavo, di notte non dormivo. Avevo paura di essere uscito di testa.
Mi telefonò tre volte Luca: voleva parlarmi di Anna. Fui disturbato da altri conoscenti che da tempo non sentivo. Mia sorella mi chiedeva lumi sulle travi reticolari. Declinavo sempre, adducendo scuse con quel poco di lucidità che mi era rimasta.
Di notte se chiudevo gli occhi rivedevo lei. Ogni particolare mi era tornato alla mente, nitido e preciso. I capelli biondo-rossi e le ciocche intorno al volto. Gli occhi azzurro-viola, tanto che pareva indossasse lenti a contatto. L’altezza superiore al metro e settanta, la pelle delle braccia nude bianchissima, la scollatura generosa e le belle gambe…
Poi aprivo gli occhi, accendevo la luce, e lei si dissolveva. E mi sembrava di udire il suo lamento, addirittura un urlo, come se davvero il suo corpo si fosse smembrato. Soprattutto quell’urlo, sentito o immaginato, era insopportabile.
Ancor prima di domenica sera avevo già deciso. Avrei parlato con l’informatico saviglianese. Eravamo in due a essere coinvolti. Si trattava di unire le forze. Di capire cosa stava succedendo. Di portare luce in quell’oscurità.
Quando presi questa decisione, mi sentii meglio.
Mi telefonò tre volte Luca: voleva parlarmi di Anna. Fui disturbato da altri conoscenti che da tempo non sentivo. Mia sorella mi chiedeva lumi sulle travi reticolari. Declinavo sempre, adducendo scuse con quel poco di lucidità che mi era rimasta.
Di notte se chiudevo gli occhi rivedevo lei. Ogni particolare mi era tornato alla mente, nitido e preciso. I capelli biondo-rossi e le ciocche intorno al volto. Gli occhi azzurro-viola, tanto che pareva indossasse lenti a contatto. L’altezza superiore al metro e settanta, la pelle delle braccia nude bianchissima, la scollatura generosa e le belle gambe…
Poi aprivo gli occhi, accendevo la luce, e lei si dissolveva. E mi sembrava di udire il suo lamento, addirittura un urlo, come se davvero il suo corpo si fosse smembrato. Soprattutto quell’urlo, sentito o immaginato, era insopportabile.
Ancor prima di domenica sera avevo già deciso. Avrei parlato con l’informatico saviglianese. Eravamo in due a essere coinvolti. Si trattava di unire le forze. Di capire cosa stava succedendo. Di portare luce in quell’oscurità.
Quando presi questa decisione, mi sentii meglio.
Lo sorpresi il mattino, a Savigliano. Entrò proprio nel vagone dov’ero sistemato io. Capii dalla faccia che nel fine settimana non aveva dormito. Avanzò nella calca guardandosi attorno con aria fintamente casuale. Era già in caccia, poverino.
Mi alzai e gli andai dietro. Come non avevo fatto io, percorse tutto il treno del lunedì mattina, ovviamente senza risultato. Si sedette in fondo al treno, dove c’era ancora qualche posto libero, e io mi sedetti di fronte a lui.
Guardava fuori del finestrino, malinconico.
Affrontai l’argomento nell’unica maniera possibile: quella diretta.
– Guarda che è inutile: lei non esiste -, affermai deciso.
Spostò lentamente gli occhi su di me. Sembrava infastidito, più che sorpreso.
– Come savebbe? -, domandò. Non sapevo avesse la erre “moscia”, ma da noi non è infrequente.
– La ragazza che hai visto venerdì scorso, in treno, e che ti ha dato appuntamento per oggi. Alta, bionda, occhi azzurro-viola, aria aristocratica. Gran bel pezzo di figliola. Ebbene, non esiste.
– Come fai a sapeve… Ova vicovdo! Evi seduto vicino a noi!
– Non solo per quello. Il venerdì precedente l’ho veduta io! E mi ha dato appuntamento al lunedì successivo, a lezione di Costruzione di macchine. Figurati se poi l’ho incontrata. Né a lezione né in treno; né lunedì né mercoledì né venerdì. Niente: scomparsa nel nulla. Ma c’è un’altra cosa, ben più importante…
– Ah, sì? Sentiamo…
– Venerdì scorso seduto davanti a te non c’era nessuno! Il posto era vuoto!
Questo sembrò scuoterlo.
– Non c’eva nessuno…? Intendi dive che non c’eva lei? Ma se io l’ho vista! – Dietro gli occhiali strabuzzò gli occhi.
– Non c’era nessuno. Vedevo te gesticolare e parlottare, scusa se mi permetto, come un pazzo con sé stesso. E non c’era nessuno. Ma soprattutto, ho visto come alla fine, in piedi, hai salutato e dato appuntamento a lunedì prossimo a “qualcuno” … Ti stavi rivolgendo al sedile!
Arrossì improvvisamente.
– È lei che mi ha dato appuntamento, non io. Non mi savei mai pevmesso. Diceva di conoscevmi, ma io non l’avevo mai vista pvima d’ova, te lo giuvo!
Mi fece compassione.
– Non ci cvedo che non c’eva nessuno. Io non sono pazzo. Sono cevto che oggi a lezione la vedvò.
– Ok, imbecille. Incontriamoci sul treno delle tredici e venti, se ti va, e vedremo cos’avrai da raccontarmi.
Annuì. Non mi pareva sconvolto o incredulo. Era semplicemente offeso.
Mi alzai e gli andai dietro. Come non avevo fatto io, percorse tutto il treno del lunedì mattina, ovviamente senza risultato. Si sedette in fondo al treno, dove c’era ancora qualche posto libero, e io mi sedetti di fronte a lui.
Guardava fuori del finestrino, malinconico.
Affrontai l’argomento nell’unica maniera possibile: quella diretta.
– Guarda che è inutile: lei non esiste -, affermai deciso.
Spostò lentamente gli occhi su di me. Sembrava infastidito, più che sorpreso.
– Come savebbe? -, domandò. Non sapevo avesse la erre “moscia”, ma da noi non è infrequente.
– La ragazza che hai visto venerdì scorso, in treno, e che ti ha dato appuntamento per oggi. Alta, bionda, occhi azzurro-viola, aria aristocratica. Gran bel pezzo di figliola. Ebbene, non esiste.
– Come fai a sapeve… Ova vicovdo! Evi seduto vicino a noi!
– Non solo per quello. Il venerdì precedente l’ho veduta io! E mi ha dato appuntamento al lunedì successivo, a lezione di Costruzione di macchine. Figurati se poi l’ho incontrata. Né a lezione né in treno; né lunedì né mercoledì né venerdì. Niente: scomparsa nel nulla. Ma c’è un’altra cosa, ben più importante…
– Ah, sì? Sentiamo…
– Venerdì scorso seduto davanti a te non c’era nessuno! Il posto era vuoto!
Questo sembrò scuoterlo.
– Non c’eva nessuno…? Intendi dive che non c’eva lei? Ma se io l’ho vista! – Dietro gli occhiali strabuzzò gli occhi.
– Non c’era nessuno. Vedevo te gesticolare e parlottare, scusa se mi permetto, come un pazzo con sé stesso. E non c’era nessuno. Ma soprattutto, ho visto come alla fine, in piedi, hai salutato e dato appuntamento a lunedì prossimo a “qualcuno” … Ti stavi rivolgendo al sedile!
Arrossì improvvisamente.
– È lei che mi ha dato appuntamento, non io. Non mi savei mai pevmesso. Diceva di conoscevmi, ma io non l’avevo mai vista pvima d’ova, te lo giuvo!
Mi fece compassione.
– Non ci cvedo che non c’eva nessuno. Io non sono pazzo. Sono cevto che oggi a lezione la vedvò.
– Ok, imbecille. Incontriamoci sul treno delle tredici e venti, se ti va, e vedremo cos’avrai da raccontarmi.
Annuì. Non mi pareva sconvolto o incredulo. Era semplicemente offeso.
– Avevi vagione. Non s’è fatta vedeve, quella stvega. Eppuve sembvava sinceva, diceva di conoscevmi…
– Non te la prendere. Vieni con me. Dobbiamo andare dai due tipi, il prete e quella specie di broker, li ho visti in cima al treno.
Era ovvio che c’entravano qualcosa. Nelle due occasioni in cui lei era apparsa, erano stati presenti. E avevo ricordato il brusco risveglio del prete, il giornale ripiegato sulle ginocchia dell’altro, il sorriso complice che si erano scambiati.
– Non te la prendere. Vieni con me. Dobbiamo andare dai due tipi, il prete e quella specie di broker, li ho visti in cima al treno.
Era ovvio che c’entravano qualcosa. Nelle due occasioni in cui lei era apparsa, erano stati presenti. E avevo ricordato il brusco risveglio del prete, il giornale ripiegato sulle ginocchia dell’altro, il sorriso complice che si erano scambiati.
Esistono visioni che possono condurre un semplice studente sull’orlo della pazzia. L’urlo disumano, il sangue che filtra da sotto la porta, la gente che passa indifferente… Sono immagini che temo perseguiteranno le mie notti prima tranquille. Notti popolate tutt’al più da ingenue paranoie sugli esami più pesanti, o da sogni romantici o erotici accompagnati dalla musica pop. Avrei fatto meglio a non propormi come cavia per l’esorcismo escogitato da quei due. Del resto, che dire? L’informatico saviglianese non aveva il coraggio; io, da parte mia, volevo rivederla. Ed è stato un caso, in fin dei conti, che proprio io sia rimasto coinvolto?
Il prete grassoccio si rivelò un esorcista con facoltà medianiche. Il tipo elegante dall’aria del broker, un famoso studioso del paranormale. Il prete quando andava in trance si addormentava e russava, e in tal modo attirava in questo le creature dell’altro mondo. Il falso broker aveva inventato una sorta di “visore paranormale”, complicatissimo, che per i comuni mortali aveva forma di un paio di occhiali da sole. I due, ci dissero, erano stati ingaggiati in gran segreto dalle Ferrovie dello Stato. Dovevano liberare la linea Cuneo – Torino da una presenza fantasma, più volte avvistata dal personale ferroviario e da alcuni passeggeri.
Dieci anni prima una studentessa di Scienze Politiche di nome Esmeralda Giordanengo si era tolta la vita nel bagno del treno, tagliandosi le vene dei polsi.
La causa del suicidio era stata una delusione amorosa. Esmeralda aveva sorpreso il suo ragazzo, Giuseppe Giraudo, mentre si sbaciucchiava con un’amica, in uno scompartimento con le tendine tirate. Era corsa nel bagno del treno e aveva posto fine ai suoi giorni, utilizzando come arma un paio di forbici da unghie.
Di questa cruenta storia non avevo mai saputo niente. Neppure l’informatico saviglianese l’aveva mai sentita. Era così, ci spiegarono i due, perché le famiglie coinvolte e le Ferrovie dello Stato avevano cercato di far trapelare il meno possibile.
La ragazza che avevamo visto era Esmeralda. Il suo fantasma si aggirava sui treni della Cuneo – Torino e faceva promesse d’amore ai ragazzi più “solitari e indifesi” (così dissero), promesse che ovviamente non manteneva. Era il suo modo per vendicarsi del torto subito da Giuseppe.
– Solitavi e indifesi? Cosa intendevebbe dive…? -, saltò su il mio compagno.
– Vuol dire più predisposti da un punto di vista psicologico -, spiegò il falso broker, ghignando apertamente.
Per far cessare le apparizioni esisteva una sola soluzione, a detta dei due. Bisognava far “rivivere” (usarono questo verbo) al fantasma di Esmeralda la scena che l’aveva portata al suicidio. Solo così, riaffrontando lo shock, avrebbe finalmente avuto pace. Un po’ come succede in una seduta psicanalitica.
D’istinto mi offersi di convincere Esmeralda. L’informatico saviglianese avrebbe sostenuto la parte di Giuseppe, chiudendosi in uno scompartimento, e facendo finta – al momento opportuno – di sbaciucchiare qualcuna. Qualcuna che poi sarebbe stata sua sorella, appassionata lettrice – venne fuori – di Dylan Dog.
Combinammo tutto per il giorno dopo, treno delle undici e quarantacinque per Torino, uno dei meno affollati.
“Giuseppe” e sua sorella andarono a chiudersi in uno scompartimento. Io mi sedetti di fianco al “broker”, nervoso all’idea di rivedere Esmeralda. Mentre il “broker” infilava gli occhiali da sole (il “visore paranormale”) e spiegava la sua copia del “Sole 24 Ore” (vecchia di un mese), il prete grassoccio chiuse gli occhi e in men che non si dica il sonno diede un’aria ancora più placida al suo volto già placido.
Cominciò a russare.
Il prete grassoccio si rivelò un esorcista con facoltà medianiche. Il tipo elegante dall’aria del broker, un famoso studioso del paranormale. Il prete quando andava in trance si addormentava e russava, e in tal modo attirava in questo le creature dell’altro mondo. Il falso broker aveva inventato una sorta di “visore paranormale”, complicatissimo, che per i comuni mortali aveva forma di un paio di occhiali da sole. I due, ci dissero, erano stati ingaggiati in gran segreto dalle Ferrovie dello Stato. Dovevano liberare la linea Cuneo – Torino da una presenza fantasma, più volte avvistata dal personale ferroviario e da alcuni passeggeri.
Dieci anni prima una studentessa di Scienze Politiche di nome Esmeralda Giordanengo si era tolta la vita nel bagno del treno, tagliandosi le vene dei polsi.
La causa del suicidio era stata una delusione amorosa. Esmeralda aveva sorpreso il suo ragazzo, Giuseppe Giraudo, mentre si sbaciucchiava con un’amica, in uno scompartimento con le tendine tirate. Era corsa nel bagno del treno e aveva posto fine ai suoi giorni, utilizzando come arma un paio di forbici da unghie.
Di questa cruenta storia non avevo mai saputo niente. Neppure l’informatico saviglianese l’aveva mai sentita. Era così, ci spiegarono i due, perché le famiglie coinvolte e le Ferrovie dello Stato avevano cercato di far trapelare il meno possibile.
La ragazza che avevamo visto era Esmeralda. Il suo fantasma si aggirava sui treni della Cuneo – Torino e faceva promesse d’amore ai ragazzi più “solitari e indifesi” (così dissero), promesse che ovviamente non manteneva. Era il suo modo per vendicarsi del torto subito da Giuseppe.
– Solitavi e indifesi? Cosa intendevebbe dive…? -, saltò su il mio compagno.
– Vuol dire più predisposti da un punto di vista psicologico -, spiegò il falso broker, ghignando apertamente.
Per far cessare le apparizioni esisteva una sola soluzione, a detta dei due. Bisognava far “rivivere” (usarono questo verbo) al fantasma di Esmeralda la scena che l’aveva portata al suicidio. Solo così, riaffrontando lo shock, avrebbe finalmente avuto pace. Un po’ come succede in una seduta psicanalitica.
D’istinto mi offersi di convincere Esmeralda. L’informatico saviglianese avrebbe sostenuto la parte di Giuseppe, chiudendosi in uno scompartimento, e facendo finta – al momento opportuno – di sbaciucchiare qualcuna. Qualcuna che poi sarebbe stata sua sorella, appassionata lettrice – venne fuori – di Dylan Dog.
Combinammo tutto per il giorno dopo, treno delle undici e quarantacinque per Torino, uno dei meno affollati.
“Giuseppe” e sua sorella andarono a chiudersi in uno scompartimento. Io mi sedetti di fianco al “broker”, nervoso all’idea di rivedere Esmeralda. Mentre il “broker” infilava gli occhiali da sole (il “visore paranormale”) e spiegava la sua copia del “Sole 24 Ore” (vecchia di un mese), il prete grassoccio chiuse gli occhi e in men che non si dica il sonno diede un’aria ancora più placida al suo volto già placido.
Cominciò a russare.
Esmeralda arrivò e si sedette esattamente come la volta precedente.
– Perché non sei venuta lunedì scorso? -, le domandai subito. La timidezza che avevo provato era scomparsa.
– Lunedì scorso? Dovevamo vederci? E perché?
Accavallò le gambe e mi guardò, con quegli occhi splendidi e dal colore indefinibile, in attesa di una risposta.
– Mi avevi dato appuntamento a lezione di Costruzione di macchine…
Sorrise lievemente.
– Guarda che ti sbagli. Io sono iscritta a Scienze politiche, non a Ingegneria. E poi sono già impegnata.
Deglutii a vuoto. Mi sentivo doppiamente preso in giro, perché non ammetteva di avermi ingannato. È solo un fantasma, pensai. Un’entità priva di coscienza. In fondo, nulla di ciò che fa è voluto.
Ma il mio disappunto non voleva retrocedere.
– Sei già fidanzata, certo -, dissi. – A proposito… Come sta Giuseppe?
Avvicinò il polso sinistro agli occhi, per consultare l’orologio, con un movimento che mi diede i brividi. Aveva i polsi intatti, bianchissimi.
– Non sapevo che tu conoscessi Giuseppe. Grazie, sta bene. Però è in ritardo. Avrebbe già dovuto essere qui…
– Infatti è già in treno -, le dissi, freddo. – Scusa se mi permetto. L’ho visto in uno scompartimento, insieme a una ragazza. Si stavano baciando.
– Non è possibile -, disse. Il sorriso le si spense, il labbro inferiore cominciò a tremarle.
– Invece è così. Non ti fidi di me? Vieni che ti faccio vedere…
Mi alzai, scavalcai le gambe dei due prezzolati delle FS e mi portai sul corridoio; lei mi seguì. Mi domandai se il rumoroso sonno del prete avrebbe mantenuto in vista l’apparizione anche a distanza. Ma forse Esmeralda viveva di una vita propria, indipendente da qualsiasi prete “medianico”.
Il treno era quasi deserto. Mister Visore Paranormale ci seguiva a distanza. Incrociammo un bigliettaio che ci lasciò passare (o mi lasciò passare?) senza dire nulla. Finalmente raggiungemmo lo scompartimento.
Aprii lo sportello con gesto violento. “Giuseppe” e sua sorella stavano fingendo di baciarsi, o si baciavano davvero, non so. “Giuseppe” era di spalle. La sorella da dietro occhieggiava avida verso di noi. Era uno spettacolo a dir poco nauseante.
Esmeralda li vide. La sua pallida faccia si fece di fuoco. Vene sulle tempie cominciarono a pulsarle.
D’un tratto fuggì via. Io le corsi dietro. Pur essendo più veloce, non riuscii – o non volli? – raggiungerla. Arrivai davanti alla porta del bagno, ansante, e mi fermai. Non toccai neppure la maniglia.
L’aria fu subito invasa da un urlo disumano. Un rivolo di sangue cominciò a filtrare attraverso la fessura del battente della porta. Un’atmosfera di cupa tragedia, simile a un odore appestato, si stava posando su tutto.
In quei momenti transitarono delle persone davanti alla porta del bagno. Nessuno diede segno di vedere o di sentire qualcosa. Sembravano di un’altra dimensione, dimensione a cui avrei tanto voluto appartenere.
– Entriamo -, disse mister Visore Paranormale. La sua voce, improvvisa e inaspettata, mi fece trasalire.
Scoprii che la porta del bagno era aperta. Fiotti di sangue imbrattavano il lavabo, lo specchio, la tazza. Sul pavimento se n’era già formata una pozzanghera.
Esmeralda non c’era, ma si avvertiva la sua angosciata presenza, e faceva male dentro.
– Stavolta s’è uccisa davvero -, disse l’uomo.
Si tolse gli occhiali e cominciò a fissarmi. Aveva gli occhi tra l’azzurro e il viola, lo stesso colore indefinito di quelli di Esmeralda. Sarei pronto a giurare che il suo sguardo mi accusasse di qualcosa. Che fosse stato il padre? mi chiesi. No, impossibile. Chissà se anche lui portava lenti a contatto…
– Perché non sei venuta lunedì scorso? -, le domandai subito. La timidezza che avevo provato era scomparsa.
– Lunedì scorso? Dovevamo vederci? E perché?
Accavallò le gambe e mi guardò, con quegli occhi splendidi e dal colore indefinibile, in attesa di una risposta.
– Mi avevi dato appuntamento a lezione di Costruzione di macchine…
Sorrise lievemente.
– Guarda che ti sbagli. Io sono iscritta a Scienze politiche, non a Ingegneria. E poi sono già impegnata.
Deglutii a vuoto. Mi sentivo doppiamente preso in giro, perché non ammetteva di avermi ingannato. È solo un fantasma, pensai. Un’entità priva di coscienza. In fondo, nulla di ciò che fa è voluto.
Ma il mio disappunto non voleva retrocedere.
– Sei già fidanzata, certo -, dissi. – A proposito… Come sta Giuseppe?
Avvicinò il polso sinistro agli occhi, per consultare l’orologio, con un movimento che mi diede i brividi. Aveva i polsi intatti, bianchissimi.
– Non sapevo che tu conoscessi Giuseppe. Grazie, sta bene. Però è in ritardo. Avrebbe già dovuto essere qui…
– Infatti è già in treno -, le dissi, freddo. – Scusa se mi permetto. L’ho visto in uno scompartimento, insieme a una ragazza. Si stavano baciando.
– Non è possibile -, disse. Il sorriso le si spense, il labbro inferiore cominciò a tremarle.
– Invece è così. Non ti fidi di me? Vieni che ti faccio vedere…
Mi alzai, scavalcai le gambe dei due prezzolati delle FS e mi portai sul corridoio; lei mi seguì. Mi domandai se il rumoroso sonno del prete avrebbe mantenuto in vista l’apparizione anche a distanza. Ma forse Esmeralda viveva di una vita propria, indipendente da qualsiasi prete “medianico”.
Il treno era quasi deserto. Mister Visore Paranormale ci seguiva a distanza. Incrociammo un bigliettaio che ci lasciò passare (o mi lasciò passare?) senza dire nulla. Finalmente raggiungemmo lo scompartimento.
Aprii lo sportello con gesto violento. “Giuseppe” e sua sorella stavano fingendo di baciarsi, o si baciavano davvero, non so. “Giuseppe” era di spalle. La sorella da dietro occhieggiava avida verso di noi. Era uno spettacolo a dir poco nauseante.
Esmeralda li vide. La sua pallida faccia si fece di fuoco. Vene sulle tempie cominciarono a pulsarle.
D’un tratto fuggì via. Io le corsi dietro. Pur essendo più veloce, non riuscii – o non volli? – raggiungerla. Arrivai davanti alla porta del bagno, ansante, e mi fermai. Non toccai neppure la maniglia.
L’aria fu subito invasa da un urlo disumano. Un rivolo di sangue cominciò a filtrare attraverso la fessura del battente della porta. Un’atmosfera di cupa tragedia, simile a un odore appestato, si stava posando su tutto.
In quei momenti transitarono delle persone davanti alla porta del bagno. Nessuno diede segno di vedere o di sentire qualcosa. Sembravano di un’altra dimensione, dimensione a cui avrei tanto voluto appartenere.
– Entriamo -, disse mister Visore Paranormale. La sua voce, improvvisa e inaspettata, mi fece trasalire.
Scoprii che la porta del bagno era aperta. Fiotti di sangue imbrattavano il lavabo, lo specchio, la tazza. Sul pavimento se n’era già formata una pozzanghera.
Esmeralda non c’era, ma si avvertiva la sua angosciata presenza, e faceva male dentro.
– Stavolta s’è uccisa davvero -, disse l’uomo.
Si tolse gli occhiali e cominciò a fissarmi. Aveva gli occhi tra l’azzurro e il viola, lo stesso colore indefinito di quelli di Esmeralda. Sarei pronto a giurare che il suo sguardo mi accusasse di qualcosa. Che fosse stato il padre? mi chiesi. No, impossibile. Chissà se anche lui portava lenti a contatto…
Poco dopo ci raggiunsero il prete-esorcista, l’informatico saviglianese e sua sorella.
– Se n’è andata davvevo…?
Intanto anche il sangue era sparito.
– Sì, se n’è andata per sempre -, rispose il prete, parlando per la prima volta.
Io mi sentivo come se l’avessi uccisa.
Pensai a come avevo frenato nella rincorsa. Al fatto che non ero riuscito a raggiungerla; che non avevo neppure tentato di aprire la porta del bagno. Lo sguardo accusatore di mister Visore Paranormale.
Ricordai il sogno, le mani imbrattate di sangue.
Già allora sapevo che l’avrei uccisa.
Eppure nel contempo mi sentivo sollevato.
– Se n’è andata davvevo…?
Intanto anche il sangue era sparito.
– Sì, se n’è andata per sempre -, rispose il prete, parlando per la prima volta.
Io mi sentivo come se l’avessi uccisa.
Pensai a come avevo frenato nella rincorsa. Al fatto che non ero riuscito a raggiungerla; che non avevo neppure tentato di aprire la porta del bagno. Lo sguardo accusatore di mister Visore Paranormale.
Ricordai il sogno, le mani imbrattate di sangue.
Già allora sapevo che l’avrei uccisa.
Eppure nel contempo mi sentivo sollevato.
Dopo questi eventi, inaspettatamente, cominciai a stare meglio. Ero più sereno, mi applicavo nello studio con maggiore impegno, la mia mente era sgombra come una limpida mattina di primavera. Sembrava che mi fossi sgravato di un peso.
Rividi Luca in occasione del trattato di pace con Anna. Eravamo nel dehor del caffé Roma, era domenica e faceva di nuovo caldo. Luca era raggiante.
– Adesso stiamo insieme -, disse, davanti a un gelato alla fragola. Rimasi stupito. Per la prima volta gli sentivo fare un’affermazione simile.
– Ehi, veramente? Sono contento. Ma non eravate insieme già da un po’?
Mi scoccò un’occhiata fintamente offesa.
– In un certo senso sì, però non ufficialmente. Ora invece ci siamo impegnati. Lei ha accennato addirittura alla convivenza…
Mi trattenni a fatica dal ridere. Lui se ne accorse. Si rabbuiò un poco, cercò di sviare il discorso.
– E tu, quella bionda? L’hai poi rivista?
Ecco, ci siamo, pensai. Feci due respiri lenti, belli lunghi.
– Sì, l’ho rivista. Una sola volta. Ma era già impegnata.
I due prezzolati delle FS ci avevano fatto promettere di mantenere il silenzio. In fondo non era difficile. Chi avrebbe mai creduto a una storia del genere?
Lui scosse la testa, sornione.
– Adesso stiamo insieme -, disse, davanti a un gelato alla fragola. Rimasi stupito. Per la prima volta gli sentivo fare un’affermazione simile.
– Ehi, veramente? Sono contento. Ma non eravate insieme già da un po’?
Mi scoccò un’occhiata fintamente offesa.
– In un certo senso sì, però non ufficialmente. Ora invece ci siamo impegnati. Lei ha accennato addirittura alla convivenza…
Mi trattenni a fatica dal ridere. Lui se ne accorse. Si rabbuiò un poco, cercò di sviare il discorso.
– E tu, quella bionda? L’hai poi rivista?
Ecco, ci siamo, pensai. Feci due respiri lenti, belli lunghi.
– Sì, l’ho rivista. Una sola volta. Ma era già impegnata.
I due prezzolati delle FS ci avevano fatto promettere di mantenere il silenzio. In fondo non era difficile. Chi avrebbe mai creduto a una storia del genere?
Lui scosse la testa, sornione.
Mai più parlai di quanto accaduto, né con Luca né con nessun altro. Ma col trascorrere del tempo prese forma una certezza dentro di me. Che a uccidere Esmeralda, a ucciderla davvero, ero stato io.
Io le avevo dato la seconda morte, quella definitiva.
E in fondo me ne vantavo, perché l’avevo liberata dalla sua terribile prigione.
Un giorno, forse, mi avrebbe ringraziato.
Io le avevo dato la seconda morte, quella definitiva.
E in fondo me ne vantavo, perché l’avevo liberata dalla sua terribile prigione.
Un giorno, forse, mi avrebbe ringraziato.
NOTE
Prima pubblicazione per Club GHoST: 8 Aprile 2019.
L’AUTORE
Maurizio Cometto è nato a Cuneo nel 1971. Tra i suoi libri pubblicati, il romanzo Il costruttore di biciclette (Il Foglio 2006), la raccolta L’incrinarsi di una persistenza e altri racconti fantastici (Il Foglio 2008), il romanzo per istantanee Cambio di stagione (Il Foglio 2011). Nel 2016 sono usciti in e-book il racconto lungo La macchia, per Acheron Books, e il romanzo di formazione Michele e l’aliante scomparso, per Delos Digital. Nel dicembre 2017 è uscita la raccolta di racconti Heptahedron, per Acheron Books. A fine 2018 è uscito per le edizioni Il Foglio Magniverne, contenente la riedizione de Il costruttore di biciclette insieme ad altri racconti lunghi accomunati da temi e ambientazioni. Nel settembre 2018 il racconto La Tierra Blanca, tradotto in inglese da Rachel S. Cordasco, è stato incluso nel primo numero della prestigiosa rivista The Silent Garden, edita da Undertow Publications. Ha pubblicato numerosi racconti in antologie, siti internet e riviste. Laureato in Ingegneria Meccanica, vive a Collegno.
Maurizio Cometto è nato a Cuneo nel 1971. Tra i suoi libri pubblicati, il romanzo Il costruttore di biciclette (Il Foglio 2006), la raccolta L’incrinarsi di una persistenza e altri racconti fantastici (Il Foglio 2008), il romanzo per istantanee Cambio di stagione (Il Foglio 2011). Nel 2016 sono usciti in e-book il racconto lungo La macchia, per Acheron Books, e il romanzo di formazione Michele e l’aliante scomparso, per Delos Digital. Nel dicembre 2017 è uscita la raccolta di racconti Heptahedron, per Acheron Books. A fine 2018 è uscito per le edizioni Il Foglio Magniverne, contenente la riedizione de Il costruttore di biciclette insieme ad altri racconti lunghi accomunati da temi e ambientazioni. Nel settembre 2018 il racconto La Tierra Blanca, tradotto in inglese da Rachel S. Cordasco, è stato incluso nel primo numero della prestigiosa rivista The Silent Garden, edita da Undertow Publications. Ha pubblicato numerosi racconti in antologie, siti internet e riviste. Laureato in Ingegneria Meccanica, vive a Collegno.
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