Un urlo nella notte di Donald Honig

Un racconto presentato da Alfred Hitchcock

Pubblicato in Italia nel dicembre 1961 sul giornale "La Domenica del Corriere"

Sono stato sceriffo in una piccola contea dello Stato di New York, per circa venticinque anni, e per strano che possa sembrare, in tutto quel periodo ho avuto un solo omicidio premeditato. Si capisce, ho avuto altri omicidi, ma come conseguenza di risse, o di scontri fortuiti, e per uno sceriffo questi delitti non presentano problemi da risolvere. Non conto naturalmente i tentati omicidi…
C’è stato invece un caso che mi ha perseguitato a lungo. Il caso di Anton Kimbald il quale... Ma cominciamo dal principio.
Anton Kimbald era un ometto robusto tarchiato scontroso e di poche parole. Camminava guardando sempre fisso davanti a sé e cercava di evitare le conversazioni. Com’è il caso di molti uomini riservati e taciturni possedeva una forza fisica sorprendente e imprevedibile.
Viveva in una casetta posta in un angolo tranquillo alla periferia della cittadina. Era stata la casa dei suoi genitori e, prima di loro, dei suoi nonni. Al tetto mancavano tegole che non erano mai state sostituite, alcune imposte avevano i cardini in disordine e pendevano oblique dalle finestre, e il giardino di fronte alla casa sembrava un terreno abbandonato. Anton lasciava crescere le erbacce finché invadevano tutto, e poi, ogni tanto, ma di rado, le tagliava.
E poi, in mezzo a questa desolazione, c’era il vecchio pino che forse una volta era una bella decorazione per la casa ma che ormai, colpito dal fulmine, era ancora in piedi ma più morto che vivo. Le erbe avevano sommerso perfino il sentiero di pietre che dalla strada conduceva alla porta d’ingresso della vecchia casa. E i pali del recinto sembravano una sfilata di ubriachi.
Kimbald non pareva preoccuparsi che la sua casa fosse in cattivo stato e si disintegrasse. Non riceveva ospiti. Quando aveva voglia di vedere gente, cosa che capitava di rado, andava in città e beveva qualche bottiglia di birra.
Sapeva essere di piacevole compagnia, quando voleva, ma anche in questi casi era sempre molto riservato. La gente mormorava che col denaro di cui disponeva poteva permettersi di tenere le distanze. Ma era una esagerazione: Anton Kimbald non era così ricco. I suoi genitori gli avevano lasciato un po’ di denaro, e possedeva un po’ di terreno: stava bene, ma niente di più.
Un giorno disse che si era sposato. Non che si era fidanzato o che stava per sposarsi: disse semplicemente che si era sposato.
Pare che in una delle sue non frequenti visite in città si fosse trovato una donna, l’avesse sposata e portata a casa.
Insieme con l’annuncio dell’avvenuto matrimonio Anton disse che avrebbe fatto un po’ di festa. Naturalmente tutti quelli che lo conoscevano accorsero per la curiosità di vedere la sposa.
Non era una gran bellezza la sposa, era forse un po’ troppo il tipo della donna di casa, ma appariva tranquilla e gentile. E Anton Kimbald ne sembrava soddisfatto.
Ora che si è sposato, pensò la gente, forse Anton cambierà il suo umore, diventerà più socievole. E per un po’ infatti fu così. Appariva più di frequente in città e i suoi modi erano più cordiali.
Ma non durò molto: dopo un annetto ritornò al suo umore di prima. Passava accanto a conoscenti per la strada senza neanche fare un cenno. Se qualcuno gli rivolgeva la parola si irrigidiva e guardava lontano finché quello aveva finito di parlare, poi se ne andava rispondendo con un grugnito.
Annie, sua moglie, era quasi altrettanto taciturna. In lei però si trattava di timidezza, e di nervosismo; lo si vedeva benissimo. Era gentile e cordiale ma preferiva che la gente si limitasse a salutarla.
Della sua storia sapevamo ben poco, pareva non avesse famiglia. Nessun parente venne mai a trovarla e Jim il postino diceva che non riceveva mai corrispondenza.
Naturalmente i vicini trovarono modo di dire che Anton Kimbaid e sua moglie non andavano troppo d’accordo. I vicini hanno sempre molto da dire. Raccontavano perfino che Anton ogni tanto batteva sua moglie.
Non so che cosa ci fosse di vero perché coi « si dice » bisogna andare cauti.
Poi arrivò la famosa notte: era verso la fine di novembre, poco prima che cominciasse a cadere la neve, ero nel mio ufficio di sceriffo e coi miei assistenti stavo giocando una partita a poker quando la porta si spalancò e Fred Jefferson entrò di corsa.
Jefferson era uno dei vicini di Kimbald...
Aveva l’aria spiritata, gli occhi più grandi del solito e una gran premura di parlare.

***

- Ci sono guai in casa di Anton Kimbald - disse col fiato scarso.
- Quali guai? - chiesi.
- Non lo so, sceriffo. Eravamo seduti in salotto mia moglie ed io quando abbiamo sentito quell’urlo… l’urlo di Annie.
- Annie Kimbald? Ha urlato?
- Sì, sceriffo. Un urlo grande. Un solo urlo forte e acuto, e niente altro.
- Questo è tutto? - domandai. - Soltanto un urlo?
Forse nella mia voce c’era un tono di scetticismo. Jefferson era tutto dignità offesa.
- Tu non lo hai sentito, sceriffo. Sembrava… sembrava… una cosa orribile… come se fosse capitato qualcosa di tremendo.
- Sei andato a vedere?
- No, sceriffo, sono venuto subito qui.
Poiché non c’era altro da fare sospesi la partita. Mi alzai e coi miei uomini andai a casa di Anton Kimbald. Non ne avevo molta voglia, ma poiché Jefferson pareva tanto allarmato non potevo fare altro.
- Spero che tu non mi faccia muovere per niente, Jeff - dissi - perché se dovessi accorrere tutte le volte che qualcuno grida...
Andai dunque a vedere, e quando ebbi visto mi accorsi che non mi ero mosso per niente.
Era una notte fredda, chiara per la luna piena. Quando fummo davanti alla casa di Kimbald feci aspettar fuori i miei uomini e Jefferson, e mi avviai da solo.
Aprii il cancelletto e attraverso il ‘giardino’ arrivai alla porta.
Vidi una scala a pioli appoggiata ad una finestra e la cosa mi parve strana.
Bussai e dovetti aspettare circa un minuto prima che Anton aprisse. Socchiuse la porta di pochi centimetri, quanto bastava per mostrare la sua faccia.
Era il suo modo di non invitare in casa gli estranei.
Non sembrò sorpreso di vedermi, e nemmeno preoccupato. Aveva la sua solita grinta riservata.
- Anton - dissi - è successo qualcosa?
- Niente è successo.
- Sicuro? Dov’è Annie?
- Non è in casa, è andata in città stamattina.
E questo fu tutto. Non ci fu altro. Mi scusai per il disturbo e tornai dagli altri.
Andammo tutti nella casa di Jefferson che era dall’altra parte della strada. Misi uno dei miei uomini alla finestra per osservare le mosse di Anton. Poi raccontai a Jefferson com’era andato l’incontro col suo vicino.
- Dice che non è successo niente.
- E’ impossibile - esclamò Jefferson ho sentito un urlo atroce, non posso averlo sognato. L’ha sentito anche mia moglie.
Meno eccitata di Jefferson ma altrettanto sicura, sua moglie confermò la cosa. Di lei potevo fidarmi. Non era tipo da lasciarsi suggestionare.
- Insomma - dissi - se Anton mi ha detto una bugia, allora può darsi che abbia battuto sua moglie e adesso se ne vergogna.
- Ma che bisogno c’era di dire che è andata via? - domandò uno dei miei uomini.
- Mah...
Senza sapere bene il perché mi sentivo inquieto. Non potevo dire che Anton avesse un’aria misteriosa, o sospetta; era sempre stato così.
Forse mi avevano sorpreso le sue parole: quando a tarda sera un poliziotto bussa alla porta di casa uno non lo guarda come se lo stesse già aspettando, come se sapesse perché è venuto.
Comunque fosse, lasciai un uomo di guardia alla finestra di Jefferson per sorvegliare i movimenti di Anton. Meglio stare sul sicuro.

***

Il giorno dopo domandai nel vicinato per sentire se qualcuno avesse visto Annie andare in città. Nessuno l’aveva vista.
Non era una prova, s’intende; però era impossibile che fosse partita con l’autobus senza che nessuno l’avesse notata; abbiamo sempre in giro vecchietti sfaccendati che controllano chi va e chi viene.
Anche senza la prova potevo essere convinto che Annie Kimbald non era andata in nessun posto.
Bisognava tornare da Anton e domandare qualcosa di più.
Continuai a lasciare un osservatore nascosto: i miei uomini si davano il turno e ogni tanto perfino Jefferson giocava al poliziotto e si metteva al posto di osservazione.
I rapporti di tutte le mie spie, però, erano sempre gli stessi: niente di nuovo. Anton non era uscito. La porta della sua casa non si era aperta nemmeno una volta. Dunque se era stata Annie a lanciare quell’urlo doveva essere ancora in casa.
Il giorno dopo andai da Kimbald. Ormai i sospetti cominciavano a fermentare.
Bussai deciso alla porta e quando Anton si presentò lo pregai di lasciarmi entrare.
Senza ribattere Anton aprì del tutto la porta.
- Dov’è Annie? - chiesi.
- Te l’ho detto.
- Mi hai detto che ha lasciato la città. Ma nessuno l’ha vista. Invece qualcuna l’ha sentita. L’ha sentita urlare; l’altra notte. Ascolta, Anton, è meglio che tu mi dica dov’è.
Anton Kimbald non si scompose e ripeté quello che mi aveva detto la prima volta. Annie aveva lasciato il paese ed era andata in città: era tutto quello che sapeva. Per quanto tempo fosse partita o per quale motivo Anton non lo sapeva.
Gli dissi che avrei voluto dare una occhiata in giro: rispose che la cosa non gli piaceva affatto, però se proprio lo desideravo, potevo guardare.
Non c’era molto da frugare: cinque stanze e una cantina.
Feci un rapido giro d’ispezione e non trovai Annie. Però nel suo armadio vidi molti abiti suoi e anche l’unico cappotto che possedeva.
Trovai anche la valigia di Annie e nella valigia la borsetta, le chiavi e i documenti personali.
Anton disse che non sapeva cosa dire. Per tutta l’ispezione mi aveva seguito osservando quel che facevo ma sempre senza parlare.
- Litigate molto tu ed Annie? - chiesi.
- Non litighiamo mai - rispose.
Questa era una bugia bell’e buona perché tutti i vicini li avevano sentiti alzare la voce.
Me ne andai tutt’altro che soddisfatto. Noi sapevamo che Anton non era mai uscito di casa dopo la notte dell’urlo. Quando ricevetti le carte necessarie per continuare a fondo l’indagine, decisi di visitare la casa più accuratamente.
Arrivammo sul luogo in forze, come si dice, e buttammo all’aria tutto, dal tetto alla cantina. Ad un certo punto proprio in cantina trovammo alcuni mattoni sparsi a terra in un angolo. Si sparse l’allarme: scavammo un buco nelle zona da dove i mattoni sembravano essere staccati, ma senza risultato.
Provammo a battere le pareti per cercare qualche punto vuoto o qual che passaggio segreto, non si sa mai. Invano.
Ad un tratto mi ricordai di aver visto la scala a pioli appoggiata all’esterno della casa. Mandai un paio di uomini sul tetto. Perché no? Ma sul tetto non c’era niente. Anche la cappa del camino, esplorata e illuminata, non rivelò tracce di Annie Kimbald. Cercammo botole o i passaggi sotterranei. Ci mancava soltanto di smontare tutto mattone per mattone.
Dopo il nostro fiasco Anton Kimbald diventò sfacciato. Fece il cattivo e ci accusò di aver violato la casa dei suoi antenati (la chiamava così la sua catapecchia), minacciò di denunciare per calunnia i suoi persecutori.
Era diventato loquace e prepotente. Ma io non lo ascoltai.
Intanto era passata una settimana e di Annie nessuna traccia.
- Se è andata via - domandai a Kimblad perché non scrive?
- Ti ho detto quel che so - disse Anton, secco.
Allora dedicai la mia attenzione all’esterno della casa. Ma ci speravo poco: dal momento in cui Jefferson aveva sentito il grido dopo il momento in cui eravamo arrivati sul posto erano passati meno di dieci minuti. Ed in questo periodo la signora Jefferson si era affacciata più volte alla finestra. Anche se Anton avesse portato sua moglie fuori di casa dove poteva averla messa in così breve tempo?
Non c’era molta speranza però guardammo ugualmente, cercammo nel boschetto accanto alla casa, frugammo in ogni angolo per cento metri di raggio attorno alla dannata catapecchia. Ma invano.
Poi l’inverno sopraggiunse e ci fu molta neve. Ma anche se la casa era bloccata dalla neve non per questo abbandonai la guardia. Un uomo continuava a sorvegliare notte e giorno le mosse di Anton Kimbald.
Il sospettato non faceva nulla di sospetto. Usciva soltanto per andare in negozio a comprarsi da mangiare e poi rientrava. Era tutto. Facevo controllare perfino il bidone dell’immondizia tanto per sicurezza. Figuratevi.
Passarono tre mesi senza che nulla accadesse. A malincuore mi decisi a togliere il mio uomo dal posto di vedetta, anche se ero convinto che Annie non poteva essere lontana. Ma avevo esaurito tutte le possibilità.
Il giudice diceva di non vedere quale azione penale intraprendere poiché non avevamo trovato prove di nessun genere.
Pian piano cominciai a pensare: forse Anton aveva detto la verità; forse il grido che Jefferson e sua moglie avevano sentito veniva dal bosco; forse mi sbagliavo anch’io; forse tutti quanti ci sbagliavamo e Annie aveva veramente abbandonato Anton e se ne era andata.
Questa ipotesi non era poi così azzardata tenendo conto del carattere di Anton. Piantare un orso simile pareva naturale.
Quest’idea cominciò a crescere nella mia mente. Finché una mattina incontrai Anton. Non gli rivelai i miei pensieri, si capisce.
- Anton, - gli dissi - io sospetto sempre di te, lo sai. E ho ancora l’intenzione un giorno o l’altro di provare i miei sospetti.
Anton annuì, gentilmente, senza ribattere.
- Soltanto perché abbiamo sospeso la sorveglianza stretta - dissi - non devi credere che abbiamo cessato di sospettarti. Per quel che mi riguarda, finché io sarò sceriffo, e finché non avrò prove sicure, questa pratica rimarrà aperta.
- Sì - rispose Anton sempre annuendo. Stette lì fermo davanti a me, paziente e rispettoso; poi quando vide che avevo finito se ne andò per i fatti suoi.
Tornai in ufficio e ad un tratto l’idea mi colpì. Avevo ragione, avevo sempre avuto ragione: quest’uomo non si preoccupava neppure di affermare la propria innocenza.
Poi il tempo passò e pian piano la gente cominciò a dimenticare.
Alcuni accettarono per buona la storia che Annie lo aveva lasciato; altri anche se non vi avevano creduto non se ne interessarono più.
Ma io non ero di quelli. Non ci credevo, non potevo crederci. Sapevo di aver ragione, sapevo che in qualche modo ero stato imbrogliato. Ne avevo fatto una questione di dignità professionale, era il solo vero mistero poliziesco che avessi incontrato in tutta la mia carriera, e volevo risolverlo. Volevo sapere dove e come Annie Kimbald era scomparsa.
Talvolta l’idea minacciava di diventare un’ossessione: sedevo da solo nel mio ufficio e mi passavano strane ostinate idee per la testa: se mi dice che cosa ne ha fatto e dov’è andata a finire non lo arresto nemmeno. Purché me lo dica!
Anton non aveva mai tradito emozioni: era rimasto lo stesso di prima. Le sue abitudini, i suoi movimenti, il suo atteggiamento, tutto era rimasto invariato. Andava e veniva come prima, freddamente gentile quando ci incontravamo; mai amichevole, perché non era il suo modo di fare; e sempre con quella sua aria sorniona, dicendo il puro necessario ma tenendo la gente a distanza.
Passarono gli anni, molti anni. E posso dire che non tramontava giorno che io non pensassi almeno una volta al caso della scomparsa di Annie Kimbald. I miei familiari e i miei amici mi prendevano in giro perché non ero riuscito a risolvere l’unico caso serio che mi fosse capitato.
Qualche volta mi veniva la voglia di andare da Anton e picchiarlo finché non avesse detto la verità. Qualche volta lo invidiavo perché possedeva quel segreto che io, come un tesoro nascosto, desideravo trovare.
Un giorno seppi che Anton Kimbald era gravemente ammalato. Per una settimana nessuno lo aveva visto: quando qualcuno si decise a fargli visita lo trovò immobile nel suo letto. Il dottore, accorso, disse che Anton aveva ancora poco da vivere.
Non appena seppi la notizia fui preso da una specie di panico. Dissi al dottore che dovevo assolutamente parlargli da solo. Il medico protestò ma non poté opporsi.
Entrai nella camera da letto e chiusi la porta. Anton era pallido e disfatto; ma quando i suoi occhi si fissarono su di me, giuro che per la prima volta ho visto sulla sua fredda grinta l’ombra di un sorriso sardonico e nei suoi occhi un luccicare di allegria.
- Anton, - mormorai - tu sei molto malato. Lo sai?
- Anton annuì.
- Non c’è molto tempo, - ripresi - hai qualcosa da dirmi?
Sorrise debolmente e con voce debole e triste disse:
- Sì, avrei qualcosa da dire, ma credo che non dirò niente.
E infatti non disse niente, e morì il giorno dopo col suo segreto.
Mi sembrava di essere rimasto solo, di non poter più scoprire quel segreto ora che se ne era andato l’uomo che lo aveva tenuto nascosto in sé. Non sapevo darmi pace; ogni tanto andavo nella casa di Anton ormai vuota e abbandonata e mi aggiravo per quella povera stanza come se dovessi trovare il segreto nascosto in qualche angolo o come se dovessi sentire la voce di Anton che finalmente me lo rivelava.
Fui un po’ turbato quando, un paio di mesi dopo, seppi che la casa di Anton Kimbald ed il terreno annesso erano stati venduti ad un’impresa edile e che tutto sarebbe stato livellato per costruire casette a buon mercato. Ne fui turbato perché la vecchia casa aveva ereditato ora nella mia mente la custodia del segreto.
Annie Kimbald era ormai scomparsa da quindici anni ed io ero l’ultimo in città che si ricordava ancora di lei.
Quando gli uomini dell’impresa cominciarono il lavoro di demolizione ci andai ad assistere. Due uomini erano sul tetto e buttavano giù le tegole, altri nell’interno lavoravano di piccone. All’esterno una macchina spianava il terreno.
E poi ad un tratto alcuni bambini cominciarono a strillare, e poi anch’io lo vidi.
Attraversai la strada di corsa, e di corsa raggiunsi il terreno, col viso rosso di vergogna e di collera.
Lo vidi lì e pensai: ecco dove aveva nascosto il corpo di Annie Kimbald. Per tutto quel lungo tempo si era burlato di me, lo aveva lasciato lì, a portata di mano anche se nel frattempo avrebbe potuto trasferirlo altrove. Lo aveva lasciato lì ed io che ero passato accanto cento volte non ci avevo pensato...

***

Ora è passato dell’altro tempo, e dopo tutto sono riuscito a trovarlo, il segreto nascondiglio di Annie Kimbald. Ma mi perseguita ancora l’idea che per tanti anni Anton ha potuto farsi beffe di me, e dei miei sforzi.
Non l’aveva nemmeno sepolta, l’aveva lasciata ritta in piedi e ci sarebbe rimasta ancora chissà per quanto tempo, e io non avrei mai conosciuto l’orribile segreto se la macchina livellatrice non avesse demolito quel pino che si ergeva lì in mezzo al terreno e che il fulmine molti anni prima aveva mezzo ammazzato.
La macchina aveva abbattuto il pino, ne aveva spaccato in due il tronco vuoto, e aveva rovesciato sul terreno lo scheletro di Annie Kimbald.

NOTE
Racconti rari riscoperti da Sergio BissoliUn urlo nella notte di Donald Honig è apparso sulla Domenica del Corriere nel dicembre 1961. Autore incerto inglese o americano. Mai pubblicato prima e mai pubblicato dopo. Manca la biografia dell’Autore. Manca  il titolo originale, manca il nome del traduttore. Un altro bel racconto salvato dall’oblio.
Esiste uno scrittore di nome Donald Martin Honig che ha scritto principalmente libri di baseball e ha collaborato con Hitchcock. Forse è lui. Racconto pubblicato per la prima volta su Club GHoST.


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