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Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders


Damiel e Cassel sono due angeli invisibili (ma non per i bambini) che scendono a Berlino per osservare gli umani e prendere appunti sui loro comportamenti e sui loro pensieri e tentando di dar loro conforto nei momenti difficili. Assieme ad altri angeli presenti nella città, possono provare solo cose astratte, senza sapere cosa siano i colori, i gusti e gli odori. La mancanza di queste capacità li rende un po’ malinconici e incompleti (sebbene in teoria siano esseri perfetti). Un giorno Damiel, mentre è impegnato in una delle sue osservazioni, incontra Marion, una trapezista di un circo sull’orlo della bancarotta. L’angelo si innamora perdutamente della ragazza (soprattutto dopo aver ascoltato i suoi pensieri per lungo tempo) e decide di diventare un umano per poterla incontrare. Si rivolge allora a Peter Falk (nel ruolo di se stesso) che si trova a Berlino per girare un film. Anche Peter, infatti,  è stato a sua volta un angelo che ha deciso di diventare un umano ed è ben lieto di poter aiutare qualcuno che ha deciso di compiere lo stesso suo grande passo.
  
Vincitore del premio per la miglior regia al festival di Cannes 1987, Il cielo sopra Berlino è il film che Wenders gira al suo ritorno in Germania dopo otto anni passati negli USA.
E se l’intento era quello di tornare a girare una pellicola che fosse “europea” (ovvero, più artistica che commerciale, tanto per giocare un po’ con gli stereotipi) non ci sono dubbi che il regista tedesco ci sia riuscito (e infatti si storce un po’ il naso pensando al remake City Of Angels del 1998, bel film, ma assolutamente sempliciotto e strappalacrime).
  
Tematiche e dialoghi parzialmente ispirati alle poesie di Rainer Maria Rilke, nelle quali, secondo Wenders, si avvertirebbe la presenza degli angeli; dialoghi scritti assieme al romanziere e drammaturgo d’avanguardia Peter Handke; e poi Berlino, simbolo, nel bene e nel male, dell’Europa del Ventesimo Secolo e che, nell’anno di realizzazione di questo film (1987), sta ancora vivendo l’assurdità del muro che la separa in due.  
  
E infatti è una Berlino triste, assente, vuota, con gli abitanti che si aggirano sconsolati e un po’ affranti per le sue vie decadenti. La vita, il cuore pulsante di questa metropoli sembra trovarsi, infatti, non in superficie, ma sottoterra, nei locali underground in cui i complessi noise-rock (come “Nick Cave And The Bad Seeds”) si esibiscono in quella che non è musica, ma l’espressione di un sentimento di dolore che viene dal profondo. A tutto ciò si aggiunga che tutta la vicenda è osservata dal punto di vista dei due angeli, capaci di provare solo cose astratte: tutto in bianco e nero, quindi, tanto per accentuare il senso di immaterialità che permea tutta l’ambientazione. Solo quando Damiel diventerà uomo allora il film sarà a colori (sebbene durante la prima parte in bianco e nero ci fossero dei brevi flash a colori, in corrispondenza dei primi vagiti dell’animo di Damiel che voleva assolutamente risvegliarsi).
  
Più che un film ispirato alla poesia, Wenders sembra voler mettere in scena una poesia figurata, una poesia per immagini. Perché a parlare sono soprattutto le riflessioni interiori delle persone che ogni giorno si trovano a dover affrontare la vita, che compiono azioni normali, ma che in realtà sono sempre delle vere e proprie imprese. Non ci rendiamo mai conto, infatti, che vivere la vita giorno dopo giorno è un’impresa assolutamente eroica, che richiede impegno e dedizione; e quante volte siamo sul punto di arrenderci? Quante volte siamo tentati di mandare tutto all’aria? Cos’è che ci fa perseverare e ci fa guardare sempre avanti? Forse proprio quegli angeli che, come in questa pellicola, scendono sulla Terra e ci abbracciano ogniqualvolta ci sentiamo abbandonati, a un passo dalla disperazione. Gli stessi angeli che urlano disperati quando qualcuno decide di gettare la spugna, mettendo fine alla propria esistenza.
  
Ottima l’interpretazione di Peter Falk nel ruolo di se stesso, in un film che riesce ad assorbire persino la sua carica umoristica, rendendola malinconica, ma pur sempre rassicurante. Nel film l’attore è a Berlino per girare una pellicola sul Nazismo. Un film che interessa dunque la memoria della città. Memoria cittadina incarnata anche dal vecchio Omero, personaggio che si aggira stanco per le vie disastrate di una Berlino che non ha più nulla del suo antico aspetto: una città che insieme alla sua memoria ha perso forse anche la sua identità. Una perfetta fotografia del senso di vuoto che si poteva respirare negli anni della Guerra Fredda, con la gente che guardava con odio quel muro così alto, ma che forse non si ricordava bene il perché della sua presenza. E allora Marion, forse, aveva ragione: “Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?”.
 
Giudizio: ottimo.  

a cura di Giorgio Mazzola