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Bambine - Edizioni Fernandel


Da lungo tempo fuori catalogo, e a vent’anni dalla prima edizione, torna a gennaio in libreria il romanzo che ha reso famoso Eraldo Baldini.
Primi anni Novanta. Tre bambine, nel giro di poche settimane, spariscono come inghiottite dalla nebbia che spesso avvolge Ravenna, una città dove i paesaggi del porto, della marina e della zona industriale formano uno strano contrasto col tranquillo “salotto” del centro storico. All’improvviso una nube di paura scende a oscurare la vita di tutti i giorni, facendo serpeggiare apprensione, incredulità e senso di impotenza, che cresceranno quando la vicenda, in un incalzante susseguirsi di colpi di scena, assumerà contorni di puro orrore. Sarà Carlo Bertelli, cronista di provincia che trascina senza entusiasmi una vita in crisi, a doversi suo malgrado immergere in una storia terribile, spinto soprattutto dal bisogno di proteggere la piccola Chiara, figlia del suo migliore amico morto in mare.
Spietato e tenero, commovente e durissimo, Bambine è un noir pieno di suspense e di lucide disamine del Male, e nel contempo – come sottolinea Carlo Lucarelli nella sua Prefazione – «uno splendido racconto sull’amicizia, sull’amore e sulle delusioni di una generazione inquieta in una terra che è stata definita “sazia e disperata”».
Bambine, Anno: 2015, pagine: 128, Codice ISBN: 978-88-9860-529-3,
Collana: Fernandel, Editore: Fernandel Edizioni.    
   
LA PREFAZIONE DI CARLO LUCARELLI
Nessuno tranne Eraldo Baldini, attento osservatore della metà oscura di una terra contraddittoria e dai diversi volti come l’Emilia-Romagna, sarebbe riuscito a scrivere una storia come questa. Una storia che è allo stesso tempo spietata e tenera, commovente e durissima, proprio come la striscia di terra in cui si ambienta: quella della riviera adriatica. Una vicenda di bambine rapite e brutalmente uccise da un maniaco che si intreccia con quella, umana e toccante, dell’affetto tra un giornalista e la piccola Chiara, figlia del suo miglior amico, morto in un incidente di mare.
Sullo sfondo di una riviera e di una Ravenna dai diversi volti, spesso inediti e insospettati, un po’ nebbioso e sinistro borgo padano, un po’ sfavillante e insonne divertimentificio, un po’ porto di mare difficile e bizantino, si dipana, con la suspense e i colpi di scena tipici di un grande noir, una storia terribile di orrore e di morte che è insieme uno splendido racconto sull’amicizia, sull’amore e sulle delusioni di una generazione inquieta in una terra che è stata definita «sazia e disperata».
Perché Bambine è soprattutto questo: la storia della solitudine di una generazione che vive in un contesto umano diabolicamente ambiguo, che offre molto, forse troppo, ma a patto che lo si consumi in fretta. Ed è proprio lì, tra le nebbie della riviera, che si nasconde la metà oscura di ognuno di noi.
       
UN ASSAGGIO DEL LIBRO
I colpi del pallone e le urla delle giocatrici rimbombavano nella palestra. Cristiana aveva già lasciato il parquet e, seduta sulla panca, si tergeva il viso con l’asciugamano.
« Vai a fare la doccia, su! » le disse la signora Fabbri, l’allenatrice, passandole dietro e accarezzandole appena i lunghi capelli biondi fermati da elastici colorati. Era sempre armata di pazienza, la signora, ma quando diceva qualcosa bisognava ubbidirle. Pazienza e polso: doti indispensabili per gestire quel nugolo di piccole giocatrici di pallavolo.
Cristiana prese la borsa e si avviò lenta, guardando quelle che ancora continuavano ad allenarsi sotto rete. Nello spogliatoio, gettando a terra la tuta sudata che si appiccicò con un plac al pavimento, pensò che erano le sette e mezzo di sera e ancora non aveva fatto i compiti. Spesso li rimandava a un’esigua mezz’ora
prima di cena: tanto, era veloce a farli. Aveva undici anni, era in prima media, ed era la prima della classe. Una cosa, quest’ultima, che le riusciva facile, senza bisogno di secchioneria, senza dover faticare sui quaderni e sui libri. Amava più il volley della scuola, ma era brava in entrambe le cose.
Tolse gli elastici dai capelli con delicatezza, per non procurarsi dolore, poi mise la cuffia di plastica e aprì la doccia. Non riusciva a smettere di sudare, e il getto dell’acqua calda non avrebbe migliorato la situazione. Si lavò lentamente, a occhi chiusi, poi si asciugò, indossò le mutandine, una maglietta, la tuta pulita e calzò un altro paio di scarpe da ginnastica, simili a quelle con cui si era allenata; ficcò nella borsa alla rinfusa i panni bagnati, la bottiglia del bagnoschiuma, la cuffia, le scarpe, gli elastici, le ginocchiere e tutte le altre cose che aveva sparse intorno. A casa, poi, mamma le avrebbe dato una mano a mettere a posto. Da una tasca esterna della borsa prese un chewing-gum. Faticare le faceva non solo venire sete, ma le procurava in bocca un sapore cattivo.
Quando uscì dallo spogliatoio, trovò su di sé gli occhi attenti della signora Fabbri: « Metti il cappotto, e a casa di corsa, signorina! A mercoledì ».
Cristiana le sorrise, salutò le compagne che stavano riponendo i palloni, mentre una parte dei neon sul soffitto si spegneva e la palestra piombava nella semioscurità.
Quando uscì le arrivò sul viso l’aria fredda e nebbiosa di quella sera dei primi di marzo, e lei alzò bene il bavero del cappotto a proteggersi la gola. Il suo punto debole. Si beccava non meno di quattro o cinque faringiti ogni inverno, nonostante l’avessero liberata dalle tonsille già da molto tempo. Non era spiacevole
potersene stare ogni tanto lontana dalla scuola e dalle levatacce mattutine ma le mancava la pallavolo, quando era ammalata, le mancavano gli amici.
Casa sua non era lontana, duecento metri appena. Quando aveva iniziato a frequentare la palestra, mamma o papà venivano ad aspettarla all’uscita. Poi lei non li aveva voluti più: nessuna delle sue compagne che abitavano nei dintorni si faceva scortare, e lei non voleva fare la figura della cocca di mamma o della fifona. E poi, aver paura di cosa? La strada era zeppa di lampioni, passava tra due file di palazzine e c’era sempre gente in giro, a quell’ora.
Però a metà del percorso c’era lo spiazzo, che si apriva su entrambi i lati della via. Era un’area sterrata che veniva usata da appendice al parcheggio di un supermercato; a volte vi si fermava qualche roulotte di zingari, o vi veniva alzato il tendone di un piccolo circo. Spesso, di sera, c’erano ragazzini fermi sui loro ciclomotori, e qualche volta l’avevano apostrofata, le avevano detto qualcosa, quando lei era passata di lì. « Bella biondina », l’avevano chiamata una volta, e poi avevano riso. Lei aveva continuato a camminare e a masticare il suo chewing-gum senza girarsi. Di essere bella lo sapeva. E i suoi capelli colpivano tutti: così lunghi, biondi, sempre ornati – era una cosa a cui lei dedicava una cura divertita – di nastrini e fiocchetti.
Lo spiazzo. Non aveva mai avuto paura di passare di lì, e neppure adesso ne aveva; ma il ricordo dell’uomo-della-foto tornava ogni volta che doveva percorrere quelle poche decine di metri privi di case. Era successo qualche settimana prima: accanto al cassonetto dei rifiuti ai margini di quel largo non asfaltato, c’era un uomo strano; quando lei era passata, lui aveva detto: « Ehi! » Lei si era girata allungando il passo, e lui le aveva scattato una foto con una polaroid col flash, uguale a quella che aveva anche papà.
Aveva sentito, in quel momento, che le si arroventavano le guance. Aveva provato qualcosa di più simile all’imbarazzo che alla paura. Dopo qualche passo si era voltata per vedere se l’uomo la seguisse, ma era sparito; e non l’aveva incontrato più, nelle sere seguenti.
A casa non aveva parlato dell’accaduto: avrebbe fatto nascere un sacco di problemi, primo fra tutti quello di dover essere di nuovo scortata su quel tragitto. E poi, come nel momento della foto, provava quasi vergogna: si sentiva in qualche modo in colpa, senza sapere il perché, e c’era una sorta di strano pudore che le avrebbe reso difficile raccontare l’episodio. Solo con Elisa, la sua compagna di banco, l’aveva fatto, e avevano fantasticato che quello, forse, era un tizio che cercava volti nuovi per la tivù o per la pubblicità. Anche se a dire il vero non ne aveva proprio l’aspetto. Col passare dei giorni, prima ne avevano riso, poi non ne avevano parlato più.
Arrivò allo spiazzo ed ebbe la tentazione di affrettare il passo. Ma si costrinse a non farlo: non aveva paura, non c’era ragione di averne, e quindi neppure di correre.
Non c’era gente in giro a piedi, nella sera nebbiosa; passava qualche auto, e per il resto era quasi silenzio. Si sentiva, monotono, il ronzio di una linea di cavi elettrici nell’umidità. Cristiana guardò dalla parte dello spiazzo più ampia e più buia, tirando su meglio il bavero del cappotto e respirandovi attraverso fino a sentirlo caldo e umido sulle guance e a riceverne un senso di protezione.
Poi udì lo scatto di uno sportello che si apriva, e una voce d’uomo: « Ehi, bimba, aspetta, voglio darti la tua foto… »
Lei sentì una scarica di adrenalina esploderle dentro; ma non fece neppure in tempo a girarsi o a gridare, che due braccia forti l’avevano già tirata nell’abitacolo.
   
   
L'AUTORE
Eraldo Baldini è nato a Russi (Ra) e vive a Ravenna. Nei suoi romanzi ha saputo coniugare “gotico rurale”, noir e horror in una vena originale. Fra i suoi libri più recenti ricordiamo: Nebbia e cenere (2004), L’uomo nero e la bicicletta blu (2011), Gotico rurale (2012), Nevicava sangue (2013), tutti pubblicati da Einaudi e tradotti in diverse lingue. Per Fernandel nel 2015 ha pubblicato la raccolta di racconti umoristici Fra l'Adriatico e il West.
      

Knock Knock di Eli Roth

Evan Webber è un affermato architetto, sposato con una scultrice e padre di due bambini. Il giorno della festa del papà, rimasto a casa per completare un lavoro mentre la famiglia è partita per il week-end, Evan riceve, nel cuore della notte, la visita di due belle ragazze, Genesis e Bel, che chiedono il suo aiuto.
Girato da Eli Roth nel 2014, Knock Knock pone, innanzitutto, una questione: troverà un distributore che lo faccia uscire nei cinema italiani? A dire il vero ci sarebbe già una data prevista, 31 marzo 2016, ma sarà davvero così? Sia chiaro, non sarebbe scandaloso se restasse inedito o, com’è probabile, uscisse direttamente per l’home video, capita ad altri autori, ben più importanti, può succedere tranquillamente anche al regista di Hostel. Senza scomodare titoli coreani e giapponesi, che quasi certamente vengono ritenuti troppo ostici, persino The Harvest di John McNaughton è stato colpevolmente ignorato. E però sarebbe l’ulteriore dimostrazione che Roth non gode di grande considerazione, nonostante l’ultimo film confermi quanto di buono (poco, tanto?) aveva fatto intravedere The Green Inferno (arrivato nelle sale con quasi due anni di ritardo, non dimentichiamolo). Con cui condivide produttore (Nicholas Lopez) e parte del cast (Aaron Burns, Ignacia Allamand e, last but not least: Lorenza Izzo). Knock Knock è un piccolo thriller per nulla pretenzioso ma di buona fattura, senza gridarlo ai quattro venti e con un budget si presume modesto, Roth (che non sembra ambire alla nomea di Grande Regista, di Maestro, coerenza da B-director) è riuscito a realizzarlo alla vecchia maniera, teso e del tutto privo di spargimenti di sangue, modernizzato quel tanto che basta (pc, cellulari e ipad hanno un ruolo decisivo). Trattasi del remake di un film del 1977, Death Game, diretto da Peter S. Traynor ma che ricorda anche, per certi versi, un film diretto da Clint Eastwood negli anni Settanta, Brivido nella notte (Play Misty for Me, 1971), non a caso, forse, tra i produttori figura Sondra Locke (protagonista tra l’altro anche di Death Game), ex-compagna e attrice di Eastwood (e a sua volta regista: che Knock Knock fosse dunque un suo progetto? Vai a saperlo). In Brivido nella notte il protagonista è un disc-jockey perseguitato da una donna con cui ha avuto un'avventura, qui Evan Webber (interpretato da Keanu Reeves) è stato un dj in passato, ora fa l'architetto. Proprio la sua professione rimanda a un'opera dalla matrice completamente diversa ma che inizia nella stessa maniera, ci riferiamo all'episodio Il cavalluccio svedese, contenuto in Quelle strane occasioni, diretto da Luigi Magni e scritto da Rodolfo Sonego. Nel quale il personaggio principale è appunto un architetto che, come Evan, resta a casa per lavorare mentre moglie e figlia partono per il mare e deve anche accogliere una bella ragazza, figlia di un suo vecchio amico. Lo sviluppo, trattandosi di una commedia, è del tutto diverso, ma la sensazione è che lo spunto venga proprio da questa pellicola italiana: e non sarebbe la prima volta, per Roth. Girato in un solo ambiente (la villa di Evan), cosa che già di per sé rappresenta una bella sfida, specie quando bisogna creare della suspense, Knock Knock dimostra di avere un buon numero di frecce al proprio arco. A cominciare dall'idea di non prendere le parti di nessun personaggio. Perché se è vero che nella prima parte le ragazze sono tratteggiate prima come disinibite e assatanate e poi via via assumono i contorni di due psicopatiche (più o meno insomma come si aspetta lo spettatore e per il giudizio comune condannabili senza appello), col passare dei minuti si comprende che a Roth interessa mettere a nudo l'ipocrisia del buon padre di famiglia e marito fedele (o far emergere la sua vera natura, quella animale). Un altro pregio del film è la feroce, sadica, triviale ironia che costringe chi guarda ad accettare le regole del gioco (più di una volta le ragazze parlano di “regole” e “gioco”), senza nessuna morale a cui appigliarsi, un gioco che, oltretutto, non esplode mai in vera e propria violenza (come in realtà ci si aspetterebbe). Non vogliamo rivelare troppo, ma l'unica morte in fin dei conti è causata da un incidente. Non c'è catarsi nemmeno nella conclusione, semmai un surplus di humour corr(os)ivo, ai limiti del geniale. Sia chiaro, non abbiamo intenzione di gridare al capolavoro (lo facciamo tutti troppo spesso, salvo ricrederci due mesi dopo), però è un film sorprendente. Per i collegamenti testuali interni (ad esempio, a un certo punto si pensa che possa trattarsi di un sogno, e le ragazze scrivono “non è stato un sogno”), le citazioni, una volta tanto oculate, quella di Fuori orario (di Scorsese, questo sì un capolavoro) e i riferimenti più o meno metaforici (i due bambini, il padre/mostro e la festa del papà, il cane chiamato Monkey e l'amico nero preso in giro razzisticamente dalle ragazze) ed extra-cinematografici (“l'arte non esiste”, i nomi delle ragazze: Genesis, che rimanda alla creazione e al peccato originale, e Bel, dea della mitologia sumera). Insomma, se mai uscirà (ribadiamo) nelle sale italiane, ci sentiamo di consigliarlo proprio come facevano i veri recensori di una volta, perlomeno a chi apprezza il genere.
Per un confronto con Death Game vi invitiamo a leggere l'articolo: Knock Knock vs. Death Game
      
a cura di Roberto Frini
    

Star Wars: Episodio VII - Il risveglio della forza di J.J. Abrams

Un nuovo pericolo minaccia la Galassia: è il Primo Ordine, generato dal lato oscuro della Forza. La giovane Rey salva il droide BB-8 e scopre che in esso vi è memorizzata una parte della mappa che può rivelare dove si è rifugiato Luke Skywalker, l'ultimo degli Jedi. Alleatasi con un disertore, Finn, decide di condurre BB-8 dalla principessa Leia, che guida la Resistenza. Durante il viaggio, incontra Han Solo e Chewbacca. Insieme, si scontrano con il potente e misterioso Kylo Reno, comandante del Primo Ordine. 
Una premessa: se si va a vedere Star Wars – Il risveglio della forza spinti dall'effetto nostalgia, tanto vale lasciar perdere. Il cinema (americano/d'avventura/fantasy/di fantascienza, ma anche mainstream e d'autore), dal 1977 (anno in cui uscì Guerre stellari) a oggi,  è cambiato in maniera esponenziale (se in meglio o in peggio non sta a chi scrive stabilirlo), e probabilmente proprio con il film di Lucas ebbe inizio il mutamento. Non si può quindi mettere a confronto il prototipo, che resta sempre il migliore, seguito a breve distanza da L'impero colpisce ancora, con il film attualmente nelle sale (in quasi tutte le sale, cosa che ha fatto infuriare anche Tarantino: da quale pulpito). D'altra parte non siamo di fronte a un (qualsiasi) remake, di quelli realizzati un tanto al chilo, ma a un sequel che riprende trent'anni dopo la vicenda della Trilogia Originale, interrotta alla fine de Il ritorno dello Jedi (i film successivi, per chi non lo sapesse, raccontano in realtà l'antefatto). Sarebbe da capire quanto Lucas sia stato effettivamente coinvolto in prima persona: l'acquisizione da parte della Disney della sua casa di produzione, la Lucasfilm, potrebbe aver tolto al grande regista e produttore (tanto per dire, consacrato da Camille Paglia con l'iperbolico giudizio di “ultimo grande artista americano”) voce in capitolo nella progettazione del film. Ammettiamo in questo senso la nostra ignoranza: la questione ci appare onestamente più indecifrabile del lato oscuro della Forza. In ogni caso, la designazione di J.J. Abrams come regista non può essere equiparata alle scelte di Irvin Kershner (L'impero colpisce ancora) e Richard Marquand (Il ritorno dello Jedi), poiché l'attuale peso specifico dell'autore di Lost è senza dubbio superiore a quello dei suoi pur bravi predecessori - non a caso è anche co-sceneggiatore e co-produttore. Però va nella stessa direzione. Insomma, la sensazione è che Lucas non se la sentisse di tornare dietro la macchina da presa (per vari motivi, tra cui uno, forse decisivo, che potremmo definire affettivo) e avesse bisogno di un giovane regista specializzato in film d'azione e avventura (suoi sono Star Trek del 2009 e Into Darkness – Star Trek del 2013) che modernizzasse il tutto ma seguendo lo schema base su cui sono stati creati non solo i primi film della saga ma quasi tutte le produzioni della Lucasfilm (risultano abbastanza evidenti i rimandi a titoli come Labyrinth – Dove tutto è possibile e Willow). E bisogna ammettere che Abrams ha svolto il compito in maniera precisa, riuscendo persino ad armonizzare l'alternanza ritmi veloci/ritmi lenti, azione/introspezione (cosa non facile considerati i limiti dei cineasti d'oggigiorno). Ovviamente a un tale risultato è giunto anche grazie all'apporto in sede di sceneggiatura del maestro Lawrence Kasdan, autore degli script di L'impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi (nonché collaboratore di Spielberg per I predatori dell'arca perduta e regista di film epocali come Brivido caldo, Il grande freddo, Silverado e Turista per caso), sapiente elaboratore di complesse strutture cinematografiche che utilizzano materiali alti e bassi con uguale disinvoltura. Certo, la direzione degli attori non è delle migliori, Harrison Ford e soprattutto Carrie Fisher paiono spaesati, e questo rende meno efficace il pathos che dovrebbe emergere nelle scene di maggiore impatto emotivo (quelle in particolare nelle quali più evidenti risultano gli agganci con la Trilogia Originale: relazione sentimentale tra Han Solo e la principessa Leia eccetera). Manca, inoltre, il tocco esoterico/mistico/filosofico di Lucas, e manca l'apporto dei tanti grandi artisti che mossero i primi passi con Guerre Stellari e hanno fatto poi la storia del cinema; rileggersi i crediti e i non accreditati, please: Richard Edlund, Dennis Muren, Joe Johnston, Dan O'Bannon, Phil Tippett, Bob Keen, Ron Cobb, Rick Baker, Rob Bottin, Doug Beswick, Roger Christian, Paul Hirsch, John Dykstra, Tak Fujimoto, Ronnie Taylor, Lionel Newma, Carroll Ballard: bastano? Siamo di fronte, in conclusione, a uno spettacolo gradevole ma che vive un po' di rendita, senza cadute di tono (ed è già molto) ma anche senza particolari picchi di genialità (se non forse in quella che può essere considerata la sequenza clou, vale a dire l'incontro tra Han Solo e Kylo Ren o nel finale). Ricorda, in questo, l'altro kolossal campione d'incassi dell'anno, Jurassik World. Il cui regista, Colin Trevorrow, dirigerà non a caso il terzo capitolo della Trilogia Sequel.
     
a cura di Roberto Frini
     

Emanuelle e gli ultimi cannibali di Joe D'Amato

Emanuelle, giornalista di un periodico scandalistico di New York, va in Amazzonia, con l'etnologo Mark Lester, alla ricerca di una tribù di indios antropofagi, che si riteneva estinta. Alla spedizione, organizzata dal giornale, si aggregano la figlia di un "fazendero", una suora diretta alla missione e due coniugi, che si fingono cacciatori mentre in realtà vogliono ritrovare due sacchetti di diamanti nascosti in un aereo da turismo precipitato nella giungla. Finiranno tutti, tranne Emanuelle, Lester e una ragazza da loro fortunosamente salvata, in pasto ai cannibali. (Fonte: Comingsoon)
All’inizio vediamo Emanuelle, celebre fotoreporter sempre impegnata in servizi sensazionali, ricoverata sotto mentite spoglie in un manicomio femminile. Si porta appresso una bambola, che le serve per scattare fotografie senza essere scoperta. Un’infermiera viene aggredita da una paziente, che le stacca a morsi un seno. Emanuelle scopre un tatuaggio vicino al pube della ragazza, e capisce che appartiene a una tribù di cannibali. Insieme a un antropologo, Mark Lester, organizza una spedizione in Amazzonia, dove è segnalata una delle ultime tribù antropofaghe. Il gruppo dovrebbe raggiungere una missione ma prima d’arrivarci vengono a sapere che la missione è stata attaccata dai cannibali e che non vi sono superstiti. A Emanuelle e a Mark si unisce la figlia di un amico di Mark e, avanzando nella foresta, incontrano un cacciatore e sua moglie. I due in realtà stanno cercando un tesoro. Aggrediti e catturati dai cannibali, i membri della spedizione vengono trucidati uno ad uno, ma Emanuelle, Lester e la ragazza riusciranno a salvarsi, grazie alla reporter che fa credere ai cannibali d’essere la dea del fiume.
In Emanuelle e gli ultimi cannibali i generi sono talmente mischiati che alla fine non si sa bene come definire il film, se un horror, un soft-core, un film d’avventura o un cannibal-movies. Eppure affascina sin dalla prima (scioccante) sequenza. Joe d’Amato era un regista che prendeva sul serio anche la vicenda più assurda. Nel senso che cercava sempre di dirigerla al meglio. Non aveva tantissimi soldi (più di quanti potesse spenderne negli ultimi tempi, comunque), era obbligato a inserire una scena erotica ogni dieci minuti, e andava quasi sempre a ruota di qualche successo altrui. In questo caso i cannibalici di Deodato e i mondo-movies, oltre naturalmente alla Emanuelle nera di Bitto Albertini. Da tutto ciò tira fuori un film che lascia il segno, ben girato, indubbiamente influenzato dallo stile ruvido di registi d’oltreoceano come Romero, Cronenberg e Hooper. Curato, con alcune scene costruite su una buona intuizione narrativa, ad esempio l’uso del montaggio alternato quando Emanuelle ricorda la notte d’amore trascorsa insieme a Lester, tecnica con cui D’Amato trasforma un’esigenza produttiva in grande cinema; e va sottolineata la bravura del Massaccesi direttore della fotografia. Come non mancano le scene erotiche, comprese quelle saffiche (un classico dell’epoca), D’Amato non lesina certo sui particolari raccapriccianti. Resta impressa la colonna sonora di Nico Fidenco, con alcune canzoni che sembrano anticipare la struggente nostalgia postuma per un cinema ormai morto e sepolto.
     
a cura di Roberto Frini
   

Il Grande Libro dei Misteri Irrisolti di Colin e Damon Wilson

Il 21 dicembre 2012 è stato sfatato uno dei più famosi e famigerati misteri (o presunti tali) dell’umanità. Film, libri, e trasmissioni ci hanno riempito fino alla nausea, tanto che il giorno dopo ho tirato un sospiro di sollievo, non per lo scampato pericolo e la sfumata fine del mondo, ma per la dolce  prospettiva della fine di un’ossessione che aveva contagiato migliaia di persone.
A tre anni ormai di distanza dalla chiusura di quel calendario Maya che aveva suscitato tanto clamore, mi sono imbattuto in un “librone” che ha stuzzicato la mia curiosità, vuoi per la copertina, dove sono raffigurati nell’ordine la Sacra Sindone, un disco volante, il mostro di Lock Ness e un cerchio nel grano, vuoi per il titolo, intrigante, oscuro, da colossal hollywoodiano: Il Grande Libro dei Misteri Irrisolti.
Scritto da Colin e Damon Wilson, il libro di 670 e passa pagine fornisce il resoconto dettagliato degli studi di ricercatori, accreditati e non, sui più intriganti enigmi dell’umanità, toccando argomenti noti, come il mito di Atlantide, gli UFO, il triangolo delle Bermuda e alcuni meno conosciuti, ma che hanno una cospicua dose d’inesplicabilità: il “popolo segreto”, il mistero di Glozel, l’Uomo Grigio del Ben MacDhui.
Addentrandosi nella lettura, è possibile trovare nomi e storie note: vampiri, fate, Re Artù e Merlino, Jack lo squartatore, la Monna Lisa, niente di meno che Agatha Christie, Glenn Miller e William Shakespeare. C’è poi la cometa di Velikosky con la quale si spiega in un colpo solo la nascita del pianeta Venere, la fine di Marte come probabile “pianeta verde” e, giusto per rendere più densa la storia, le devastazioni che hanno sconvolto la Terra nel 3.500 avanti Cristo.
Gli appassionati di Voyager troveranno un capitolo dedicato ai misteri di Rennes-le-Château e dell’oscuro Béranger Saunière, un racconto che va a scomodare uno degli ordini dei monaci combattenti più noti di sempre, i Templari.
La lista è lunga e colorita, che si adatta agli interessi e alla curiosità di un pubblico vasto ed eterogeneo, peculiarità che fa capire come il libro sia stato concepito per cavalcare quell’onda letteraria che unisce mistero e catastrofismo, con un pizzico di sensazionalismo che, in genere, garantisce lauti guadagni ai fortunati scrittori.
Tuffarsi in questa folta carrellata di eventi, persone e luoghi che spesso richiamano un tempo lontano, dove la nostra civiltà stava muovendo i primi, timidissimi passi, può essere un modo divertente per passare una serata, anzi, più di una vista la quantità di carta che si ha tra le mani.
Quello che però mi ha lasciato perplesso, e a conti fatti deluso, è la mancanza di un richiamo al calendario Maya: il 21 dicembre scorso non c’è stata nessuna nuova e rapidissima deriva dei continenti, non c’è stata nessuna invasione aliena e nessuna presa di consapevolezza da parte dell’umanità, quindi mi sarei aspettato un capitolo dedicato a questo nuovo mistero: perché i Maya hanno sbagliato?
Bé, nel frattempo il “mondo è andato avanti”, i Maya hanno bruciato i loro “quindici minuti di gloria” e questo libro si può leggere in tutta tranquillità, senza pretese d’illuminazione, magari con un bel sorriso incuriosito e/o divertito sulle labbra.
 
SCHEDA
Il Grande Libro dei Misteri Irrisolti
Autori: Colin e Damon Wilson
Editore: Newton Compton Editori
Edizione: 2012, pagine 670
Codice ISBN: 978-88-541-3754-7
       
a cura di Stefano Milighetti
     

L'amore ai tempi dell'apocalisse - Edizioni Galaad

La redazione GHoST segnala L'amore ai tempi dell'apocalisse, antologia di ventidue racconti da un futuro prossimo edita da Galaad Edizioni e curata di Paolo Zardi.
La fine del mondo è vicina: lo è sempre stata, a dar retta ai catastrofisti della prima e dell’ultima ora. Per qualcuno, forse, è già arrivata, perfino passata, trascinando via con sé i peccati e lavando le coscienze. Per altri è adesso, l’ora di questo tempo frastornato, vile, dove bussole impazzite indicano una rotta inesistente e i fiumi sembrano a un passo dallo scorrere al contrario. Ventidue autori hanno provato a raccontare, sullo sfondo di questi scenari apocalittici, l’essenza di un sentimento che sopravvive nonostante tutto, l’amore, declinandolo in storie tenere e folli, malinconiche e sensuali. Che fiorisca in un quartiere a luci rosse o in un desolato mondo lontano, che si consumi tra umani, entità aliene o macchine, l’amore appare come l’unico potente legame in grado di ancorarci alla nostra vera natura. Tra muri che crollano e certezze che si sbriciolano al doppio sole di universi paralleli, questi racconti da un futuro prossimo ripropongono il vecchio leitmotiv di Eros e Thanatos, quell’infinito ed eterno abbraccio tra amore e morte capace di farsi beffe di qualunque apocalisse.
Hanno partecipato all’antologia:
Francesca Bonafini, Denise Bresci, Simona Castiglione, Piergiuseppe Cavalli, Francesco Coscioni, Federica De Paolis, Caterina Falconi, Dario Falconi, Valentina Ferri, Emanuele Kraushaar, Roberta Lepri, Nicola Manuppelli, Matteo Moscarda, Nicola Pezzoli, Marco Piazza, Ugo Polli, Michele Ruol, Marina Sangiorgi, Ilaria Vajngerl, Carlo Vanin, Silvia Zagolin e Paolo Zardi.
L'amore ai tempi dell'apocalisse, Anno: 2015, pagine: 300, Editore: Galaad Edizioni.
    

Ritratto in rosso di Bert I. Gordon

Nel 1989 Bert I. Gordon realizza un film che seppur modesto perlomeno si rende guardabile visto il pubblico di riferimento a cui è destinato e cioè quello televisivo.
Satan's Princess titolo originale e più azzeccato del discutibile titolo italiano, rimane un mix calibrato di tensione, sesso e sangue senza particolari eccessi.
La storia narra la vicenda di un poliziotto in pensione che è perseguitato da un'antica maledizione mentre indaga sulla sparizione di una ragazza che si presume affiliata ad una setta dedita alla magia nera.
Nonostante i personaggi stereotipati e la sceneggiatura lineare e senza fronzoli di Stephen Katz non ci si annoia merito anche di una regia corretta e senza sbavature che riesce ad imprimere alla pellicola un'atmosfera continuamente minacciosa.
Finale che scade nel trash con il look della strega che ricorda non poco quello del killer alieno di Predator di John McTiernan (1987) e che penalizza un po' la conclusione di un prodotto senza infamia e senza lode.
   
a cura di Andy Effendi
    

La leggenda della Giubiana - Edizioni Il Ciliegio

La redazione GHoST segnala l'uscita, nella collana Le mie prime letture, pubblicato dalle Edizioni Il Ciliegio, una nuova versione, che racconta appunto La leggenda della Giubiana. A scriverla e a illustrarla ci ha pensato Chiara Civati che è un’autrice e un’illustratrice di libri per l’infanzia. Chiara Civati vive e lavora a Montorfano, in provincia di Como. Per la Brianza, regione che unisce appunto le provincie di Como, Lecco e Monza, la festa delle Giubiana è un’antica tradizione contadina ancora viva e celebrata. Sono tante le storie che ammantano di mistero la vicenda di questa strega e del perché, in suo onore, si cucina il risotto con la luganega, la Civati non si scosta dalla tradizione popolare pur riuscendo a essere originale.
Un agile libricino che, attraverso l’intreccio di un testo scorrevolissimo con dei giochi finali ammantati di colore e divertimento, rispolvera il ricordo di storie passate ed esorcizza la paura dell’ignoto e delle creature misteriose, evidenziando come la furbizia e il coraggio possano aiutare a sconfiggere anche il male più oscuro.
Nei boschi dell’Italia settentrionale, viveva una strega chiamata Giubiana. Cattiva a più non posso e sempre pronta a proiettare i suoi scherzi contro chiunque incrociasse lungo il cammino, si nutriva di bambini. Fino a quando, un giorno di gennaio, mentre era alla ricerca di cibo, si ritrovò davanti alla finestra di una casetta. Qui, in una stanza illuminata, stavano una mamma e il suo bambino.
La strega, felicissima per quella visione, pregustava con ansia il momento in cui avrebbe agguantato il piccolo. Ma la sua si rivelò una vana speranza. La mamma, infatti, era assai astuta e avendo visto la Giubiana dalla finestra, per riuscire a sconfiggerla pensò di attirarla in un tranello.
Dopo aver portato il figlio “nella stanza accanto”, cominciò a cucinare un buonissimo risotto con la salsiccia, sicura che la strega ne sarebbe stata attratta. E così fu. La Giubiana, affamata, prese a mangiarlo e quanto più mangiava tanto più diventava incapace di fermarsi.
Era così presa da quella pietanza che dimenticò l’avvento dell’alba e quando i primi raggi di sole apparirono all’orizzonte, scomparve, uccisa dalla luce. Ancora oggi, in alcuni borghi, si festeggia la sua sconfitta, bruciando un fantoccio che ne ha le sembianze e mangiando il risotto che l’ha vinta, come auspicio di prosperità e serenità per il nuovo anno.
La leggenda della Giubiana, Anno: 2015, pagine: 36, Codice ISBN: 978-88-6771-243-4,
Collana: Le prime letture, Editore: Il Ciliegio Edizioni.