L’anello del toro, l’anello di pesante ferro incastonato nei grandi blocchi di pietra, era per me il centro dell’incanto. Da quello si irraggiava tutto il resto: perfino l’aia, trasformata in un giardino murato, era solo un’ambientazione per questa cosa favolosa. I miei ricordi hanno la qualità selettiva dell’età della fanciullezza e vedo, sempre sotto il sole splendente, due lati dell’aia. Cè un’alta scogliera bianca, la casa, e ad angolo retto rispetto ad essa il secondo lato, il lato importante. Qui vedo due stalle abbandonate, e in mezzo a queste uno spazio, una terrazza di mattoni rossi, dove è stato abbattuto un terzo capanno. Piastrelle dai colori tenui, piegate l’una sull’altra, fanno da tettoie alle stalle. Sul pavimento della terrazza i mattoni sono sottili e vecchi, spinti giù dal peso del bestiame. Un enorme muro si trova sul retro della terrazza. È costruito con blocchi di pietra arenaria del posto e contro di esso un albero di fico sfrega le sue verdi mani dolcemente al di sopra dei mattoni. Da qualche parte, sotto i rami, c’è un anello.
Solo la faccenda della pertosse avrebbe potuto convincere i miei genitori a prendere in affitto la fattoria per l’estate. Loro erano amanti dell’ordine e odiavano i cambiamenti e di solito andavamo al mare per un mese. Deve essere stata, pertanto, una grave malattia che li ha esiliati per tre mesi dalla città. Penso anche che a loro sia stata offerta la casa a un affitto basso, perché mio padre era un avvocato con, ancora, poca esperienza. Veniva a trovarci quando poteva durante quell’estate, prendendo scossoni dentro un calesse dalle ruote di ferro dalla stazione al vialetto di pietra. La casa era a una cinquantina di chilometri da Londra, ma questo è tutto quello che so, perché i miei genitori sono entrambi morti e, come persona di mezza età, non riesco a ricordare il villaggio o la contea, che si tratti del Kent o del Sussex. Mi è sempre sembrato un posto fuori del tempo, che ebbe vita solo in quell’estate e non oltre.Non c’è da stupirsi, quindi, che la prima notte in cui abbiamo dormito là io fossi irrequieto, un bambino londinese un po ‘spaventato e strano sotto gli spessi strati del silenzio. La mia stanza si affacciava a sud verso l’aia, come pure la stanza dei miei genitori vicinissima lungo il corridoio, perciò la mia paura era mescolata a un confortante senso di sicurezza. Mi svegliai una o due volte nella notte e udii la voce sottile di un gufo. Molto più tardi mi svegliai di nuovo. Stavolta mi misi a sedere perché pensavo di aver sentito, vagamente distante, il rumore e lo scivolone di zoccoli duri sui mattoni, come se fosse il movimento inquieto di qualche animale. L’ho sentito con un brivido piacevole, mezzo impaurito, mezzo eccitato, ma non sembrava così straordinario da quando ero in una fattoria. Al mattino, mentre guardavo fuori le stalle abbandonate e la terrazza di mattoni, il sole che brillava su un giardino trascurato, sulle rose aggrovigliate e su un albero di gelso, il rumore mi sembrò meno probabile, ma non particolarmente inquietante.
Comunque, menzionai la cosa ai miei genitori durante la giornata. Stavano bevendo il caffè sulla terrazza di mattoni e io stavo in piedi, vicino, tastando l’anello.
Avrebbero potuto i miei genitori scambiarsi un’occhiata? Certamente mia madre avrebbe guardato mio padre – era sempre sotto i suoi incantesimi – prima di rispondere con leggerezza: “Devi aver sognato”.
Fu in quella occasione, ne sono sicuro, che mio padre si alzò dalla sedia e venne da me vicino al muro. Voleva distogliere la mia attenzione, o stava concedendosi alla sua passione di una vita, quella di dare informazioni? Non lo so adesso, ma lasciai cadere l’anello e corsi verso di lui quando chiese:
“Hai visto questo muro, questi blocchi di pietra? Dai un’occhiata, sono pieni di cavità a nido d’ape. È tutto quanto di pietra arenaria e se osservi vedrai piccole vespe striate entrarvi e uscirvi. No, non pungono”.
Quasi sicuramente il vecchio muro, qua e là e da un’estremità all’altra, era bucherellato come un traforo con le minuscole scavature. Mentre guardavo, una piccolissima vespa lucente uscì da un buco e provocò una caduta di sabbia; in ognuno dei buchi vidi una larva, immobile e piuttosto sinistra.
“È andata avanti così per anni e anni”, disse mio padre. “I blocchi sono quasi consumati”. Si volse a mia madre. “Un giorno l’intero muro cadrà. Tutto è decrepito qui, all’infuori della casa; è oltre ogni possibilità di recupero. Peccato che abbia cessato di essere una fattoria”.
Peccato che abbia cessato di essere una fattoria, eccetto per noi e per la nostra felicità. Noi l’amammo, la libertà, io e mia madre, l’aria risplendente di montagna, la quiete e la pace assoluta quando mio padre si trovava a Londra. Allora convalescente, tossivo e urlavo dall’eccitazione per i grandi giardini abbandonati; andavamo talvolta al mare con il calesse, talvolta a fare un picnic oltre i nostri campi su terreni di felci e al limitare di una macchia. Divenni meno sottile e più affamato. Dormivo, proprio come fa un bambino, così placidamente, che non ero disturbato da alcuna paura durante la notte. Talvolta mi sembrava di sentire, sotto il velo del sonno, una agitazione proveniente dal giardino murato, forse un verso attutito, come di bestia che muggisce nell’alba nebbiosa. Ma udivo pure l’insistente latrato, dal bosco, di una volpe maschio, i richiami dei picchi alle prime luci: tutti questi brandelli di suoni si fondevano e svanivano nel mio risveglio tranquillo. Adesso tutto era nella fotografia della casa nata da una fattoria, come parte della vita di campagna.
“Ti piace stare qui? Suppongo che lasci Londra temporaneamente”.
Dissi “Sì, ovviamente”, e dopo un’altra pausa gli chiesi dove vivesse.
“Laggiù”, disse, facendo cenno con la testa verso la casa dell’essiccatoio del luppolo. “È là che ho vissuto tutta la mia vita. Non riesci a vederle, ma là ci sono delle casette intorno alla fattoria. Lavoravo qui quando questo posto era una vera e propria fattoria”. E cominciò a fare un risolino e anch’io risi per simpatia finché un attacco di tosse convulsa interruppe tutto.
Poi portò la testa da un lato e disse pacatamente, quasi fra sé e sé: “Come sta il vecchio toro?”.
Adesso riesco a vedermi, in ginocchio su un tappetino sull’erba, i miei giocattoli sparpagliati in giro intorno a me. Non guardai in su o non interruppi il mio gioco, ma risposi ugualmente tranquillo:
“Di notte è rumoroso”.
Il vecchio mi guardò come se mi riconoscesse per la prima volta e disse:
“Suppongo che lo è. È sempre irrequieto, quel toro”.
Poi gli posi la domanda che era stata fissa nella mia mente, sepolta sotto i giorni splendidi, fluenti, ma pressante ogni volta che guardavo la terrazza.
“Viveva qui? Era incatenato a quell’anello nell’aia?”.
“La maggior parte dell’anno. Non usciva molto. Sì, stava in quella stalla, la maggior parte dell’anno. Aveva un tetto e pareti allora, e non poteva vedere molto. Spalavo via il letame, quando ero un ragazzino, fuori sul letamaio. Quindi l’avete sentito?”
“E allora dov’è?”.
“Dov’è? Morto. Sessanta, settant’anni fa. Alla fine lo uccisero con una fucilata”.
“Sì, perchè lui uccise qualcuno. Un giorno era uscito fuori e aveva incornato il mandriano nel cumulo del letame. Lo trafisse e quello morì in ospedale. Nessuno poteva mandar via quel toro. E neppure afferrarlo. Così presero un fucile e gli spararono, tre volte”.
Gli chiesi qual era il suo nome? Oppure il vecchio continuò, senza avermelo detto, i suoi occhi volti indietro sessanta, settanta anni fa a quella scena nella fattoria quando era un ragazzo?
“Lo chiamavano il Diavolo Nero. Era di razza frisona, quasi tutto nero. Una bellezza, ma irrequieto, mai fermo, sempre a tirare, a brontolare e a sferragliare. Ne avevo paura; avevo paura del bianco dei suoi occhi e del modo in cui ti guardava di traverso mentre lavoravi. Ma avevo il forcone quel giorno per portar fuori il letame e pensavo di tenerlo dentro”.
“Come è riuscito a andar fuori?”, chiesi. “Non era completamente incatenato?”.
Mi guardò con il suo sguardo luminoso e acuto, dicendo:
“Nessuno è riuscito a dire come. Nessuno lo ha mai saputo. La sua catena si è in qualche modo sciolta. Tentai con il mio forcone di tenerlo dentro la stalla, ma schizzò fuori. Balzò di fuori e poi rimase là guatando e borbottando al sole, finché vide il mandriano. Gli fu sopra e le sue corna sotto di lui in un lampo. Odiava quell’uomo e dissimulava la sua occasione per ucciderlo”. Troncandola lì, mi disse:
“Così l’hai sentito?”.
“Durante la notte , sì”.
“Giusto. Non può uscire, in qualche modo. Sta ancora tentando di scappar via”.
Ricordo di non avere riferito questa conversazione ai miei genitori. Scoprii che il vecchio era considerato labile di mente, inoffensivo, la cui sanità mentale aveva ceduto gradualmente con l’età; e io lo volevo come amico. Era abbastanza sano di mente per me quando era in grado di raccontarmi così tanto del toro, anche se non era molto bravo a parlare di altri argomenti. La sua lingua ha perso la sua affilatura; era vago e le sue frasi, più spesso che non, si perdevano in risatine sotto i baffi.
Lo persi di vista mentre la luna scivolava dietro le nuvole spazzate via dal vento.
Poi mi trovai a letto i piedi ghiacciati, il cuore che batteva sotto il cuscino così rumorosamente che mi era impossibile addormentarmi. Ogni tanto il vento si schiantava in un crescendo contro le porte e le finestre, come un assalto diretto alla casa.
Deve essere stato molto più tardi quando udii un rombo. Era leggero, come un treno lontano, come una piccola frana che si abbatte e che cade. Al di sopra di esso, e come se attraverso di esso, si sentiva un confuso correre precipitoso, un calpestio smorzato di zoccoli fessi che giravano nel vortice della burrasca e si attutivano in esso, man mano più lontano. In quel momento ero ormai troppo spaventato per muovermi, congelato nel mio letto. Non sentii aprirsi la porta e mia madre che entrava.
Si avvicinò al mio letto e mi circondò con un braccio.
“Stai tremando”, disse, “sei spaventato”. E poi, per rassicurare se stessa: “È solo il muro”.
Entrambi eravamo ancora in ascolto.
Il vento si era calmato; e nel non completo silenzio arrivò il rumore di uno sbuffo di respiro, un sospiro prolungato che si perse nel vento e si dissolse. Mi misi la faccia tra le mani e pensai che il mio cuore si sarebbe spezzato. Allora era oltre la mia comprensione, mi ci sono voluti quasi mezzo secolo per capire, questo presagio di cose venture, questa eco di sofferenze lontane: l’eterno grido di libertà.
Un altro giorno arrivò e l’aria era affilata come diamanti, c’erano moscerini danzanti al di sopra dei serbatoi straboccanti dell’acqua piovana, e raggi di sole colpivano gli alberi rosseggianti.
Gli usignoli erano immersi nel loro canto autunnale. Come si potrebbe resistere a questo splendore? Anche dopo una notte così eravamo tutti giù di morale e uscimmo fuori presto, sul terreno umido e sotto gli alberi gocciolanti, per vedere il muro. Solo metà era giù, i grandi blocchi giallo-bianchi sparsi sulla terrazza in un caos di sabbia e cemento e ramoscelli spezzati. L’altra metà era adagiata contro il fico; blocchi di pietra appoggiati ai rami o inclinati in giù tra le foglie.
Ma l’anello del toro, il grande anello di ferro si trovava sulla terrazza di mattoni rossi, scagliato lontano dal muro, il suo gancio inarcato pazzamente in aria. Accanto a esso giaceva il blocco di pietra cui era fissato il gancio, ed era diviso di netto in due.
Più tardi mi allontanai dai miei genitori e passai arrampicandomi dall’altra parte del muro, sul vecchio sentiero delle rose, per vedere come appariva da lì. I fichi erano caduti, schiacciati nell’erba bagnata; c’erano vespe e mosche che vi ronzavano sopra. Mentre mi aggiravo tra le pietre udii mio padre parlare con qualcuno.
La sua voce era scherzosa, sulla linea tra la boria e l’impazienza, e allora mi resi conto che anche lui, innegabilmente, aveva udito molte volte la storia del toro.
“Quindi il vecchio toro se l’è filata alla fine”, disse.
C’era l’altra voce, quella del vecchio uomo di corte, che balbettava tremolante qualcosa che non sentivo, e rideva mentre parlava; e di nuovo mio padre, irritato:
“Cosa ha detto quello? Che assurdità sta dicendo?”.
Poi mia madre, conciliante, per metà gentile e per metà divertita: “Dice che è stato lui a sciogliere la catena, settant’anni fa”.
NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. Apparso nel 1955 “The bull”, tradotto in francese, spagnolo e pubblicato per la prima volta in italiano su Planet Ghost.