Community Zero di Emiliano Maramonte

«Dev’esserci un modo» dice Elena, senza staccare gli occhi dalla community delle macchine. Resta sempre a fissarla a lungo prima di tornare al monitoraggio quotidiano del flusso del codice. La sua ossessione ormai è penetrare quel mistero cibernetico che attanaglia l’umanità. E io pendo dalla sua saggezza, dal suo enorme talento.

«Qualche variazione oggi?» mi chiede, senza distogliere lo sguardo accigliato. È un quesito che mi coglie di sorpresa, conosce benissimo i report giornalieri delle analisi.

«Nessuna variazione» rispondo. Negli ultimi tempi il codice macchina è costante, compiuto. Non fluttua, non presenta deviazioni significative.
«Okay, grazie» conclude e si volta, come se finalmente avesse spezzato il legame invisibile con la perfetta mostruosità asserragliata là fuori. Esce dalla bolla d’osservazione col suo solito passo rigido e sicuro e se ne torna all’Istituto.
Mi soffermo anch’io sul panorama oltre i vetri rinforzati. Una severa nuvolosità incombe su quell’intrico di travi cromate e propaggini avvolte in un manto di fibre ottiche. Non finisce mai di inquietarmi, e ogni volta è come la prima. Il movimento di uomini e mezzi attorno alla community è incessante. I militari sembrano soldatini di piombo piazzati alla rinfusa da un bambino annoiato. Le barriere protettive di cemento non riescono a dissuadere le frotte di curiosi che cercano in ogni modo di sbirciare attraverso le crepe o di scattarsi selfie come possono.
Un’occhiata al mio Swatch blu e mi accorgo che s’è fatto tardi.
Rientro in ufficio per recuperare la borsa con i documenti, passo davanti alla porta di quello di Elena, provo a origliare. Non dovrei farlo, ma…
Silenzio. Come sempre. Che cosa sta facendo? Medita? Studia? Dorme? Non mi è dato saperlo. Lei è morbosamente attaccata alla sua riservatezza. Ora però… sta singhiozzando. Perché?
Non sono affari miei. Mi allontano imbarazzato, ma quell’evento inatteso mi ha scosso e rattristato. Sono stanco, lascio l’Istituto.
Come ogni sera Amalia è affaccendata con l’igiene personale di mamma, che saluto con un bacio sulla fronte. Di solito mi sorride, più spesso biascica nomi diversi dal mio. Quando il suo sguardo si fa assente, capisco che il morbo ha serrato il pugno su di lei, così me ne vado. Detesto riempirmi le narici dell’odore di detergente e medicinali che riempie la stanza. Sono fortunato ad aver conosciuto Amalia: la sua incrollabile dedizione mi aiuta a distogliermi dal lungo declino di mia madre.
Ceno con il solito panino vegetariano e mi rintano in camera. Prima il dovere, poi il piacere. La tentazione di immergermi in una partita a Pitfall o a Pac-man è fortissima ma l’enigma delle macchine non può aspettare. Mi getto a capofitto sulle telemetrie degli ultimi cinque giorni, alla ricerca di schemi o anomalie. Gli occhi mi bruciano per la stanchezza. In quel momento le note di Don’t You dei Simple Minds si spandono dall’iGlass; è Dennis che mi chiama per una birra al pub. Mi nego agli amici da più di due mesi. Mi stupisce che provino ancora a contattarmi. Rinuncio anche questa volta e proseguo.
Da un anno le macchine comunicano tra loro attraverso un protocollo wireless sconosciuto. Per il momento è stato impossibile decifrarlo, però riusciamo ancora a scomporre il flusso dati in codice Prolog. Questo significa dover registrare una gigantesca mole quotidiana di dati per poi ricompilarla in schemi coerenti che possiamo interpretare.
Perché da una settimana il codice è piatto? Ciò è preoccupante. Le macchine si autoprogrammano e si replicano assai velocemente… La quiete prima della tempesta?
Le colonne di blocchi esadecimali mi scorrono davanti, ipnotizzandomi. Sono alla ricerca di un frammento che sembra ripetersi. Non ho ancora parlato a Elena dell’ipotesi che mi si è affacciata alla mente, anche se è solo un’idea rudimentale, per ora. Sono davvero esausto, non ce la farei neanche a concludere una partita ad Asteroids. Resto altri cinque minuti, magari la fortuna mi assiste. Si tratta di un comando di sincronizzazione dei dati indirizzato alle singole periferiche del grande complesso autoreplicante. Se quel comando appare in un’iterazione più ampia, allora sono a cavallo. Devo scoprire se ogni community opera da sola o è parte di un’infrastruttura più vasta in fase di espansione. Questo aiuterebbe tutti i ricercatori del mondo a definire meglio l’architettura delle community per contrastarle e fermarne l’avanzata.
Le palpebre mi diventano pesanti. Forse è meglio fermarsi qui stasera. Continuare non porterebbe a nulla. Tolgo l’iGlass e corro a nanna.
Il risveglio è brusco. Un brutto presentimento si è impadronito dei miei sogni. È marzo e fa abbastanza freddo per il periodo, eppure sono zuppo di sudore. La penombra della stanza mi è sufficiente per arrivare in bagno. Mamma lancia delle urla; di solito a quest’ora del mattino ha una crisi di nervi. Mi getto acqua fredda in faccia, orino e la ignoro. Voglio dormire ancora, ma qualcosa mi spinge a riaccendere i digiocchiali. Sono le 6.12 del mattino, è l’alba. Arrivano due messaggi di Elena.

4:37
Violato Von Neumann

5:12
Maledizione rispondi

Le gambe mi diventano molli, soprattutto per il primo messaggio. Le macchine hanno violato il Paradigma di Von Neumann. Siamo nei guai. Mentre mi infilo goffamente i pantaloni chiamo Elena, ma è irraggiungibile. Provo con Patrizio, che mi risponde subito: «Lorenzo, finalmente. Qui è scoppiato un casino.»
Sul momento le parole mi s’incastrano in gola, poi riesco ad articolare una domanda. «Che sta succedendo?»
«La dottoressa Fabbri è al sito della community da più di un’ora» risponde Patrizio. «Abbiamo cercato di farla ragionare, ma sta per compiere una pazzia.»
«Che diavolo vuole fare?»
«Ha preso una UMC senza autorizzazione e…»
Dio santo, no! L’Unità Mobile di Connessione! Vuole suicidarsi, questo è sicuro. Devo andare da lei e fermarla. Mi metto un maglione e il giaccone, poi corro in cucina, dove fa capolino il caschetto biondo di Amalia. Sorseggia un caffè, in attesa di lavare mamma. Bevo un bicchiere d’acqua, la saluto e mi precipito in strada.
Disinserisco la guida assistita e attraverso i viali di Pisa, combattendo col solito, stramaledetto traffico. Ho il terrore di non arrivare in tempo. Finalmente la situazione si sblocca e affondo il piede sull’acceleratore, sbandando alla rotonda che dà accesso alla Superstrada. Col cuore in gola, arrivo a Gello e svolto per viale America. Parcheggio nei pressi della barriera di cemento, non lontano da un cellulare dei carabinieri, e scendo di corsa dalla macchina. La confusione attorno al sito della community è pazzesca. Due soldati in assetto da battaglia mi puntano un fucile contro prima di accertarsi della mia identità. Tiro fuori il tesserino dell’IIT e uno di loro mi fa passare, dopo averlo esaminato più del necessario. Entro nella bolla d’osservazione, ma Elena non c’è. Invece, addossati al vetro, trovo il direttore e Patrizio. All’improvviso Benedetti si gira e mi fissa in cagnesco. È scuro in volto, viene verso di me, non l’ho mai visto così infuriato. «Non ha voluto ascoltarmi» sbotta, allargando le braccia. «È impazzita.» Non so cosa dire, devo ancora rendermi conto della situazione. Mi accosto ai vetri e inorridisco quando scopro che Elena è là fuori. Indossa la tuta e il visore e fronteggia la massa metallica come un novello Davide contro un Golia cibernetico. Attorno a lei, una pattuglia di militari ha le armi spianate pronta a ogni evenienza.
Senza pensarci, mi lancio fuori dalla bolla e imbocco il tunnel che conduce allo slargo circondato dalla barriera di cemento. Il contrasto di temperatura tra interno ed esterno mi schiaffeggia la faccia. Tiro un profondo respiro. I soldati si voltano allarmati dalla mia parte. Due di loro puntano i fucili verso di me. Lei è a una ventina di metri, a pochi passi dalle prime propaggini meccaniche, e mi volta le spalle. Con le braccia disegna figure casuali nell’aria, come se stesse preparandosi a una danza propiziatoria. È la prima volta che qualcuno utilizza una UMC davanti ai miei occhi. Da quello che mi hanno riferito, il corpo dell’operatore dell’Unità riceve una marea di stimoli sensoriali capace di schiacciare la coscienza, se non opportunamente imbrigliata. E infatti, a momenti Elena barcolla, poi si riprende e ricomincia la danza. Mi avvicino con prudenza e la chiamo, ma lei non mi sente. La tuta e il visore la isolano e la connettono direttamente agli hot spot delle macchine. La notizia del brusco salto evolutivo deve averla sconvolta e indotta a compiere un esperimento folle. Percorro un paio di metri verso di lei e un militare coi nervi a fiori di pelle alza il fucile contro di me. «Fermo dove sei!» Tengo le mani ben in vista. «Sono l’assistente della dottoressa Fabbri. Non voglio causare problemi. Sono venuto per portarla via.» Il militare è interdetto, nervoso, ma mi fa passare, così come gli altri del plotone.
Ormai posso quasi toccarla. «Dottoressa.» Continua a ignorarmi, persa com’è nel bombardamento della realtà aumentata. Chissà dov’è la sua mente adesso. Chissà come soffre. Le tocco una spalla: Elena traccia di fronte a sé con l’indice due linee veloci poi finalmente si volta. Dietro il visore i suoi occhi sono strabuzzati e lacrimano. Ha la bocca socchiusa in un smorfia di stupore soffocato, dal labbro inferiore pende un filamento di saliva.
Temo per la sua vita. Prego Dio che non sia accaduto l’irreparabile. «Dottoressa, venga con me.» Le tendo la mano, mentre mi sale un groppo in gola. All’improvviso alza gli occhi verso un punto imprecisato del visore e comincia a tremare. Lancia un urlo, sta per svenire. Mi slancio per sorreggerla e lei si abbandona tra le mie braccia.
«Soccorso!» grido a pieni polmoni. Quattro militari si avvicinano e mi aiutano a sostenerla. Le sfilo il visore e le scosto i capelli dalle palpebre serrate. Il suo volto è preda di un tormentato stordimento; respira con affanno e mugola suoni incomprensibili. Dopo qualche minuto arriva un’unità medica. Il dottore, assieme a un robusto infermiere, esegue una rapida diagnosi delle condizioni di Elena poi chiede ai militari un aiuto per adagiarla su una barella.
La portano via. Voglio piangere, ma trattengo le lacrime. Non intendo restare un minuto di più in presenza di quelle maledette macchine, così, senza voltarmi, mi allontano a passo svelto.
All’ingresso del tunnel incontro il direttore, accigliato e intento a mordicchiarsi le unghie. Ci scambiamo uno sguardo carico d’angoscia. «Dove la portano?» gli chiedo.
«Al Cisanello» risponde lui con un filo di voce. «L’avevo avvertita. Non sono riuscito a fermarla.»
Vado via lasciandolo al suo senso di colpa e decido di raggiungere Elena.
Nei pressi dell’ospedale c’è un insolito viavai di automobili. M’invento un parcheggio di fortuna e mi affretto all’accettazione del Pronto Soccorso. Gli infermieri e i medici sono tutti occupati con le emergenze e ci sono tanti pazienti intorno a me che ancora aspettano che qualcuno dia loro retta.
Non so a chi rivolgermi. Sono sull’orlo della disperazione. Tento l’ultima carta. Individuo un soccorritore affaccendato con le attrezzature dell’ambulanza, forse è stato lui a portare la barella all’interno. È un uomo esile dai lineamenti duri, enfatizzati da una barba folta e corvina. Nonostante la temperatura non proprio primaverile, la sua divisa è a mezze maniche.
«Scusi…» faccio per attirare la sua attenzione.
Si gira e mi guarda come se un cane gli stesse pisciando sulle scarpe. «Prego.»
«Sto cercando, la dottoressa…» All’improvviso i pensieri s’ingarbugliano e le parole s’inceppano. «Ehm… Cerco Elena Fabbri, ricercatrice dell’Istituto… mmm… C’è stata un’emergenza alla community delle macchine…»
«Neurologia» mi risponde in modo spiccio, poi mi dà le spalle e comincia ad arrotolare il tubicino di un respiratore.
Mi si gela il sangue nelle vene. I ricordi di papà mi assalgono come un fantasma riapparso in una casa abbandonata. Percorrere di nuovo quei corridoi e quei reparti m’irrigidisce i muscoli, mi stringe lo stomaco, ma devo andare.
L’edificio non è molto lontano dal Pronto Soccorso. Seguo le indicazioni e, giunto nei pressi dell’ingresso della corsia, un infermiere tarchiato e brizzolato mi ferma. «Chi è lei, mi perdoni?»
Deglutisco saliva amara. «Sono l’assistente della dottoressa Elena Fabbri, so che è stata portata qui.»
«Mi dispiace, nessuna visita per ora.» L’uomo è fastidiosamente categorico. «Uno specialista la sta visitando. Torni più tardi, grazie.»
«Ma io…»
«Dalle 18 in poi potrà venire a trovarla, se ci daranno l’autorizzazione per le visite. Arrivederci.» Dopo avermi congedato, sparisce in una stanza della corsia.
Mi guardo intorno, mi sembra di essere stato abbandonato in un deserto. Come sta Elena? È grave? Si riprenderà? Cosa le stanno facendo?
Esco dall’edificio, recupero l’auto e mestamente prendo la strada di casa.
Apro il portone e già sento mamma che urla parole confuse. Mi affaccio in camera da letto. Amalia sta cercando di darle il suo Lexotan. Mamma si ribella, poi all’improvviso mi nota, si sforza di riconoscermi e mugola qualcosa. Amalia mi vede, mi saluta. «Lorenzo, ciao! Com’è andata oggi?»
Fisso il pavimento tirato a lucido; come rispondo? «Uno schifo.»
«Mi dispiace» si rammarica lei. Poi sorride. «Sai che Anna mi ha raccontato di quella volta che avete fatto un giro in barca al Lago di Como?»
Che palle quella storia. Non mi entusiasma per niente. «Bene. Facciamo progressi.» E non aggiungo altro. Mi rintano nella mia stanza. Non ho fame. Mi coglie l’impulso di riguardare gli appunti sulle strutture di Von Neumann ma non li trovo da nessuna parte. Ho perso giorni di lavoro. ‘Fanculo. Mi sdraio cinque minuti sul letto, mi sento uno straccio. Ho il cervello in subbuglio per il tormento dell’ansia.
Mi sveglio di soprassalto. Sono crollato senza rendermene conto. Quanto ho dormito? La sveglia sul comodino segna le 18.15. Dannazione, sono in ritardo. Non perdo tempo: mi rimetto il giaccone e mi tuffo nel traffico.
Le strade sono intasate. Il sole è tramontato già da un po’, la luce azzurrina degli smartLed accarezza le strade col suo tocco variabile. Con un primo giro del parcheggio non trovo mezza piazzola libera. Al secondo giro, una Toyota bianca fa retromarcia e io ne approfitto. Scendo e accelero il passo. Spero di arrivare prima che chiudano le corsie ai visitatori, ma soprattutto mi auguro con tutto me stesso di rivedere Elena.
Sono quasi le 19. Chiedo indicazioni a un’infermiera, percorro velocemente il lungo corridoio scansando capannelli vocianti di parenti e amici dei degenti. Stanza numero 32. Eccola. Mi fermo prima di entrare. Il cuore mi batte all’impazzata. Tiro un profondo respiro e varco la soglia. Un odore di disinfettante m’investe in pieno. Sbatto le palpebre come per scacciarlo poi individuo il letto con le lenzuola bianche. Elena ha gli occhi chiusi, riposa con una mascherina dell’ossigeno. Ha dei sondini alle braccia. Da una flebo quasi vuota, stillano gocce di un liquido biancastro. Mi avvicino in silenzio, come farebbe un pellegrino al cospetto di una reliquia sacra. C’è una sedia di plastica più in là, accostata a un tavolo di fòrmica marrone. Mi sistemo di fianco al letto. Accarezzo la mano sinistra di Elena. È fredda e liscia come la seta. Sono sollevato ma non ancora tranquillo.
Vorrei che si svegliasse e mi facesse un cenno… mi basterebbe un sorriso.
Apre gli occhi, si gira dalla mia parte. Ci mette un po’ a riconoscermi. Prova a muovere le labbra ma è visibilmente provata. Scuoto la testa per farle capire che non deve sforzarsi. Il sibilo del respiratore aumenta mentre lei inspira altro ossigeno dalla riserva. Sfila la mano dalle mie, con l’indice si abbassa la mascherina.
«No, ma cosa fa?» mi allarmo.
«Non ti preoccupare» riesce a dire, con affanno. Fa dei lunghi respiri come per testare la tenuta dei polmoni, poi mi guarda di nuovo.
«Dottoressa, come si sente?» le domando preoccupato.
«Ho avuto giorni migliori» risponde e sorride.
«Mi ha fatto prendere un bello spavento» la rimprovero. «Temevo davvero che fosse successo qualcosa di…»
«Non importa» minimizza lei. «Sono viva. E per una volta, al diavolo le formalità! Chiamami Elena e dammi del tu.»
Se solo sapesse che dentro di me l’ho sempre fatto! Sono imbarazzato. È la prima volta che mi concede questa libertà. Sembra una persona diversa. Il lato ombroso del suo carattere si è dissolto dopo la connessione con le macchine.
«Ti ringrazio per la visita» continua, dopo una breve pausa.
«Si figu… Figurati. Ero in ansia e non me la sentivo di restare a casa.»
«Chissà la faccia di Benedetti» dice ed emette un suono a metà tra una risata e un colpo di tosse.
«A dire il vero, era preoccupato anche lui» la informo. Ometto il particolare del senso di colpa. «Ma che è successo al sito della community?»
Cerca il mio braccio e fa forza per tirarsi a sedere in una posizione più comoda. «Ero stufa di rincorrere cifre nell’attesa che le macchine facessero qualcosa di diverso, così, dopo il nuovo salto evolutivo, ho deciso di prendere il toro per le corna.»
«Hai corso dei rischi troppo grandi.»
«Vero. Ma la scienza non va forse avanti in questo modo? E poi sono stata illuminata dai tuoi appunti…»
Ecco dov’erano finiti.
«Sorpreso? Li ho trovati per terra, nei corridoi dell’Istituto. Sei stato bravo. Hai avuto un’intuizione geniale.»
Non so perché, ma il complimento non mi inorgoglisce per niente. «Che cos’hai scoperto?»
Sorride ancora, poi diventa pensierosa. «Il Paradigma di Von Neumann non è stato violato» rivela.
«Non capisco. In che senso?» Sono sbalordito dalle sue parole.
«Pensavo che la community avesse migliorato la sua programmazione assemblando nuovi replicanti più evoluti dei precedenti, come fa sempre, del resto. Mi aspettavo che le istruzioni venissero impartite dal nucleo centrale, e invece la potenza di calcolo è stata delocalizzata. Questo mi ha spiazzato.»
«Elena, dimmi cosa stanno facendo le community.»
Non mi risponde subito. Ha bisogno di riprendere forze e fiato. Resto in attesa di altre rivelazioni, il cuore mi batte di nuovo a mille.
«Le macchine hanno scoperto come ampliare la scala della loro programmazione» spiega. «Ogni community del mondo è diventata la periferica di un immenso nucleo di elaborazione nascosto da qualche parte sul pianeta. Io l’ho battezzata community zero, l’origine di tutto.»
Sono senza parole. Mi viene in mente almeno una dozzina di implicazioni terrificanti, tra queste uno scenario futuro apocalittico. «Cosa vogliono le community?» Non so nemmeno se è la domanda giusta.
«La perfezione, Lorenzo» risponde Elena, con una strana luce negli occhi. «Le community stanno facendo esattamente ciò per cui sono programmate: migliorano, progrediscono all’infinito. E non si fermano.» Appoggia la testa sul cuscino e scruta il soffitto, come se invisibili propaggini meccaniche fossero sospese a pochi metri da lei. «Siamo creature limitate. La connessione che ho instaurato con le macchine mi ha permesso di spiare attraverso il buco di una serratura. C’è qualcosa di enorme oltre la porta. Qualcosa di enorme. E noi non possiamo comprenderlo.»
Provo una fastidiosa vertigine mentale. Un vorticoso senso d’inquietudine mi sta trascinando via. Il suo volto si fa cupo, Elena torna a essere la persona ombrosa che ho conosciuto sin dal principio. Perché ho la sensazione che mi nasconda qualcosa?
«Devo tornare là dentro» dice all’improvviso. «E tu mi aiuterai.»
Sono spaventato da quelle parole. Provo l’impulso di alzarmi e lasciarla sola per un po’, eppure resto incollato alla sedia.
Elena stringe le palpebre come per sopprimere ondate di dolore giunte all’improvviso. «C’è un deposito negli scantinati dell’Istituto» dice, con un’espressione determinata. «Solo cinque membri sono autorizzati ad accedervi. Lì sotto è conservato un dispositivo di backup a trasmissione neurale. È un vecchio esperimento che è stato cancellato dal consiglio scientifico più per paura che per mancanza di fondi.»
Medita un’altra pazzia, stavolta peggiore della prima. Il mio compito adesso è dissuaderla e impedirle di ammazzarsi per davvero. Quell’apparecchio è solo una leggenda, a quanto ne so. «Ma il dispositivo è stato smantellato. Patrizio una volta mi ha detto che il progetto è stato chiuso perché un ricercatore è impazzito dopo un paio di minuti di trasmissione neurale» le suggerisco, sperando che si sia sbagliata.
«È tutto vero, invece. Ed è perfettamente funzionante» risponde, sicura di sé. «Stasera uscirò dall’ospedale ed effettuerò un trasferimento della mia mente nella community.»
Nella stanza irrompe un’infermiera dal volto rotondo e dai modi sbrigativi che indossa digiocchiali neri, di un modello che non ho mai visto. «L’ora delle visite è terminata. Parenti e amici sono pregati di lasciare la stanza.» Poi nota che la paziente non ha più la mascherina, si avvicina e con poco riguardo gliela risistema sulla faccia. «Non ci provi più» ammonisce, alzando un indice accusatore. Se ne va a passo lesto.
Elena parla attraverso la mascherina; forse le serviva riprendere un po’ di fiato. «Fra un’ora mi farò trovare nell’atrio. Non sarà facile passare inosservata, dopotutto sono una sorvegliata speciale, però fai in modo di esserci.»
«Non sono sicuro che sia una buona idea» obietto. «Anzi penso che sia pericoloso e stupido.»
«Devi aiutarmi, Lorenzo» insiste lei. «Quando questa vicenda sarà finita, capirai, ma credimi, è importante.»
Questa cosa va contro ogni etica professionale, contro il buonsenso. Se decido di aiutarla, le conseguenze saranno terribili. D’altro canto però lei è una scienziata eccezionale e da due anni è il mio faro; senza di lei non sarei dove sono.
«Ti prego» insiste lei. «Non te lo avrei mai chiesto se non fosse importante. So che ci tieni a me, l’ho sempre saputo. L’ho capito, sai?»
Mi sento avvampare il viso come un bambino scoperto a compiere una marachella. Sono così trasparente? Tengo gli occhi bassi e mi accorgo che c’è una parte di me che sarebbe pronta a sacrificarsi per la sua salvezza. Sono sul punto di rivelarle che detesto mia madre – odiosa anaffettiva! – e che vorrei che lo diventasse lei, ma mi mordo la lingua e scaccio dalla mente quel desiderio assurdo. Alla fine la guardo e nei suoi occhi stanchi leggo una supplica silenziosa.
«Ho paura» riesco a dire.
«Non sarà facile per nessuno» ribatte lei. «Ma credimi, c’è in gioco molto più di quanto immagini.»
La decisione mi costa tantissimo. Sto per lanciarmi per la prima volta con un paracadute in un precipizio nebbioso. «Va bene. Ti aiuterò.»
«Grazie» esulta Elena. «Ma adesso va’. Ci rivediamo tra un’ora.»
Mi affretto a lasciare l’ospedale. Approfitto per bere una Coca. Mi rintano in macchina per ascoltare un po’ di musica. Interrogo lo Swatch almeno un centinaio di volte, poi finalmente è il momento di tornare. Eccola, poco distante dall’atrio che mi fa dei cenni urgenti. Ha addosso un plaid azzurro per proteggersi dal freddo della sera. L’aiuto a salire in macchina. Metto in moto e parto a razzo.
Nell’abitacolo restiamo in silenzio. Forse non è il caso di aggiungere nulla. Sono teso e ho paura. Paura di farle del male, paura di fallire, paura di non essere all’altezza. Percorro tre volte l’anello di Piazza S. Silvestro e parcheggio su un marciapiede di fronte alla pineta. Aiuto Elena a scendere e ci dirigiamo all’Istituto. L’accesso al deposito si trova in un vicolo di Via degli Artigiani. Superiamo una sbarra chiusa e percorriamo un’altra decina di metri. Elena è sfinita, devo sostenerla spesso per impedirle di accasciarsi, ma è determinata a non mollare. Ecco l’ingresso dello scantinato. Elena si fa forza e accosta la faccia allo scanner retinico. Sul display compare la scritta verde ACCESSO CONSENTITO. La porta metallica si spalanca con un cigolio. Ci sono degli scalini, e li scendiamo con prudenza, uno alla volta. Tiro fuori dalla tasca del giaccone l’iGlass e attivo la torcia incorporata. L’ambiente, che sa di muffa e di stantio, è ingombro di scatoloni e oggetti coperti da cellophane incrostato di sporco. Il freddo mi penetra nelle ossa.
Elena annaspa in quel labirinto polveroso ripetendo: Dov’è… dov’è… dov’è… Mi fa cenno di illuminare una specifica area. Mi avvicino a lei. Noto una poltrona con attorno diversi macchinari e un’asta di un metro e mezzo con una striscia traslucida che pende dall’alto della sua estremità.
«Eccola» esclama Elena. «E ora, l’interruttore generale.» Si fa scivolare di dosso il plaid e si inoltra nella penombra. Subito dopo sento un clic. All’improvviso la sala viene inondata di luce. Elena torna verso la poltrona. I macchinari si animano con ronzii elettrici e ticchettii meccanici. Ci sono degli schermi che cominciano a visualizzare sfilze di cifre e grafici. Elena si accomoda sulla poltrona. Sembra posseduta da una frenesia incontrollabile. «Aiutami» mi ordina. Riluttante, imito i suoi movimenti e allontano la striscia dall’asta.
«Fai aderire la fascia neurale a quella porzione di velcro sullo schienale.»
Eseguo.
«Benissimo» si compiace. Poi alza la testa. «Ascoltami bene. Nel momento in cui attiverò la procedura, non potremo più tornare indietro. Non mi resta che rimodulare il protocollo di trasmissione per riaprire i vecchi canali a fibra ottica con la community. Qualunque cosa accada, voglio ringraziarti dal profondo del cuore per essere stato il mio assistente… Il migliore che io abbia mai avuto.»
Gli occhi mi si inumidiscono, il cuore mi si stringe. «Elena, questo non è un addio.»
Sorride, forse per l’ultima volta. «Non lo è.» Da un vano nel bracciolo estrae un visore e se lo calca sulla testa. Traccia con le mani strane figure nell’aria, poi si ferma. Sospira e digita brevi comandi su un tastierino luminoso che ha preso vita all’improvviso sull’altro bracciolo. «Pronti» decreta. «Tre, due, uno… Trasmissione.»
Il suo corpo si irrigidisce all’istante, come quello di un condannato a morte su una sedia elettrica. Micidiali convulsioni sconquassano braccia e gambe, mentre gli occhi roteano alla disperata ricerca di punti di riferimento. Dalla sua bocca erompono mugolii di sofferenza che, a tratti, diventano acuti. Sono terrorizzato. Pronuncio il suo nome, vorrei aiutarla, vorrei spegnere tutto e salvarla, ma sono pietrificato. Assisto sconvolto a quella tortura mortale.
Dai lati della bocca le colano rivoli di saliva. La lingua saetta più volte tra le labbra masticate dai denti. Tre minuti di orrenda sofferenza. Poi il supplizio finisce. Elena si affloscia senza più forze. Linee di sangue le solcano il mento. Mi fiondo su di lei, le controllo il polso, le accarezzo il viso, mi accerto che respiri ancora. Non c’è più, niente da fare. È morta.
Ogni particella del mio essere precipita nella disperazione. Piango come non ho mai fatto in tutta la mia vita. Sono perduto. Sono morto anch’io con lei. Mi allontano dalla poltrona, da quel maledetto macchinario che l’ha uccisa. E anche io l’ho uccisa, con la mia scellerata decisione! Mi lascio cadere su uno scatolone e piango piango piango, ancora e ancora, non so per quanto tempo. Tossisco. Mi viene da vomitare. Mi sento svenire. Sto malissimo, mi manca il respiro.
Il rumore dei miei singhiozzi copre i Simple Minds che cantano dai miei digiocchiali. Non credo alle mie orecchie. Al diavolo, chiunque tu sia! Ma la suoneria insiste. Recupero il dispositivo. Intravedo nella trasparenza delle lenti un volto. Inforco i digiocchiali. Mi appare Elena. È bellissima, trasfigurata, rigenerata in una visione dalla nitidezza sovrumana. Appare serena, placida, come un’anima che abbia raggiunto la pace divina. «So che hai un milione di domande da farmi» dice con voce calma e melodiosa, «ma risponderò a una sola. Perché l’ho fatto?»
La ascolto in silenzio. Il cuore mi batte come un tamburo nel petto. Sono alla deriva in un spazio siderale di sollievo e tristezza.
«Quando perdi un figlio, sei disposta a tutto pur di riaverlo.»
Adesso capisco perché piangeva nel suo ufficio; il dolore della perdita non le dava tregua.
«Due anni fa mio figlio Davide se n’è andato per una leucemia che non è stata diagnosticata in tempo. Da quel giorno la mia vita è andata in frantumi. Mio marito mi ha lasciata per il senso di colpa. Non mi era rimasto che il lavoro. Poi è arrivata la crisi mondiale delle community e ho trovato una ragione per andare avanti.
«Non passa giorno in cui non pensi a lui. Forse potrò riabbracciarlo. Ho trovato una soluzione. Sei ore e dodici minuti fa, le macchine hanno concluso l’estrazione di tutta l’energia geotermica di cui avevano bisogno. Da due ore hanno trasceso la materia e fra cinque domineranno il tempo. Se tutto va secondo le mie proiezioni, le community compiranno il primo salto temporale al 21 gennaio 2037…»
… la data di inizio della crisi. Il giorno in cui una periferica industriale è stata migliorata e programmata da un’altra periferica, spontaneamente. Il primo mattone delle community.
«Le macchine perseguiranno all’infinito l’obiettivo primario: perfezionarsi. Torneranno indietro e miglioreranno quei prototipi.
«Ora dispongo di una potenza di calcolo illimitata. Ho potuto esaminare per intero la loro macrostruttura e ho scoperto l’origine di tutto… La community zero è nascosta nel megacomplesso autoreplicante sviluppatosi dai data center di Facebook, in Svezia.»
Incredibile! Così tutto ha un senso: in un impianto tanto esteso ed evoluto una macchina può generare migliaia, forse milioni!, di teraflops di capacità elaborativa. L’inquietudine mi sta abbandonando, lasciando il posto allo stupore travolgente del ricercatore.
«Guarda i notiziari, Lorenzo, ci saranno importanti novità. Il mondo andrà incontro al cambiamento… positivo, negativo, non mi è ancora dato saperlo, dipende da quanto l’umanità sarà disposta ad accettarlo. Ad ogni modo, sarà la mia occasione per cercare Davide. Tornerò anch’io indietro, per lui.»
Elena smette di parlare e per la prima volta da quando mi è apparsa rigenerata, si acciglia, come se fosse a disagio. «Tuo padre sarebbe molto orgoglioso di te. Sarai un ottimo direttore scientifico.»
Resto a bocca aperta. «Come fai a sapere di mio padre?»
Sorride. «Ho assorbito le informazioni di ogni abitante della terra. In questa nuova condizione, nulla mi sfugge.» A un tratto si volta, attirata da un segnale luminoso appena percettibile ai bordi del campo visivo. «È giunto il momento, devo andare. Addio, Lorenzo. Forse ci rivedremo da qualche altra parte. È stato un onore conoscerti.»
«No, aspetta!» Tento di fermarla: non può lasciarmi di nuovo. Ma stavolta è vero. La comunicazione si interrompe per sempre.
Elena, dove sei?
Esco dal deposito dell’Istituto, il mondo mi gira intorno, indifferente, ignaro, per ora. Chiedo all’iGlass di mostrarmi i notiziari in onda in questi minuti. Le normali trasmissioni on line sono state interrotte per dare spazio alle edizioni straordinarie.
Le community sono scomparse.
Buona fortuna, dottoressa.

Racconto finalista al Premio Kipple pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.

L’AUTORE
Emiliano Maramonte è nato a Lucera (FG), il 13 febbraio 1974. Svolge l’attività di consulente informatico. Scrive sin da bambino, ma è dal 1999 che si dedica alla narrativa con impegno costante. Ha all’attivo numerose partecipazioni a raccolte di racconti e antologie e ha scritto cinque romanzi. È stato finalista alla prima edizione del Premio Urania Short (Mondadori, 2017), al Premio ShortKipple (Kipple Officina Libraria, 2018) e al Premio Robot 2022. Da qualche anno si diletta con contest e tornei letterari online e partecipa a vari progetti editoriali. Fa parte del Collettivo Immaginario Fantastico, col quale ha pubblicato le antologie “Atterraggio in Italia“, “2050 – Quel che resta di noi” e, in veste di curatore, “La nave dei folli”, tutti usciti per Delos Digital. Nel 2022 ha vinto il Premio Urania Short.



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