Una battaglia di gigantesche proporzioni sta per esplodere tra gli eserciti della notte di New York. I 100.000 uomini della gang, che superano di 5 volte il numero dei poliziotti, questa notte daranno la caccia ai "Guerrieri" la banda incolpata ingiustamente della morte del capo di una gang rivale. Questa avventura contemporanea ha luogo di notte, nelle metropolitane e nella sub-cultura della guerra tra gang che si scatena da Coney Island a Manhattan fino al Bronx. I Guerrieri lottano per la vita, cercando di sopravvivere nella giungla urbana e imparano il significato del termine lealtà.
Lo spazio, non metaforico ma concretamente situato in un tempo ben preciso (l’intero arco di una notte), è si può dire il personaggio principale, il vero protagonista de I guerrieri della notte, che nel 1979 afferma definitivamente Walter Hill come uno dei nomi emergenti del cinema americano. È un tracciato ben delineato (che i Guerrieri, e noi con loro, viaggiando in metropolitana studiano sulla piantina del vagone fin dai titoli di testa), quello che va da Coney Island al Bronx. Tuttavia, non siamo in presenza di uno spazio scenico con un’identità ben precisa. La città è New York, certo, ma ciò che preme di più al regista è inscenare il movimento, cosicché la dimensione urbana risulta quasi trasfigurata. Movimento che non è solo quello fisico dei personaggi, ma anche quello dei treni (che sfrecciano nell’inquadratura, servendo anche da raccordo di montaggio), quello circolare della ruota panoramica di Coney Island, dei tornelli che girano, delle bobine della radio privata. Non c’è momento del film in cui non ci siano azione e movimento; tale affermazione tuttavia non va equivocata. Non si tratta di dinamismo sfrenato, il movimento può anche essere lento (si veda l’inizio, con la ruota che gira e il treno che entra in stazione, ai limiti dell’astrazione grafica e dall’effetto visivo straordinariamente ipnotico, o il finale, con i guerrieri esausti che camminano lungo la spiaggia), anche se indubbiamente alcune scene riflettono l’intenzione di un’accelerazione del montaggio di chiara derivazione peckinpahiana. Così come è evidente che il movimento e l’azione, a cui il regista imprime una tonalità fortemente ludico-adolescenziale (si può dire che I guerrieri della notte sia uno dei primi film completamente “di giovani”, senza che questi ad esempio siano contrapposti e/o messi a confronto con personaggi di generazioni precedenti, non a caso Cyrus, che si può presumere più anziano dei protagonisti, muore subito) abbiano una funzione catartica: infatti la scena clou del film è quella nella quale i Guerrieri superstiti sono riusciti finalmente a prendere il treno che li riporta a casa.
In essa, anche per l’entrata nel vagone di due coppie di giovani presumibilmente reduci da una festa, ben vestiti e allegri con i quali vi è, inevitabile, un confronto (significativo il fatto che la ragazza cerchi di ravviarsi i capelli e che Swan la fermi). Vi è in questa scena una sorta di presa di coscienza, da parte dei Guerrieri, che dialetticamente nasce da un necessario rapportarsi all’altro (viene in mente, come per molto cinema americano degli anni Settanta, il pensiero di Heidegger: l’Esser-Ci e l’Esser-Si e il necessario rapportarsi alla Morte per giungere alla piena comprensione dell’Essere). In buona sostanza: non avrebbero potuto arrivare a comprendere, se non si fossero verificati i fatti che hanno preceduto tale presa di coscienza (l’omicidio di Cyrus, innanzitutto, che sembra tanto la messa in scena del nichilistico “Dio è morto” nietzschiano, e in seguito la perdita di alcuni compagni). Non è casuale il fatto che questa sequenza (all’interno del vagone e poi sulla banchina della stazione di Coney Island), sia l’unica nella quale i Guerrieri non corrono, non agiscono, ma si ritrovano alle prese (verrebbe da dire: estaticamente) col proprio pensiero. Rientra in questa lettura anche il discorso riguardante la violenza.
Pare abbastanza evidente che non vi sia compiacimento da parte di Hill nell’esibizione della violenza e nessuna, o quasi, forzatura effettistica (se non nel combattimento con i Baseball Furies). Anche se è innegabile l’interesse industriale per un tale dispiegamento di scene di lotta, ben coreografate e costruite per un pubblico giovanile. Non si può non riportare a questo proposito una frase del regista, che lascia trapelare una visione non solo artistica (e oseremmo dire molto americana) ma pragmaticamente tesa ad ottenere un riscontro positivo al botteghino: “Volevo anzi che il pubblico si divertisse a quelle scene, che si esaltasse alla vittoria dei Guerrieri” (dall’intervista di Alberto Crespi). Tuttavia, se, come fece dire Marco Ferreri a uno dei personaggi del film Nitrato d’argento (1996), “andare al cinema è guerriglia urbana”, è doveroso chiedersi se non fosse intenzione di Hill, concretizzando la “guerriglia urbana”, porre la sua opera come film-limite, come argine teorico al dilagare della violenza sugli schermi cinematografici. Quando il film uscì su questo tema vi furono numerose riflessioni: una, per certi versi condivisibile, verteva sulla presunta irrealtà delle scene di lotta, realizzate come balletti. Pochissimo il sangue mostrato, ad esempio (curiosamente, lo vediamo solo sul viso di Ajax quando viene picchiato da un poliziotto). Riflessione giusta, senza dubbio, ma che forse non teneva conto da una parte dell’astrattezza quasi onirica del film, dall’altra di un dinamismo chirurgico del montaggio che non permetteva di soffermarsi sugli effetti dell’atto violento. Lo stesso discorso, d’altra parte, poteva essere fatto per L’eroe della strada, nel quale allo stesso modo Hill evitava di mostrare gli effetti dei pugni sui volti dei personaggi. Siamo al discorso sul realismo del cinema di Walter Hill, la cui presenza intermittente (o assenza/presenza) può indubbiamente risultare ambigua e finanche sospetta, ma certo stimolante dal punto di vista critico. In ogni caso, per quel che riguarda I guerrieri della notte, insistiamo nel ritenerlo un film-limite nel mettere in scena la violenza, proprio per la scelta di andare in controtendenza ed evitare ogni efferatezza esibita, ogni effetto disturbante.
Il decennio in cui Walter Hill comincia la sua carriera è quello che segna il definitivo trionfo della rappresentazione della violenza nel cinema hollywoodiano. Definitivo poiché ovviamente film violenti ne erano stati girati anche prima. Ma è con la crepuscolare crisi dell’industria e dei generi, del mito dell’eroe senza macchia e senza paura, punto di riferimento primario della Hollywood classica (con le dovute eccezioni, ovviamente) che, dalla fine degli anni Sessanta, la violenza assurge a forma estetica immanente; non più dunque semplice ingrediente spesso solo suggerito o posto fuori-campo o al più relegato in film horror di serie b marginali al sistema. Tuttavia è proprio nel rappresentare la violenza che Walter Hill segna una svolta rispetto ai predecessori, in particolare se confrontiamo il suo approccio a quello di alcuni tra i titoli più significativi con i quali si aprono gli anni Settanta. Pensiamo a Cane di paglia, di Sam Peckinpah, Arancia Meccanica, di Kubrick, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, di Don Siegel, tutti del 1971. O ai successivi L’ultima casa a sinistra (1972), di Wes Craven, e Non aprite quella porta (1974), di Tobe Hooper. Film molto diversi tra loro. Ma tutti, per un motivo o per l’altro, eccessivi e veicolatori anche all’interno del cinema mainstream prodotto dalle major, di un tratto violento ai limiti dell’efferatezza e del sadismo. Certo, almeno per quanto riguarda i film di Peckinpah e Craven, siamo di fronte a un genere del tutto particolare, inaugurato proprio da essi e denominato “rape & revenge”. In sostanza, un thriller il primo, un thriller/horror il secondo, generi quindi frequentati soltanto sporadicamente da Walter Hill. Ogni paragone potrebbe sembrare azzardato. Tuttavia, risulta comunque emblematico che un decennio apertosi con film discussi per l’esplicita violenza si chiuda con un film altrettanto discusso ma che è abbastanza evidentemente portatore di una rappresentazione totalmente diversa della violenza. Se da una parte si può pensare ad un’assunzione di responsabilità da parte del regista (“Non volevo che il pubblico, vedendo sangue o roba del genere, provasse fastidio o raccapriccio”, A. Crespi, int. cit.) e a un suo tentativo interno ed esterno al film di riportare un certo ordine nel caos, dall’altra non si può evitare di chiedersi se il non voler essere realista di Hill rientrasse nella logica regressiva dell’industria hollywoodiana. Film come I guerrieri della notte o anche Alien contribuiscono al recupero di una dimensione irreale, poco veritiera, da parte dell'industria hollywoodiana. Un progressivo slittamento, volendo semplificare, dal realismo politico del cinema degli anni Settanta alla dimensione del mito e della favola che segnerà il decennio Ottanta.
a cura di Roberto Frini