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L'eroe della strada di Walter Hill

L’esordio dietro la macchina da presa sembra anche a livello di scelte tematico/espressive evidenziare subito Walter Hill come un giovane regista abbastanza atipico rispetto ai colleghi emergenti o già affermati. Proprio come era stato per i suoi inizi di carriera, non avendo frequentato scuole di regia e non essendosi formato come cineasta intrecciando le proprie esperienze formative con quelle degli altri registi americani del nuovo corso. Non esce dalla factory di Roger Corman, ad esempio, cosa che riguardava molti registi affermatisi nei primi anni Settanta (da Scorsese a Bogdanovich a Jonathan Demme), e non ha alle spalle un apprendistato televisivo o teatrale. Nasce invece come sceneggiatore e condivide questo apprendistato con alcuni tra i migliori e più appartati registi del cinema americano (Cimino, Schrader). È pur vero che il debutto registico avviene sotto l’egida del produttore Lawrence Gordon, formatosi professionalmente proprio nella cormaniana American International Pictures. L’eroe della strada, in originale Hard Times (ma il titolo più azzeccato probabilmente sarebbe proprio quello iniziale e preferito dallo stesso regista, The Streetfighter, perché identifica chiaramente il protagonista e ciò che fa nel film, come vari titoli hilliani) s’inserisce in una tendenza cinematografica piuttosto in voga agli inizi degli anni 70, il racconto della storia americana e particolarmente del periodo della Grande Depressione e del roosveltiano New Deal. Si va da Paper Moon di Bogdanovich a Dillinger di Milius (prodotto sempre da Lawrence Gordon), da Il grande Gatsby scritto da Coppola e diretto da Jack Clayton a Come eravamo di Pollack. Curiosamente, però, più che questi titoli di cineasti che grosso modo possono essere considerati tutti appartenenti alla nuova Hollywood, L’eroe della strada ricorda maggiormente L’imperatore del Nord, di Aldrich: per la secchezza del racconto, per lo scontro fisico che caratterizza il plot e per un’evidente e non trascurabile assenza di maniacalità nostalgico/rievocativa. In Hard Times si limita a pochi tocchi, a un décor sobrio, del tutto appropriato a un periodo di crisi economica come quello dell’America degli anni Trenta. Non è granché interessato all’affresco storico; o meglio, sa che niente può essere più rappresentativo, per raccontare un’epoca, delle vicende di alcuni uomini che di tale affresco, seppur marginalmente, fanno parte.   
L’eroe della strada comincia con l’inquadratura in campo lungo di un treno merci che procede lentamente sul binario. A un certo punto, in prossimità di una biforcazione, vediamo il protagonista affacciarsi da uno dei vagoni e saltare giù, prendendo una direzione diversa da quella del treno. Tornando per un attimo al discorso sul regista esordiente “atipico”, l’inquadratura dall’alto della strada ferrata, nella quale vediamo Chaney dirigersi da una parte mentre il treno va dall’altra, parrebbe rappresentare il punto connettivo tra il pensiero di Walter Hill e l’azione del protagonista, in una sorta di identificazione tra il regista e il suo personaggio: vale a dire, una dichiarazione d’intenti da parte di Hill, la rappresentazione a livello diegetico della scelta di un percorso creativo personale. Oltre che per l’epoca in cui è ambientato, Hard Times per la verità non è un film che si differenzia a livello tematico da altri titoli americani di quel periodo in maniera così netta. Tratta di perdenti, di povertà, di sogni non facilmente realizzabili, di personaggi solitari, di sfruttamento, come in fin dei conti fanno Il re dei giardini di Marvin, Lo spaventapasseri, Electra Glide, Fat City, Non si uccidono così anche i cavalli?. Simile in questo a Peckinpah, Hill è interessato ai solitari, agli emarginati, ma come Peckinpah non ama però la rassegnazione, né l’alibi delle colpe sociali, che certo prende in considerazione ma contro le quali i suoi personaggi si scagliano a testa bassa. Chaney certamente non si fa molte illusioni, ma combatte e vince. Questo lo rende diverso dalla stragrande maggioranza dei personaggi del cinema americano degli anni Settanta. Si può dire che Hill adatti lo stile, tutt’altro che enfatico, del film al personaggio, taciturno e fatalista (“Non guardo mai oltre l’angolo della strada”, dice). Se si continua nel raffronto con un altro film sul pugilato (con i guantoni, in questo caso), Fat City di John Huston, si vedranno le differenze: in Huston vi è un’intera umanità dolente, con un destino probabilmente segnato, incapace di riscatto ma sopratutto vi è a livello di scelte narrative una dimensione psicologica dei personaggi che sfocia in alcune scene-madri del tutto assenti in L’eroe della strada, un aspetto social-melodrammatico dal quale Hill si terrà lontano per tutta la sua carriera. Per Hill non vi sono tanto le responsabilità della società quanto quelle dei singoli individui. Anzi, si può ben dire che già a partire da L’eroe della strada il regista operi una sorta di separazione tra i personaggi e il mondo. L’arrivo di Chaney a New Orleans ad esempio non lascia spazio a particolari digressioni ambientali. Il protagonista prende il caffè in un chiosco e da qui assiste all’arrivo di alcune automobili che entrano in un fabbricato. Hill non ci fa sapere se Chaney sia arrivato lì già sapendo cosa aspettarsi o se si tratti di una coincidenza. Poiché però da quel poco che trapelerà sulla sua vita nel corso del film sapremo che si mantiene con i combattimenti a mani nude siamo propensi a credere più probabile la seconda ipotesi. “L’esserci e l’agire della figura umana,” scrivevano Adelio Ferrero e Nuccio Lodato nel loro Castoro su Robert Bresson, “si offrono allo spettatore travalicando la mediazione della psicologia e della trama.”
Naturalmente ogni paragone tra il maestro francese e Walter Hill, anche solo per i materiali narrativi usati, sarebbe fuori luogo. Anche perché gli effetti conseguiti dall’opera di Bresson sono, per la profonda riflessione teorica e gli esiti artistici ottenuti, ben diversi da quelli del cinema hilliano. Il quale ha, quanto consapevolmente è difficile dirlo, contribuito senz’altro al diffondersi di un modo di fare cinema epidermico, più di sensazioni che di approfondimento. Con L’eroe della strada Hill mette a punto quella che diverrà una sua costante di scrittura, più volte rivendicata e ribadita. Un lavorare sui personaggi (o vogliamo, sempre bressonianamente, definirli “figure”?) mostrando solo le loro azioni, definendoli attraverso il loro movimento, il loro agire. Il movimento, inteso appunto come fare, è necessario all’uomo per realizzare se stesso ed è oltretutto alla base della storia americana (il movimento dei pionieri). L’epica western è fatta di personaggi in perenne movimento e lo stesso Chaney potrebbe tranquillamente essere un cowboy che, in una società in piena trasformazione, cerca un nuovo modo di sopravvivere. D’altronde, in filigrana, non è difficile pensare al film come alla metafora di un mondo destinato a scomparire, proprio come Chaney che, alla fine, si allontana nel buio lasciando soli Speed e Poe che, malinconicamente, lo rimpiangono. Che L’eroe della strada sia un western mascherato, è innegabile. La scena in cui Chaney, nella stanza, si alza dal letto e si prepara per l’ultimo combattimento, con la musica in sottofondo, ne è la prova lampante. I protagonisti di Hard Times sono in perenne movimento, paiono del tutto estranei a una vita civile, borghese. Il rapporto tra Chaney e Lucy s’interrompe proprio per questo motivo. La donna lo accusa di non essere un uomo stabile e sappiamo che in molto cinema western ma più in generale nel cinema americano classico la donna rappresentava la città, opposta all’uomo che invece anela i grandi spazi, lo spirito avventuroso e irregolare della frontiera. Anche nel suo delineare le figure femminili Hill dimostra subito la sua “formazione” western. Come scrisse Christian Metz la donna “esprime simbolicamente una brutta china che egli (l’uomo del west) finirà poi per non seguire, una tentazione di fissità sedentaria, di rinuncia all’estetismo delle cause perse e dei combattimenti polverosi.” Riguardo al discorso della sedentarietà, Lucy si lamenta con Chaney che “va e viene e non si ferma mai”. Della nuova società che si va formando, la donna sembra avere già capito le regole e i meccanismi. L’uomo no, e i tre personaggi maschili del film ne sono un chiaro esempio. È pur vero che siamo negli anni della Grande Depressione, manca il lavoro (è molto interessante il fatto che Hill ambienti i combattimenti in luoghi di lavoro dove non si lavora: fabbriche, porti, nei quali l’unico lavoro possibile è battersi a pugni nudi per guadagnare qualche soldo) ma è altrettanto vero che le figure maschili hilliane qui come nei film successivi sembrano allergiche al lavoro, nichilisticamente tendenti a rifiutarlo e a scegliere modi alternativi per vivere. L’ultimo avversario di Chaney si chiama Street e la strada si palesa fin da principio come luogo privilegiato, in Hard Times opposta appunto ai luoghi di lavoro (forse non casualmente il dottore si chiama Poe, come il grande scrittore americano morto per strada). Terreno di sconfinata libertà, di scontro, nel quale l’uomo si riappropria di se stesso e della sua natura, che pare, in fondo, essenzialmente ludica (i combattimenti di Hard Times sono solo i primi di una lunga serie di azioni e relazioni umane che assumono l’aspetto di una gara, di un gioco). Hill, come detto, non chiama in causa la Società, per giustificare o spiegare le azioni dei suoi personaggi. Tuttavia, vi sono dei riferimenti che suonano quantomeno allusivi. Dopo il primo incontro vinto da Chaney, Speed dice “il denaro si fa con il denaro”. Il denaro, in effetti, rappresenta la base di ogni rapporto che si instaura nel film. Si vive con i combattimenti, con le scommesse, con il gioco, con la prostituzione, tutte relazioni umane in cui avviene uno scambio di denaro. La vicenda sentimentale tra Charley e Lucy finisce in fin dei conti per la scarsa affidabilità (anche economica) dell’uomo. Probabilmente è in seguito a una tale riflessione che Chaney alla fine regala una parte dei soldi ai due amici. Ed è probabilmente questo il principale insegnamento morale che può venire da un film sui perdenti, che sono tali solo se vincono non seguendo le regole della società (che insegna ad accumulare denaro eccetera). Ma è anche una dichiarazione d’intenti registica, che unitamente alla scelta di girare un film sul pugilato a “mani nude”, esprime la volontà di operare per sottrazione, facendo a meno del superfluo (come Chaney può tranquillamente fare a meno dei soldi in più), eliminando gli orpelli. Semplificando la messa in scena anche a rischio di sembrare semplicistico.
  
a cura di Roberto Frini