Se è vero che molti studiosi hanno affrontato l’opera di un regista definendola “difficilmente classificabile”, di sicuro tale definizione la si può applicare all’opera di un regista come Steno. A parte la quantità di film diretti (più di ottanta, oltre a uno sceneggiato e a una serie televisiva) in circa quarant’anni di attività (dal 1949 al 1988), il primo ostacolo alla classificazione dei suoi film sarebbe quello di stabilirne il valore qualitativo. Lo stesso Steno ammetteva che la critica non era mai stata tenera con i suoi film, salvo negli ultimi anni riconoscerne il professionismo. In effetti, se si vanno a consultare dizionari cinematografici o vecchie riviste, si può constatare che pochi suoi film ottengono voti molto alti (Totò a colori, Totò cerca casa, Un americano a Roma), alcuni vengono giudicati discreti (Totò e le donne, I tartassati, La polizia ringrazia, Febbre da cavallo, La patata bollente, Mani di fata), la maggior parte liquidati come appena passabili o mediocri. Ed ecco che allo studioso si porrebbe la questione, l’eterno dilemma: Steno è stato un autore, di più: un autore importante, che merita di essere studiato e classificato? Molti scorrendo i titoli dei suoi film lo giudicherebbero un regista comico, al massimo un buon regista comico, non un autore, e così chiuderebbero il discorso. Ma proprio partendo da questo punto, Steno regista comico, e cominciando con serietà e senza pregiudizi a studiare i suoi film, ci si accorge che l’opera di Steno è varia, non classificabile, che è limitativo definirlo un regista comico e che, forse, può essere addirittura considerato un autore importante, quindi meritevole di uno studio approfondito. Partiamo ad esempio dagli inizi della sua carriera registica, gli anni dei film diretti insieme a Mario Monicelli. Il primo, Al diavolo la celebrità, è una variazione brillante sul tema di Faust, una commedia fantastica che la dice già lunga su quelli che saranno i temi preferiti del regista. Nello stesso anno, Totò cerca casa è uno dei primi tentativi di fondere il sociale del neorealismo con l’ironia e la farsa, dimostrazione che Steno aveva personalità e non era tipo da seguire la corrente. Lo confermano i primi film diretti da solo, Totò e le donne (solo ufficialmente realizzato in coppia con Monicelli) e Totò a colori.
L’astrazione dal reale che il regista sembra perseguire fin da subito corrisponde all’insofferenza dei suoi personaggi. Plasma un Totò furioso e ribelle, frammenta la linearità narrativa in episodi utilizzando l’escamotage del racconto che poi tornerà nel suo film forse più famoso, Un americano a Roma. Titolo imprescindibile perché sintetizza l’intera opera steniana. Costruito su un Sordi debordante, sembra il classico film in cui il regista si limita a seguire gli estri del suo protagonista. Primo errore, come quello di considerarlo la prima commedia all’italiana (forse perché il protagonista ne diverrà uno degli alfieri). In realtà, e il titolo lo dice chiaramente, il personaggio è totalmente steniano nel suo essere un corpo estraneo al contesto in cui vive, un incompreso alla perenne ricerca di un suo status sociale, caratteristica comune a tutti i protagonisti dei film di Steno, dall’altrettanto fondamentale Piccola posta al sottovalutato Mio figlio Nerone a Totò, Eva e il pennello proibito, da Un mostro e mezzo ad Arriva Dorellik, da L’uccello migratore a La poliziotta, da La patata bollente a Sballato, gasato, completamente fuso (in cui il taxista deraciné interpretato da Abatantuono cita addirittura il what’s now di Nando Mericoni). L’equivoco riguardante la commedia all’italiana è probabilmente quello che paradossalmente conferisce a Steno lo status d’autore, perché in realtà proprio con Un americano a Roma Steno metaforizza il suo desiderio di andare oltre, di cercare ispirazione nei territori dell’avventura, dei generi all’americana, della farsa, del disimpegno più che nel sociale o nel reale, base comunque della commedia all’italiana. Il rapporto di Mericoni col padre, che lo vorrebbe serio lavoratore, ne sono il simbolo. E d’altra parte basta vedere come divergerà la sua carriera da quella degli altri registi che in quegli anni apriranno la strada al genere più longevo del nostro cinema, Risi, Monicelli, Comencini. Mentre Comencini, successivamente a Pane, amore e fantasia, gira La finestra sul luna park e poi Tutti a casa, mentre Risi dopo Poveri ma belli continua con la commedia di costume (Il mattatore, Il vedovo) e poi gira Un amore a Roma e Una vita difficile, mentre Monicelli, dopo il sodalizio con Steno gira Proibito e nel ’59 vince a Cannes con La grande guerra, Steno si da alla farsa più sfrenata e alla parodia con titoli come Susanna tutta panna, Totò nella Luna, Mia nonna poliziotto, Tempi duri per i vampiri. Di Totò, Eva e il pennello proibito fa addirittura il manifesto teorico del suo cinema, con la figura del copista Scorcelletti che difende rabbiosamente la dignità del proprio lavoro (Tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile) anche e soprattutto contro il committente che lo sottovaluta. In questa difesa del prodotto “basso”, del mestiere e dell’artigianato, vi è la stessa guerra contro il mondo, a volte disperata, che muove i personaggi steniani; nel voler praticare la parodia e il cinema di genere vi è la stessa ossessione, la stessa fissazione che anima i suoi personaggi.
Il suo cinema è pura “astrazione”, e quindi autorialità della più bell’acqua, se come diceva Orson Welles (che tra l’altro Steno è stato uno dei pochi registi italiani a dirigere in L’uomo, la bestia e la virtù) l’artista deve essere sempre emarginato. E Steno, pur con film di successo, pur firma apprezzata, un po’ emarginato, dall’intellighenzia artistica che guardava con diffidenza i suoi film di consumo, d’evasione, lo è sempre stato. Eppure ha sempre continuato per la sua strada, e in ogni suo film anticipa quello successivo, i ritorni dello stesso tema e i rifacimenti sono molteplici, a dimostrazione di un percorso creativo e artistico consapevole, affatto casuale o dettato dalle mode. Amore all’italiana ad esempio contiene già Arriva Dorellik, la commedia alla siciliana con Buzzanca e Giuffrè e persino Febbre da cavallo, le indagini e i commissari di Totò diabolicus e Totò contro i quattro preludono al poliziesco di La polizia ringrazia, Piedone lo sbirro e seguiti vari, La poliziotta e Big Man, Letto a tre piazze è il prodromo delle commedie biandriche e di coppia degli anni Settanta/Ottanta (La patata bollente, Amori miei, Quando la coppia scoppia, Fico d’India), Sballato, gasato, completamente fuso e Mi faccia causa sembrano i remake di Susanna tutta panna e Un giorno in pretura, le parodie gialle e horror contrappuntano la sua filmografia (Psycosissimo è del ’61, Totò diabolicus del ’62, Un mostro e mezzo del ’64, Il terrore con gli occhi storti del ’72, Dottor Jekyll e gentile signora del ’79); in ogni suo film vi è un qualcosa di bizzarro, di grottesco, di visionario, di surreale, che non solo rende difficoltoso definirlo “soltanto” un regista comico, non solo dimostra il suo estro non comune e la sua illimitata fantasia anche visiva, ma rappresenta un filo rosso che unisce ogni suo titolo e che come una firma certifica l’autorialità doc steniana, e persino il mistero di un regista che aveva una matrice certamente diversa da quella puramente farsesca, come a prima vista potrebbe sembrare, e che sceglieva la comicità per poter sviscerare una creatività che oseremmo definire gotica, dunque non certo puramente comica. Se dovessimo mettere una dietro l’altra alcune immagini o sequenze steniane e le unissimo alle parodie che sono in toto film bizzarri e/o surreali, avremmo infatti il finto cadavere che si anima in Totò cerca casa, la maschera decadente e vampiresca di Za L’Amour in Cinema d’altri tempi, l’ombra di Vanzino col ditino arcuato in Piccola posta, il dito tagliato in Mio figlio Nerone, il personaggio con la maschera da scheletro nella buca del suggeritore in Susanna tutta panna, Totò nella Luna, Tempi duri per i vampiri, la tortura inflitta alla gemella che fa svenire anche l’altra in I moschettieri del mare, Psycosissimo, Totò diabolicus, l’episodio dei fotoromanzi dell’orrore in Totò contro i quattro, Un mostro e mezzo, i finti cadaveri in Gli eroi del West, il procedimento d’imbalsamazione ne I gemelli del Texas, Amore all’italiana (che raggiunge vertici estremi di visionarietà grottesca e crudele), Arriva Dorellik, Trapanese che immagina di vendicarsi della moglie in Il vichingo venuto dal Sud, Pomeraro che fa il pitecantropo allo specchio in L’uccello migratore, La polizia ringrazia, Il terrore con gli occhi storti, il cadavere del gobbo in Piedone lo sbirro, le visioni del padrone che vede l’operaio ovunque in Il padrone e l’operaio, il domestico di Proietti nello scherzo a Manzotin in Febbre da cavallo, il giardiniere nell’episodio della candid-camera in Tre tigri contro tre tigri, il cadavere diventato una scultura in Doppio delitto, Dottor Jekyll e gentile signora, la parodia del regista horror in Sballato, gasato, completamente fuso, eccetera.
a cura di Roberto Frini