Vincitore del David di Donatello 2008 come miglior film dell'Unione Europea e del Nastro d'argento 2008 come miglior film europeo, Irina Palm (da noi con il titolo di Irina Palm - Il talento di una donna inglese) del cineasta Sam Garbarsi è un film particolarmente commovente e pieno d'umanità che affronta temi scabrosi con pudore e ironia sapientemente dosata.
La storia è ambientata a Londra. Maggie (una straordinaria Marianne Faithfull) è una signora di mezza età con un figlio che le ha già dato un nipotino. Quest'ultimo però è malato di una rara malattia e per curarlo bisogna portarlo, a spese della famiglia, in Australia.
Per racimolare soldi, Maggie all'inizio cerca un lavoro; ma data la sua età e l'assenza di esperienza non lo trova, finché non legge un annuncio relativo a un lavoro in cui si cercano delle "hostess" (termine eufemistico per "prostituta"). Maggie, senza dire nulla a figlio, nuora ed amiche, entra così nel giro, lavorando in silenzio dietro ad un glory hole, e riesce a diventare in poco tempo la professionista più richiesta, assumendo il nome d'arte di Irina Palm.
Questo le attira l'astio della giovane collega Luisa, che viene licenziata, e la curiosità del proprietario del locale, Miki (un bravissimo Miki Majnolovic), con il quale, tra le iniziali diffidenze reciproche, stringe un rapporto di amicizia che sfocerà nell'amore.
Sorretto da un’abile sceneggiatura che si serve di ottimi attori convincenti (in primis Marianne Faithfull e Miki Majnolovic); in Irina Palm si sorride e ci si commuove. Una prova registica riuscitissima che dimostra come si può fare un film natalizio (la vicenda è narrata a dicembre) e ricco di umanità pur affrontando un percorso scabroso. Da non perdere.
Daigo Kobayashi è un giovane violoncellista di Tokyo che rimane
disoccupato dopo che la piccola orchestra nella quale lavora è costretta
a chiudere per fallimento. Non sentendosi all’altezza di provare ad
entrare in un’altra compagnia più prestigiosa, decide con grande
rammarico di vendere il suo violoncello e di tornare con la moglie al
suo paesello d’origine in mezzo alle risaie per ricominciare da zero con
un nuovo lavoro. Mentre cerca sul giornale tra i vari annunci si
imbatte in quello dell’agenzia NK che titola: “Assistiamo coloro che
partono per viaggi” e che ricerca personale anche senza esperienza.
Così, convinto si tratti ovviamente di un’agenzia di viaggi, telefona
per fissare il colloquio. Parlando con lo strampalato titolare, il
signor Sasaki, scopre però che l’annuncio ha un errore di ortografia: la
parola giusta non è “viaggi”, bensì “il viaggio”, ovvero l’ultima
dipartita: la NK infatti è un’agenzia di tanatoesteti, ovvero di
professionisti che curano l’aspetto dei defunti per presentarli l’ultima
volta alla famiglia prima della cremazione. Dopo un iniziale
tentennamento il giovane Daigo decide di provare il nuovo lavoro,
convinto anche dal sostanzioso anticipo offertogli dal suo nuovo capo.
Sebbene una volta tornato a casa non sappia come dirlo alla moglie,
inizia a pieno ritmo questa nuova esperienza lavorativa…
Basato sull’autobiografia di Aoki Shinmon (Coffinman: The Journal of a Buddhist Mortician), Departures (Okuribito)
è il vincitore dell’Oscar come miglior film in lingua straniera del
2009 e del Montreal World Film Festival 2008. Un film la cui
preparazione è durata ben 10 anni, con il regista Yojiro Takita che
assistette a numerose cerimonie funebri -per comprenderne appieno la
giusta atmosfera da ricreare - e con l’attore protagonista Masahiro
Motoki che dovette imparare davvero il rito di preparazione dei defunti,
per poterlo eseguire alla perfezione durante le riprese.
Takita dirige un film dai ritmi lenti e cadenzati, senza quindi
uscire troppo dagli schemi delle produzioni nipponiche di sempre, ma che
riesce a commuovere nel profondo grazie anche all’aiuto magistrale
della colonna sonora del buon Joe Hisahishi (già autore delle musiche di
gran parte dei film di Kitano e Miyazaki) il quale, con la sua innata
capacità di saper interpretare in chiave sonora immagini e vicende con
temi accattivanti e orecchiabili, riesce a rendere struggente una
pellicola già gradevole e molto ironica. Un film delicato che però non
scioglie mai il nodo che si forma in gola già dai primi minuti della
vicenda e che continua a tenere vivo il sentimento di malinconia
pressante che si esplicita appieno grazie alle note del violoncello che
accompagna le mosse dei protagonisti. Malinconia, non tristezza,
appunto: lo spirito nipponico di questa pellicola è tutto qui,
nell’esaltazione a tratti pragmatica della vita (Sasaki e le sue qualità
culinarie – “Se vuoi vivere devi mangiare; e se devi mangiare, mangia
bene”; la moglie di Daigo che rimane incinta) e della percezione della
morte come passaggio, come attraversamento di un cancello immaginario
che si vive con dignità e con disarmante tranquillità (anche se le
lacrime ovviamente abbondano anche qui). Qualche volta si cade un po’
nella retorica, ma nel complesso il film abbraccia lo spettatore con la
sua calda poesia rassicurante e con un profondo senso di totale
bellezza.
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Questo romanzo di Calvino si affianca a Il
visconte dimezzato e a Il barone rampante creando una trilogia di
mitiche figure, quasi un albero genealogico di antenati dell’uomo
moderno. Carlo Magno passa in rassegna le sue truppe e tra fango e
sangue, solo un cavaliere sembra quasi irreale: armatura bianca, lucida e
pulita e portamento regale.
Si tratta di Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez.
E’ nobile d’animo, pronto a raddrizzare torti, impeccabile e incline alla perfezione come nessun altro.
Ma
non esiste! Tutta la sua consistenza è la sua armatura vuota; è
l’armatura stessa che trova la forza di essere cosciente attraverso un
incredibile sforzo di volontà. Così vengono narrate le avventure del
cavaliere inesistente Agilulfo in un medioevo fantastico, dai risvolti
ironici e fiabeschi. Egli suscita sentimenti contrastanti: invidia nei
sottoposti e colleghi ai quali dispensa ordini e critiche; ammirazione
in giovani come Rambaldo di Rossiglione, intenzionato a vendicare la
morte del padre e che gli chiede consigli sull'arte del combattimento;
amore in donne come Bradamante, coraggiosa amazzone stanca di tutti gli
uomini esistenti e di cui si innamora lo stesso Rambaldo.
Personaggio chiave del racconto e scudiero di Agilulfo è Gurdulù.
Questi
è assolutamente all'opposto del cavaliere inesistente. Appare infatti
come un pazzo con il quale è quasi impossibile comunicare, cerca di
immedesimarsi in ogni forma di vita che incontra e non ha alcuna
coscienza di sé. Egli esiste, ma non sa di esserci al contrario di
Agilulfo che non esiste, ma sa di esserci.
Questo racconto è uno dei capisaldi della letteratura del novecento.
Rappresenta
la solitudine dell’uomo; evidenzia il vuoto di umanità che pervade il
mondo che ci circonda; racconta dei rapporti tra essere e sentire
attraverso una narrazione fantastica, viva, geniale e per certi versi
magica.
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