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Ken il guerriero - la leggenda di Hokuto

Il successore della divina scuola di Hokuto, Kenshiro, deve affrontare il terribile Souther, il guerriero Nanto protetto dalla stella dell’imperatore, intenzionato a schiavizzare dei bambini per costruire il suo personale e mastodontico mausoleo a forma di piramide. Nonostante l’opposizione delle truppe ribelli capeggiate da Shu il terribile imperatore continua ad imperversare e a rapire bambini. Nemmeno Raoul, il dominatore di fine secolo, riesce a decidersi ad affrontarlo, preoccupato dal fatto che il corpo del guerriero Nanto nasconde un segreto che lo rende invincibile.
Quale sarà il terribile segreto? Riuscirà Kenshiro a scoprirlo e a vincere la battaglia finale?

Primo capitolo della pentalogia intitolata La leggenda del vero salvatore, realizzata in occasione del venticinquesimo anniversario della nascita del personaggio creato dalla mente di Buronson e dalle mani di Tetsuo Hara e distribuito in Italia grazie alla collaborazione della Yamato Video e della Mikado Film. In questo primo lungometraggio si affronta la vicenda dello spietato imperatore di Nanto Souther, dell’Airone bianco Shu e dell’interminabile lotta fratricida della divina scuola di Hokuto. Nulla di nuovo per chi conosce a memoria il manga e l’anime (e mi riferisco a chi, come me, è nato tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80) salvo l’aggiunta di personaggi come Reina che qui riveste un ruolo forte e decisivo (sebbene abbia caratteristiche che ricordano molto da vicino  Thou, la figlia di Rihaku del mare, nella serie tv). 
Un lavoro che si merita la sufficienza, ma non di più. Per chi come me ha un’adorazione infinita verso lo storico anime non sarà rimasto particolarmente colpito da questo tanto atteso film celebrativo dell’eroe di Hokuto. Innanzitutto, trattare in un’ora e mezza uno dei capitoli più struggenti di tutta la serie mi è parso una scelta azzardata, anche perché l’analisi psicologica dei personaggi è stata alquanto desolante (non si accenna alla storia di Souther e del suo rapporto col maestro da lui ucciso inconsapevolmente: qui l’imperatore Nanto non è un uomo che ha rifiutato l’amore perché causa di sofferenze, ma semplicemente uno psicopatico che schiavizza bambini per costruirsi un mausoleo).
Altra nota dolente, i disegni. L’animazione sarà pure molto fluida e i colori brillanti (forse troppo: Kenshiro sembra fatto di lamiera), ma il tratto rimane purtroppo contaminato da una tendenza tipica dei lavori degli ultimi anni, quella cioè di contornare i personaggi da una spessa linea nera che ne accentua la silhouette (vedi anche Full Metal Alchemist) e che ne appiattisce la figura. Una constatazione, questa, che mi ha fatto riflettere, perché per la prima volta in più di vent’anni mi sono chiesto se davvero i “cartoni giapponesi” d’azione stiano diventando tutti uguali (ma dobbiamo tutti credere che non sia così).
Le scene di combattimento sono poche e tutte molto brevi, con l’eccezione della battaglia finale tra Kenshiro e Souther, ripresa alla perfezione dal manga e dall’anime (forse si poteva fare qualcosa in più per il film), con la cinepresa sempre troppo vicina ai corpi, tanto da non far capire molto di quello che sta succedendo durante le leggendarie raffiche di pugni e calci che sono il “fondamento stilistico” di quest’anime.
  
Infine le musiche, epiche e trionfali, più adatte però al genere fantasy (sarebbero state perfette per un film animato su Il signore degli anelli) che non ad un anime che deve la sua nascita ad un progenitore dannato e “tamarro” come Mad Max (George Miller, 1979). Si tira un respiro di sollievo, infatti, quando finalmente riecheggiano prepotenti, verso la fine del film, le note di You wa shock (celebre leitmotiv del Kenshiro incazzato) che sortiscono un  effetto misto tra nostalgia, esaltazione pre-adolescenziale e senso di onnipotenza dovuto all’immedesimazione con Ken, il guerriero menante. 
Un film ispirato alla serie TV, insomma, con tutti i pro e i (molti) contro che si possono sempre trovare in questo tipo di produzioni. Per la celebrazione del quarto di secolo, però mi sarei aspettato qualcosa di più, qualcosa di meglio e non una semplice rivisitazione moderna e un po’ scontata di uno degli anime fondamentali degli anni Ottanta. In un’epoca in cui però sembra che le vecchie glorie siano state messe un po’ da parte è meglio accontentarsi di quel che c’è, dato che la considerazione verso l’animazione giapponese (qui in Italia) corre sempre su filo sottilissimo che sembra debba sempre spezzarsi al minimo sbaglio e alla minima disattenzione. Grido allora ad occhi chiusi “Viva Kenshiro!!” e aspetto fiducioso (e un po’ disilluso) gli altri lungometraggi che, spero, arriveranno.

Voto: sufficiente.

a cura di Giorgio Mazzola
    

Babylon A.D. di Mathieu Kassovitz


Il mercenario Toorop, tipo dai modi spicci e aria minacciosa, viene assoldato per scortare una ragazza di nome Aurora e la sua accompagnatrice, una suora, dal monastero dove le due vivono fino a New York e dove una sedicente setta attende la giovane come nuovo messia… ma il viaggio sarà, per il cinico Toorop rivelatore e irto di ostacoli perchè una seconda fazione vuole la ragazza, che nasconde un segreto che lei stessa ignora, e utilizzerà tutti i sistemi leciti ed illeciti per catturarla.

Questo film già prima dell’uscita in sala, è stato oggetto di aspre dichiarazioni da parte dello stesso regista che ne ha disconosciuto la paternità confessando una forte ingerenza da parte dei produttori durante le riprese, fino a fargli rigirare completamente scene già approvate, e modificare, finale compreso, tutto il lavoro del regista Kassovitz.
Questo preambolo serve, in parte a spiegare, come l’impronta visiva tipica del regista in questo film si noti raramente, e nessuna delle peculiarità viste nell’ottimo thriller I fiumi di porpora siano visibili.
  
Ci troviamo di fronte ad un pasticcio alquanto confusionario, che sulla carta sembrava  intrigante anche perchè sfrutta una commistione scientifico/mistico/religiosa che se filtrata da un regista europeo, come  Kassovitz, poteva scrollarsi di dosso l’aria da giocattolone Sci-fi e fornirci un ottimo esempio di Blockbuster con un livello contenutistico un gradino sopra i soliti action fracassoni made in Hollywood.
Ma così non è stato, e purtroppo il faccione monoespressivo di Vin Diesel, in questo frangente non fa che peggiorare le cose. 
  
Alcune scene sono molto interessanti, vedi la processione dei profughi sul ghiaccio, il ghetto, le meravigliose scenografie che hanno allo stesso tempo un’aria retrò e futuristica, la stupenda New York simil-Blade runner senza la cupezza dark del cult di Scott, ma non per questo meno inquietante, poi tutto il resto, scene scollegate, dialoghi che fungono da semplice riempitivo tra uno scena e l’altra, un talento come Michelle Yeoh sprecata in dialoghi banali, una Charlotte rampling cattivissima, Gerard Depardieu che si diverte un mondo sotto l’orrido make-up del sordido malavitoso, si accennano temi di una complessità estrema e con molteplici e complesse implicazioni come la clonazione, la religione, il dramma sociale dell’immigrazione clandestina, la globalizzazione, pane per i denti di un regista come Kassovitz che ha alle spalle un film coraggioso come L’odio, e cosa è migliore della fantascienza come veicolo metaforico di problematiche socio-politiche?
  
Ma kassovitz non è Besson, e questo film non è il l quinto elemento e come la maggior parte dei registi europei soffre del meccanismo hollywoodiano che tende ad assorbire e ad inglobare le diverse “visioni” ibridandole a volte con pessimi risultati, come in questo caso.
Quindi chi si volesse comunque avvicinare a questa pellicola deve essere al corrente delle problematiche incontrate durante la realizzazione che ne inficiano il risultato finale e questo si nota anche nel risibile e scontato finale che lascia sorpresi per la banalità con cui si conclude una intricata messa in scena di temi interessanti e per nulla approfonditi.
Rimane un action poco action, un film di fantascienza alquanto insipido, insomma una grande occasione persa.
 
Giudizio: insufficiente.

a cura di Pietro Ferraro 

Gomorra di Matteo Garrone


Nella Napoli del degrado e della violenza si articolano quattro vicende che hanno come sfondo il mondo della Camorra. C’è la vicenda di Pasquale, un abile sarto che lavora in nero per l’alta moda, con un datore di lavoro che lo sfrutta, motivo per cui accetterà di insegnare il mestiere ai cinesi di nascosto per 2000 euro a lezione. C’è Franco, un elegante e disinvolto imprenditore che lavora nello smaltimento dei rifiuti tossici, concedendo agli imprenditori del nord Italia appezzamenti di terreno a costi dimezzati in cui scaricare i loro veleni. Poi Marco e Ciro, due delinquenti che compiono furti provocando non pochi fastidi al clan al comando della zona, i Casalesi, rischiando non poco la vita imitando gli atteggiamenti di Al Pacino in Scarface, il loro film preferito. E poi la vicenda che fa da sfondo, da collante a tutti gli episodi di terrificante violenza: lo scontro tra il clan Di Lauro e gli scissionisti, che portano il terrore per le strade con sparatorie e agguati improvvisi. Proprio qui si muove Salvatore, il tredicenne che ambisce a diventare uno di quelli contano nel quartiere, quelli con le macchine importanti e pieni di soldi. E insieme a lui c’è anche Don Ciro, il contabile che porta la semmana alle famiglie dei membri del clan arrestati o addirittura morti, ma che non ce la fa più a sostenere il peso della paura degli ex membri del clan che potrebbero coinvolgere anche lui in qualche rappresaglia.

Dall’omonimo best seller di Roberto Saviano e diretto da Matteo Garrone, Gomorra si è aggiudicato il Grand Prix Speciale della Giuria e il Premio Arcobaleno Latino al Festival di Cannes 2008; il premio come Miglior Film Straniero al Festival di Monaco e il Premio Palmi 2008. Un film dagli incassi strepitosi fin dalla prima settimana d’uscita.
  
Un film straordinario. Non ci sono altre parole per descriverlo, senza correre il rischio di essere riduttivi. E’ un prodotto verso il quale non si possono ricamare giudizi arzigogolati all’infinito visto che quello di cui si sta parlando è un film votato all’essenzialità della rappresentazione e del linguaggio. Potrei spendere parole sul taglio prettamente documentaristico; sull’intento simil-neorealista nel mantenere il dialetto napoletano nei dialoghi supportati da puntuali sottotitoli in italiano; potrei celebrare all’infinito la forza con cui la violenza viene messa in scena ogni singolo minuto della proiezione. Sono dettagli importanti, ma di fronte allo spessore di questo film (e del romanzo da cui è stato tratto, ma soprattutto della terrificante realtà da cui entrambi derivano) non si riesce a gioire più di tanto per la buona riuscita del lavoro filmico. 
  
Si rimane in silenzio, si sta a guardare con la (mezza) consapevolezza che queste scene di ordinaria barbarie si svolgono nel nostro “Bel Paese”, si sta a bocca aperta sgomenti, senza fiatare di fronte alla facilità estrema con cui la violenza e lo schifo dilagano ovunque continuando a sfornare proseliti da qualsiasi schieramento. Gomorra è un film che parla di Camorra, qualsiasi cosa voi pensiate che significhi questa parola. Stando a guardare questa pellicola però si riesce a ragionare un po’ di più sulle dinamiche (talmente fuori dall’ordinario da sembrare surreali) che reggono i rapporti di terrore nell’ambiente malavitoso. Per una volta non stiamo ad ascoltare i fatti di mafia distrattamente al TG, ma stiamo lì, incollati allo schermo senza via di scampo (una sensazione simile forse a quello che provava Alex in Arancia Meccanica, all’interno del cinema). La violenza è pura, densa come il miele, servita su un piatto d’argento senza condimenti d’altro genere; è la genuinità della violenza quella che vediamo, senza altre dinamiche di contorno, quasi innocente, come gli occhi di Salvatore quando gli viene chiesto di collaborare ad un omicidio.
Guardando il film ho subito pensato alle favelas brasiliane e continuo a credere che la vicinanza sia assoluta e insopportabile. Leggete la recensione su City Of God e applicate tutto a Gomorra: è un esercizio assolutamente naturale.

Concludo dicendo che la visione di questo film, per i suoi contenuti di denuncia sociale e politica, dovrebbe essere obbligatoria per tutti. Si eviterebbero moltissimi discorsi a vanvera su chi ha colpa di cosa e perché.

Giudizio: ottimo (e aggiungo, Fondamentale). 

a cura di Giorgio Mazzola

Appena il tempo di andar via

Inizialmente è la suspense a reggere la trama che quasi si deve costruire in pagine intrise da intrighi e drammi dicotomici. Alcune sottili sfumature accompagnano una lettura scorrevole che accoglie forti dialoghi. L’autore descrive personaggi reali incastonati però in un mondo introspettivo, annebbiato dalla delusione di un non arrivo; “Il leggendario pianista sulla terra ferma” apre una nota cinematografica, come se dovesse avvenire una collisione tra l’ardita regia di un giovane Kubrick (che l’autore, attraverso alcune interpretazioni, svela istintivamente il legame nei riguardi di questo regista) e l’intensa nostalgia di ricercare la propria infanzia, come H. Hesse farebbe in Demian. Riordinare l’anagramma di parole non scritte ma sottintese, arresta il logistico ritrovamento d’indizi mentre la rindondante cadenza è riorganizzata come a sottolineare l’inevitabile esistenza della cruda realtà. Il pensiero percorre un varco-temporale aprendo un impatto visivo, amalgamato poi in un contesto volutamente rivisitato come “la casa in montagna” una metafora trafugata dai tesori poetici di un eremita in cerca del suo ruolo. Si ha quasi l’impressione di vivere il romanzo per ritrovarsi nuovamente al punto di partenza, Fabio Morìci gioca bene con il tempo riuscendo ad avvalorare la teoria di A. Einstein. L’impatto emotivo trasloca nei confini di un’etica psicologica, custodita tra le pagine di un romanzo di genere fantastico che svela immagini, suoni e sapori di un Qualsiasi giorno di ordinaria follia.
Fabio Morici - Appena il tempo di andar via - Edizioni Il Filo

a cura di Iolanda La Carrubba

Fiori di serra

I libri di Miriam Ballerini mi sorprendono sempre piacevolmente per il loro messaggio fiducioso nell’uomo e nella sua natura, una fiducia che trova radice non in un ambiente sereno e normale, quanto nel disadattamento e fragilità dei personaggi scelti e trovati, ad esempio, tra gli anziani di una casa di riposo o tra persone che cercano (o non cercano) di sfuggire alle proprie paure e alienazioni mentali.
Dopo l’antologia di poesie e di racconti intitolata “Bassa Marea”, ricca di un’umanità povera, “bassa”, apparentemente inferiore, e che pure si fa scoprire degna e positiva (come cantava il grande De André: “dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fiori”), la penna di Miriam ci ha lasciati per troppo tempo privi di nuove opere. Meglio: privi di un nuovo libro, perché questo periodo è stato per lei ricchissimo di riconoscimenti e premi, mietuti ovunque e con regolarità impressionante con poesie di grande impatto come “Vecchio”, “Tizio” e “Prigione”.  Il grande lavoro che Miriam ha fatto in questo periodo è stato di ricerca e documentazione sulla vita carceraria. Uno studio che non si è fermato davanti a nulla, conoscendo e dialogando con tutte le realtà tragiche, disturbanti, difficili, che vivono in tale ambiente. Responsabili del carcere, agenti di custodia, parenti e carcerati sono stati contattati, seguiti, studiati con uno zelo che purtroppo sempre manca in chi, politici e giornalisti, di questa realtà si occupano solo quando qualche fatto grave di cronaca fa accendere i microfoni e le telecamere.Non volendo anticipare troppo, mi limito a riportare un brano dell’articolo che la prof. Maria Chiara Sibilia ha letto il giorno della presentazione del libro “Fiori di serra”: Il romanzo è ambientato tra le mura di una casa circondariale, il “Bassone” di Como. Il carcere è come una serra, dove i fiori vengono grandi e belli lo stesso.La formula descrittiva è originale. E’ un abbinamento tra reportage e romanzo in cui descrive le sue esperienze di osservatrice diretta della vita carceraria, intrecciate alla trama del romanzo che si sviluppa attorno alla figura della protagonista, Gloria Tassi, in carcere per aver ucciso accidentalmente un uomo durante una rapina.
I libri di Miriam Ballerini non deludono mai, è anche questa volta la sua analisi e la sua denuncia arrivano a segno, con una forza e una lucidità che fa aprire gli occhi anche a chi preferisce, davanti a certe situazioni, la comoda vigliaccheria di volgere lo sguardo altrove.

Fiori di serra di Miriam Ballerini - Serel International-Editrice 

a cura di Marco Salvario

30 giorni di buio di David Slade

Barrow… Alaska, alla vigilia della notte più lunga dell’anno, che dura 30 giorni, il giovane sceriffo Ben Oleson si trova a fronteggiare l’attacco di un branco di famelici vampiri, decisi ad approfittare di questa insolita occasione.
Resistere fino all’alba e’ l’unico modo per sopravvivere…

Sam Raimi con la sua casa di produzione Ghost House traspone sullo schermo una intensa e dark Graphic-novel, 30 giorni di buio, tralasciando la visione romantico-gotica dei romanzi di Ann Rice e trasformando il vampiro solitario e perennemente combattuto in un predatore feroce e spietato che caccia in branco…
In una piccola cittadina sperduta in Alaska durante l'inverno per un mese intero cala la notte, per trenta giorni il sole scompare lasciando la città in preda della neve e dei ghiacci, la maggior parte della popolazione si allontana, nei giorni precedenti alla fatidica lunga notte la cittadina è in fermento, solo poche anime resteranno in città in attesa del ritorno di amici e parenti che hanno deciso di trasferirsi altrove per quel mese, ma questa volta strani avvenimenti precedono il tramonto e le partenze, sembrano atti vandalici compiuti da qualche spostato, ma in realtà sono "preparativi".
Lo sceriffo Ben Oleson (Josh Hartnett) in piena crisi coniugale si troverà ad affrontare un branco di vampiri venuti a “pasteggiare” nella buia cittadina, luogo perfetto per un lungo e sanguinoso banchetto.
Con l'aiuto della moglie Stella (Melissa George) e di alcuni abitanti sopravvissuti all'assalto, Eben cercherà di sopravvivere sventando trappole  e affrontando il manipolo di succhiasangue con tutti i mezzi che avrà a disposizione in attesa della agognata e liberatoria alba.
Il regista David Slade rimane fedele al fumetto e prende esempio dal cinema asciutto e citazionista di John Carpenter per una messinscena da fortino sotto assedio, Distretto 13, La cosa, Fantasmi da Marte sono alcuni dei film a cui sembra essersi ispirato Slade per ritrarre questa notte di massacri.
Nei film citati Carpenter usava, anche per sopperire ad un budget alquanto limitato, pochi attori e un'ambientazione che trasmetteva un senso di isolamento e assedio mirando ad una sorta di empatia con lo spettatore in continua tensione.
La tecnica è la medesima, che siano gli zombi di Romero o gli alieni di Carpenter questo genere di struttura narrativa funziona e permette di mantenere alta l'attenzione del pubblico.
Grazie ad una fotografia cromaticamente simile a quella di film come 300 o Pathfinder, dove i colori perdono vivacità in favore di una colorazione dalle tinte fosche virate sul bianco e nero, in alcune inquadrature è forte la sensazione di tavola disegnata, l'impatto visivo è notevole, così come il make-up dei vampiri, più simili a famelici lupi che al tenebroso conte Vlad di stokeriana memoria.

La parte prettamente splatter non manca, anche se alcune sequenze un po' eccessive sono state solo "accennate", per il resto ottimi effetti, facilitati dalla fotografia e dal contrasto sangue-neve di grande effetto. Da segnalare una scena di decapitazione incredibilmente realistica.
L'approccio da survival-horror tanto caro al mondo dei videogames qui si fa vivo è durante la storia prende il sopravvento, così i personaggi assumono una caratterizzazione stereotipata, lasciando spazio alle emozioni e alle reazioni in cerca di un ritorno emotivo forse troppo facile.
Un maggior spessore nel delineare alcuni caratteri avrebbe facilitato un coinvolgimento maggiore da parte del pubblico, ma trovate come quella della bambina-vampiro o della piccola esca umana sono effettivamente efficaci.
Come in Fantasmi da marte anche qui gli invasori hanno una sorta di personalità che ne fa una razza a parte, il loro linguaggio innanzitutto, peculiare e fascinoso nella sua incomprensibilità, il muoversi in branco, l'abbigliamento che connota un'appartenenza, il leader del branco, che molti hanno accomunato agli infetti di Io sono leggenda, ma qui siamo in un altro campo, il vampirismo come razza millenaria, prima dell'uomo, non malattia conseguente ad esso.
Una piccola parentesi per segnalare un ottimo Josh Hartnett veramente in parte e il leader dei vampiri che con l'aiuto del make-up risulta inquietante e misterioso quanto serve.
Il resto del cast fa la sua parte senza lasciare molta traccia del proprio passaggio, rimangono la fascinosa ambientazione, l'intrigante caratterizzazione dei vampiri ed un finale un po' scontato… ma non chiediamo troppo.
In conclusione un buon horror dalla forte connotazione action che ne fa' un prodotto appetibile non solo per gli amanti del genere.

a cura di Pietro Ferraro

Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese


Henry (Ray Liotta) è un giovane ragazzino italo-irlandese che vive nei quartieri poveri e malfamati di New York e che sogna di diventare un gangster, credendo fin da subito che quella sia la vita che fa per lui. Inizia così a “lavorare part time” per il boss Paul Cicero (Paul Sorvino) e la sua banda. Sotto la guida e protezione dello spietato (e anche lui irlandese) Jimmy Conway (Robert De Niro) e con al fianco lo psicopatico amico Tommy De Vito (Joe Pesci) farà strada all’interno della malavita gestendo il traffico d’armi e di droga. Le cose cambieranno quando Henry inizierà davvero a capire con che tipo di gente ha passato tutta la vita, pronta a far fuori anche gli amici più stretti, se necessario.
  
Premio Oscar a Joe Pesci nel 1991; premio speciale per la regia a Martin Scorsese alla Mostra Internazionale di Venezia del 1993 (Leone d’argento); vincitore del BAFTA award come miglior film nel 1991, Goodfellas (tratto da una storia vera, dal romanzo di Nicholas Pileggi Wise Guy) è senza dubbio uno dei film più rappresentativi dello stile inconfondibile del regista italo-americano pilastro della New Hollywood. Anche se, a parte il caso di Joe Pesci, non è arrivata nessuna statuetta che potesse sottolineare il valore di questa pellicola (sempre che gli Oscar servano a questo…) resta comunque uno dei suoi lavori più riusciti. Cercare di capire il perché sarebbe un mero esercizio di analisi, ma è inevitabile citare alcuni elementi peculiari: innanzitutto il cast di attori assolutamente di prim’ordine, con un Joe Pesci da Oscar (veramente incredibile e terrificante nei suoi scatti di incontrollata violenza), un Robert De Niro che non si lascia andare alle sue solite smorfie e un Ray Liotta assolutamente in forma, molto credibile nel ruolo del mafioso mezzosangue “adottato” dalla Mala. E ancora, non si possono non citare i vari Paul Sorvino, Mike Starr, Frank Sivero e Frank Vincent che, complice questo film, compariranno tante altre volte nella parte dei soliti mafiosi italiani (seri e non). E poi lui: Scorsese, che dà prova della sua straordinaria capacità di narratore, riuscendo a non far pesare assolutamente le quasi due ore e mezza di  film, dosando con sapienza le scene di violenza assoluta e quelle più legate al racconto, grazie anche alla voce narrante fuori campo di Henry a costante supporto dell’intera vicenda.  
  
Ma sebbene molte delle soggettive siano del protagonista (insieme alla voce appena citata) il punto di vista di questa storia non è solo quello di un personaggio in particolare. Sebbene noi vediamo attraverso gli occhi di Henry gli spaventosi scenari celati dietro i sorrisi accomodanti dei gangster italo-americani, la testimonianza sembra essere quella di un visitatore esterno che ci prende per mano e che riesce a filmare di nascosto le attività illecite di questi criminali. La forte presenza della camera somatizzata è una caratteristica peculiare di Scorsese che in questo modo riesce, sì, a raccontare vicende e storie, ma si tiene ad una certa distanza di sicurezza dall’invisibilità  montaggio classico, facendo sentire la propria presenza costantemente (i movimenti di macchina in avanti ogniqualvolta si introduca un personaggio nuovo e le “false” soggettive, ovvero gli sguardi degli attori in macchina rivolti non a un personaggio – come può sembrare in un primo momento -  ma allo spettatore o al regista). Per non parlare poi delle musiche, sempre attentamente scelte e introdotte per sottolineare non solo il passare degli anni (circa una trentina, dagli anni ’50 agli anni ’80), ma anche le diverse tipologie di scene (Gimme Shelter degli Stones, mentre Henry e l’amante sono impegnati a tritare la coca – canzone che compare anche in The Departed – per sottolineare l’atmosfera trasgressiva e un po’ trash, ad esempio).
  
Godfellas è un film di mafia, in cui però è la violenza a farla da padrone. In un mondo in cui nessuno guarda in faccia a nessuno e in cui l’amicizia è un valore relativo, è assolutamente superficiale per Scorsese concentrarsi sulle dinamiche dell’intreccio, dato che nulla ha una logica, in questa pellicola (a partire dalle esplosioni di violenza di Tommy/Joe Pesci, assurde e pazzoidi, dalle quali Tarantino avrà sicuramente preso ispirazione per i suoi lavori): ecco che allora tutto scorre con una naturale indifferenza, con uomini trucidati da assassini i quali nel “pieno del loro lavoro” parlano del ristorante in cui andranno a mangiare più tardi. Forse è proprio questa mancanza di un vero e proprio fulcro drammatico che a questo film è costato l’Oscar (sovente vincono i film che fanno piangere, lo diceva anche Billy Wilder…): guardare Godfellas è un po’ come assistere ad un reportage di guerra in cui lo spettatore è attratto dall’azione in sé, più che dalle dinamiche e dalle descrizioni del reporter. E’ un esercizio voyeuristico che forse pecca di freddezza di eccessiva indifferenza, ma che ci tiene incollati allo schermo dall’inizio alla fine.
 
Giudizio: ottimo.

a cura di Giorgio Mazzola