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Un beffardo sorriso di Daniele Modica

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Zia Tea fu trovata riversa sul pavimento nel corridoio della nuova casa dove si era trasferita recentemente con il marito e i due figli piccoli. Secondo il medico legale il decesso era avvenuto nella notte tra il 22 e il 23 gennaio 2001, all'incirca verso le due di notte. Due ore e mezza dopo che avevo lasciato la casa. Stando al referto medico la morte era stata causata da emorragia interna provocata da sette colpi inflitti all'addome della vittima poche ore prima. Il ventre e le braccia della zia erano piene di tumefazioni, alcune vecchie di giorni, altre più recenti. I giornali trovarono in zio Sandro il colpevole ancora prima degli inquirenti. Avrebbe picchiato la zia procurandole diversi danni agli organi interni.  Ma io so che non è vero, e lo so perché quella sera ero là. Fu l'ultima volta che vidi la zia. Sarebbe dovuta essere una normale visita, noiosa e prevedibile come tutte le altre. Invece lasciai l'appartamento sconvolto, il volto sudato e i polmoni desiderosi dell'aria gelata di quella notte di neve. Ma questo viene dopo.Nelle ultime ore del pomeriggio del 22 gennaio 2001 sono ancora del tutto inconsapevole di quello che avrei visto e sentito. Ci sono io alla fermata dell'autobus nel fragoroso luccichio della periferia, diretto a casa di zia Tea per vedere lei, i bambini e zio Sandro, che è come un  cucciolo fedele che scodinzola e mi fa le feste ogni volta che mi vede. Da qualche mese gli zii si sono trasferiti in periferia, dove gli affitti sono più bassi. Per questo non è più così facile andare a trovarli con regolarità. La distanza mi obbliga a cambiare tre bus e a farmi pure un pezzettino a piedi. Di acquistarmi una macchina non se ne parla con lo stipendio pidocchioso che mi danno. E così mi rassegno alla trafila delle fermate e dei mezzi pubblici che, maledizione, mai una volta arrivano in orario, anzi girovagano flemmatici nelle nebbiose giornate invernali come attempati monatti, seguaci di tabelle alla fine sempre disattese. Cosicché le persone pazientemente si acquattano sui cigli delle strade, in prossimità degli appositi cartelli, e come segugi attendono, flettendosi ritmicamente sulle punte dei piedi, tendendo il collo e stringendo gli occhi nella speranza di scorgere la tanto agognata mole arancione in movimento.
Parto nel pomeriggio, dopo il lavoro. Un chilometro e mezzo per raggiungere la fermata più vicina e dopo un tempo indefinibile salgo sul ventuno e scendo in corso Moro, davanti alla Coin. Cambio altri due bus e finalmente arrivo a destinazione. M’incammino, le mani nelle tasche del cappotto, verso il numero dodici della via, un insignificante palazzo dei primi del novecento che ora, a causa dell’incuria, si abbandonava ad un indecoroso invecchiamento. Vecchi smunti e tabaccosi, incorniciati dalla vetrina di un bar sport, giocano a carte nella sala esigua, soffocata in quattro muri ingialliti dal fumo. Un telefono appeso imprigionato nello scotch e un flipper ormai estinto. Il barista è un anziano con i capelli bianchi raccolti in un codino corto ed inzaccherato. Da quello schermo di fumo e urla vernacolari non smettono di uscire variopinti motti gridati con voce raschiata. Gli schiamazzi e le bestemmie dei giocatori di carte volteggiano nella sala unta del bar, poi si fermano sulla porta come un’insegna minacciosa e infine si smarriscono nell’aria fredda e frizzante, subito sostituiti da altre imprecazioni, in un rinnovo continuo. Riprendo il cammino con le bestemmie che mi seguono rimbalzando per il viale. Mi fanno pensare a Dio. Alzo la faccia verso l’alto. Metafisiche nuvole viola stanno profanando il candore oscuro del cielo.Ecco il 12. Suono. Mi risponde una voce metallica: -Checco?-. Checco. Il mio nome sarebbe Francesco, ma continuano a chiamarmi così da quando avevo dieci anni.
-Checco, sei tu?
Rispondo e il portone si apre. Le scale del palazzo sono vorticose e odorano di muffa. Lascio la città alle sue sacrileghe cacofonie e mi arrampico in cima. Arrivo con un principio di enfisema all’agognato pianerottolo. La zia e i bimbi, Giulia e Matteo, mi accolgono con grida festose e abbracci passionali (neanche stessi tornando a casa dopo anni passati come artigliere a Beirut). Lo zio non c’è. Vengo ricondotto mio malgrado a perlustrare le stanze della casa per rintracciare anche i più insignificanti cambiamenti apportati dalla mia ultima venuta. È Il rito di ogni visita in casa di zia Tea. Lei mi precede con i bambini e gesticola indicando qua e là, mi racconta le modifiche che vorrebbe completare ma che con ‘sti figli come si fa? Non ti lasciano il tempo neanche per grattarti la testa! I piccoli Giulia e Matteo intanto ignorando le lamentele della madre ci zampettano intorno vocianti ed eccitati per la novità della mia presenza.- Dov’è lo zio? - domando mentre zia Tea mi appoggia davanti una tazza di caffè fumante. La tazza ha il disegno di un cavallino di pezza che salta; due bottoni al posto degli occhi gli conferiscono un'aria spiritata e poco rassicurante. -Ma che ne so!- dice la zia, ma vorrebbe dire altro. E invece tace, come sempre. E’ difficile cavar fuori qualcosa dalla zia. E’ di poche parole lei, letargica e devota, dalla mole importante come una quercia invecchiata anzitempo.
I bambini giocano nel grande tappeto cremisi al centro della stanza, tra il televisore e il divano. I muri intorno a noi, rozzi e disadorni danno l’impressione di una primitiva caverna piuttosto che del salotto di un modesto appartamento proletario.Fuori s’è messo un gran vento, una luce astrusa arrugginisce i tetti e imporpora i vetri delle finestre. Mi alzo.- Sembra voglia nevicare- dico.
- Ma va là- stipula la zia senza un motivo plausibile.
- Scusa, non vedi?- replico.
Oltre i vetri sporchi della finestra c'è un cielo gotico e misterioso. La mia visita sta seguendo il copione di sempre, tranne per qualcosa che non riesco bene ad identificare e che mi lascia come una sensazione di irrisolutezza. C'è un perenne affanno scolpito sul volto della zia, un contrarsi leggero delle sopracciglia, l'incresparsi della pelle sulla fronte e ai lati degli occhi. Si è alzata per sgridare i bambini e ora torna al tavolo, avvicina il suo considerevole deretano alla sedia, lentamente e con le gambe tremanti per lo sforzo. Poi, quando non mancano che pochi millimetri, si lascia andare, mettendo a dura prova il  robusto legno della sedia. Non è felice, questo è evidente. Forse c’è qualche problema a casa, probabilmente con lo zio. Nessuno dubiterebbe mai di zio Sandro: lui è un buono. La gente si è sempre sentita tranquilla con quelli come lui, forse perché tende a sottovalutarli. Non sanno il male che posso fare, i buoni. Lo zio è un muratore poco capace ma molto volenteroso. All’inizio un pochino lavorava, poi le cose erano andate peggio: di lavoro ce n’era sempre meno, lui si innervosiva e per non sfogare le sue frustrazioni sulla famiglia se ne stava a zonzo tutto il giorno dio-solo-sa-dove a fare dio-solo-sa-cosa, per poi tornare a casa a sera smunto e depresso.
Un  tonfo sordo proveniente dall’altra stanza, forse dalla cucina, interrompe bruscamente i miei pensieri.-Cos’è successo?- chiedo.
-Perché?- dice la zia.
-Come perché? C’è zio Sandro di là? Ho sentito un tonfo come qualcosa che va in pezzi- spiego e faccio per alzarmi.Con una violenza insolita la zia mi spinge sulla spalla, costringendomi a sedermi. Poi sorride.
-Lo zio è fuori come al solito. Sicuramente il rumore veniva dalla casa dei vicini. Stai tranquillo. Vuoi dell’altro caffè?
-Sì zia, grazie.La zia torna dalla cucina con in mano la moka, la inclina leggermente e il liquido scuro fluisce, in un filo morbido, sul fondo annerito della mia tazza. Mentre la ringrazio, noto come la mano con cui regge la caffettiera tremi vistosamente, come se reggesse un’incudine. La cosa mi impensierisce, non mi era mai sembrato prima che alla zia tremassero le mani. Lei come accorgendosi dei miei pensieri abbassa gli occhi e ritira il braccio, poi si volta e va verso la cucina. E’ evidente che i miei sguardi l’hanno messa in imbarazzo. Solo quando è già scomparsa nel corridoio mi decido ad andare a parlarle. Magari si apre più facilmente se presa in disparte lontano da orecchie infantili. Esco dal salotto e mi affaccio poco poco dalla soglia della cucina. Vedo la zia che getta la moka nel lavandino senza curarsi degli schizzi che riempiono le piastrelle intorno. A terra ci sono i mille pezzi di un bicchiere di cristallo frantumato. Ferma con le mani appoggiate sul bordo, abbassa la testa e stringe gli occhi talmente forte che penso non riuscirà più ad aprirli. La faccia le si riempie di grinze, una vecchia quercia con una vecchia corteccia graffiata. La bocca si deforma in una smorfia intraducibile e il volto le diventa paonazzo. Ora apre la bocca e il respiro si fa pesante, mentre la mano destra come in preda ad un raptus compulsivo traccia mille croci sul petto. Poi emette un rantolo rauco, simile ad un grugnito. Ora le mani tremano anche a me, indietreggio e senza fare rumore torno velocemente al mio posto in salotto.Dopo pochi secondi ecco che la zia rientra, seria ma col volto disteso, come se nulla fosse successo. Si siede di traverso sulla sedia e appoggia pesantemente la mano destra sul tavolo. E’ un gesto che mi mette ansia. Le unghie sono incolte, smangiucchiate qua e là e nere in alcuni tratti. Una mano ferina, dove si concentrano impeti sfrenati e contrapposti:  compostezza dei modi e slanci primordiali contenuti a fatica. Una mano dove si combatte una guerra  impudica e silenziosa.-Ti ho visto!- dice all’improvviso la zia interrompendo il lento ottenebrarsi delle mie riflessioni. Divento una brace. Come può essere? Come fa ad avermi visto se neanche si è voltata. Non può essere.
-Quando è stato?- continua -l’altro ieri forse. Eri per strada, alla fermata del bus e io pass…-
La zia prosegue ma io non sono più in grado di ascoltarla. E’ il sollievo, la mente si rilassa. Non è da me tutta questa mancanza di autocontrollo. Mi sento strano: io, di solito cinico e indolente, ora incrinato da qualche semplice anomalia.
-Mamma mamma guarda!
Giulia scintilla d’entusiasmo e indica, oltre la finestra, quel pulviscolo bianco, ancora quasi impercettibile, che fluttua nell’aria. Ci alziamo e andiamo a vedere, i visi appiccicati al vetro che s’appanna ritmicamente.E’ sempre un evento la neve in città. La notte scende cremosa e molle sui tetti, cola sui panni appesi ai fili di nailon, soffocando mestamente gli ultimi bagliori rossastri. Dalla strada non viene alcun segno di vita e un’improvvisa malinconia mi stringe la gola. Sono arrivato qui attraversando la frizzante e nervosa vigoria della città, ma ora con l’arrivo del buio la gente sembra pizzicata dalle ataviche consuetudini della pianura e la giornata si spegne intorno a vecchie tavole scaldate da un brodino di pollo. Mano a mano che ci si allontana dalla città questo impulso collettivo si fa più incalzante.
-Che bello mamma!
Giulia ha negli occhi scuri mille cristalli di neve.-Hai visto, tesoro?- dice la zia con finto entusiasmo –E' bello, vero?
Non c’è proprio niente di bello stanotte. La neve, il buio, i bambini, il calore della casa. Quelli che solitamente sarebbero i particolari di una scena idilliaca, mi suscitano un’inquietudine sconosciuta, esacerbata dai muri grezzi di questo covile e dalla luce tenue della lampada che non arriva a lambire tutte le ombre.E le ombre, tacitamente, giacciono. Mi sento fermo, statico, paralizzato nell’angolo più fatiscente di me stesso. Mentre fuori tutto scorre. Il vento invisibile striscia rumorosamente sull’asfalto nero e i fiocchi si attardano sotto i lampioni. La terra brulla dei campi al di là dei palazzi impallidirà stanotte, e le foglie dei sempreverdi gemeranno al freddo e al buio. Ma non c’è grido che possa anticipare di un secondo l’alba. Immense sagome nere ci stanno davanti mute: sono gli orgogliosi edifici del novecento, ornati di decine di quadrati luminosi, da cui filtrano scene di vita quotidiana. Calde cene e risate e telefonate e litigi e appuntamenti e cosce nude e sveglie che suonano troppo presto e canti stonati sotto la doccia e polvere che si accumula sulla foto del nonno e della nonna e feste di compleanno  e bomboniere e viaggi e progetti e voglia di trasgressione e bugie e poi gocce di pipì sulla ciambella; e ancora lavatrici e pentole e tappeti e tende bianche. Promesse. Avverto in me l’estasi ansiosa del ramingo che sa che nessuna casa gli apparterrà mai. Resterò ancora un po’ nell’immobilità infernale di queste mura, al riparo dalle emozioni, immersi, come siamo, nell’irrispettosa solitudine della periferia.
-Che bello mamma! Andiamo fuori ti prego!
Questa bambina comincia a seccarmi.
-Mamma, mamma, io voglio, dai!
Zia Tea sembra non sentire, guarda fuori distrattamente. Qui è necessario reagire per non soccombere.-Non si può andare giù adesso- dico -Bisogna fare da mangiare! E indovina chi verrà messa in forno? Una bambina cattiva di nome Giulia!
Incomincio a punzecchiarla e lei si lamenta indecisa se ridere o tenere il broncio.
-Ho paura a stare qui- sussurra tra sé zia Tea.
Ah no! Ecco, ci mancavano solo i piagnistei melodrammatici della zia. Ma io stasera non sono in grado di affrontarli. Sarei dovuto andare via prima. Allora fingo di non aver sentito, faccio per chinarmi sui giocattoli che riempiono il tappeto e balbetto qualcosa a Giulia.-C’è qualcosa di strano qui- insiste la zia e digrigna i denti.
-A giocare!- grido imperterrito e mi butto sul pavimento provocando le risate di Giulia e del piccolo Matteo, il quale, in tutto quel tempo, infischiandosene della neve, era rimasto concentrato sui suoi giochi.
Ecco qui, tutto risolto. Certo quello che ha detto la zia mi impensierisce, ma chiederle spiegazioni sarebbe autolesionista. So cosa succederebbe poi: bilanci esistenziali accompagnati da tante lacrime. Non sopporto la gente che piange. Eppure la mia coscienza brontola. Magari dopo chiedo allo zio o alla mamma se è successo qualcosa. La mia coscienza continua a brontolare. Per farla tacere coinvolgo i bambini in un combattimento di judo a terra. Con la coda dell’occhio vedo la zia che torna a passi lenti al tavolo, il volto scuro, il solito rito per torturare quella povera sedia e, dulcis in fundo, un melodrammatico sospiro finale.
La coscienza ora mi sta urlando improperi. D’accordo, d’accordo, come vuoi tu. Mi alzo e vado a sedermi a fianco a lei. Passa un tempo indefinito.-Senti, zia…
-Mamma sei un’idiota!
Mi volto di scatto tra il divertito e il sorpreso verso il mittente di quella constatazione poco carina. Giulia. Lei continua a giocare come se non avesse detto niente. Ma l’ha detto, non sono pazzo! A volte vorrei non sentire, è vero, ma ci sento benissimo.
-Mamma sei proprio un’idiota e cucini da schifo!
Rieccola. Bene, ora comincio a preoccuparmi sul serio. Giulia ha solo cinque anni. La zia non dice niente, fissa il tavolo. Che succede qua dentro insomma? Si sono fatti tutti lobotomizzare? Se me ne fossi andato prima! Volendo sarei ancora in tempo; è che adesso sono curioso. Vorrei tanto capirci qualcosa e visto che la zia sembra aver smarrito il senno mi metto in ginocchio e afferro delicatamente Giulia.
-Ma cosa dici? Dove le hai sentite queste cose? Lo sai che non si dicono? Sono cose brutte!
La bimba cerca di divincolarsi. Direi che se ne frega di me e dei miei discorsi. La lascio andare e torno davanti alla zia.
-Zia hai sentito? Che cavolo, non dici niente? Tua figlia ti ha chiamata idiota due volte!
La cosa ha il suo lato comico, devo dire. In circostanze normali mi sarei fatto venire una crisi respiratoria dal ridere, ma in questo caso è piuttosto inquietante. La zia è seria e non risponde, gli occhi bassi continuano ad osservare il tavolo. Tento di buttarla sullo scherzo.
-Che cucini male può averlo capito anche da sola, ma una bambina di cinque anni non dice idiota a sua madre. Forse l’ha sentito in televisione … Oppure potrebbe …
Mi viene in mente che magari lo zio in uno scatto d’ira può aver offeso la moglie di fronte ai figli. Tengo questa teoria per me.La zia è ancora muta e non risponde.
-Tesoro, chi te le ha dette queste cose?- tento –Te le ha dette papà? Allora si può sapere chi? Zia dì qualcosa porca miseria! Giulia, chi le dice queste parole?
-Me le ha dette l'uomo che viene a casa nostra.
-Che uomo? Chi è?
-E' un mio amico. È simpatico. Si diverte a far arrabbiare la mamma. E mi fa dire certe parole.
-Ah sì? E dov'è lui adesso?
-E' in piedi di fianco a te.-Giulia, ma qui non c'è nessuno. È un amico immaginario?Un rumore improvviso alla serratura della porta di casa. Deve essere tornato zio Sandro. Infatti dopo poco si annuncia con uno sbuffo e un ciao svogliato. E finalmente compare smunto con il suo incedere depresso all’entrata del salotto. I pantaloni sporchi e bassi, il fisico asciutto che ha sempre avuto. Si da un colpetto all’uccello per sistemarselo, poi mi vede e si allarga in un sorriso bonario.
-Checco! Come stai? Se sapevo che venivi tornavo con qualcosa da mangiare! Potevi dirmelo! Resti a cena eh!- non era una domanda –Non ci provare neanche a dire di no.D’un tratto gli era tornata l’energia, quel entusiasmo genuino e popolano che prende lo zio ogni volta che vado a trovarlo. Ora si è fermato a riflettere ritto al centro della stanza, le mani sui fianchi.
-Adesso ci organizziamo come si deve, tu ed io, che ne dici? Bene. Usciamo a comprare qualcosa da mangiare, magari della carne, che ne dici? Sì sì, della carne! Ma buona però! Non come quella roba di merda che compra tua zia…-
-Sandro, per favore!- interviene la zia con uno sguardo scuro da rimprovero –Non puoi evitare?
Ecco la bambina da chi le impara le parolacce, altro che amici immaginari! Mistero svelato. Porca miseria, mi era preso un colpo. Non sono certo un moralista, ma accidenti, dico io, quella bambina è un angioletto! Stona proprio. E’ come se un cherubino si mettesse a scorreggiare. Gli apocalittici squilli di tromba …
Lo zio  intanto non ha smesso un attimo di parlare, faticosamente avviluppato in  questioni di una semplicità disarmante.
-Adesso magari mi cambio, così … no no,  mi cambio dopo che è già tardi, dopo chiude. Come si fa poi, se chiude? Mannaggia. Andiamo dai, muoviamoci. La carne di coso è buona, coso dai, come caz – qui si rende conto, si guarda in giro, vede lo sguardo torvo della zia e approda in un più felice e meno triviale – caz-pita si chiama?-Lo zio è un pezzo di pane, ma quel pane vecchio di due giorni, difficile da masticare. Quando apre bocca ti bombarda di parole che, per il solo fatto di trovarsi nei pressi del suo cavo orale, vengono degradate nei monotoni lemmi di una lingua che non ha mai conosciuto l’ebbrezza di alcuno slancio verso l’alto, costretta, meschina, a  strisciare come il primordiale serpente.
In che situazione mi trovo! Vorrei dire di no, che devo andare, perché mi hanno già stancato.-Ehm, zio, io veramente non saprei…
-Che c’è? Non dirmi che vuoi già andare via? Devi assolutamente rimanere!
Dice queste ultime frasi con un accento più marcatamente meridionale, segno di forte rincrescimento. Lo zio è uno di quei veraci uomini del sud che tendono ad offendersi quando declini un loro invito alla tavola. Gli sembra che disprezzi. Non si può fare.-Va bene, se non disturbo …
La zia ha un rialzo d’adrenalina (roba che per recuperare l’energia spesa dovrà dormire due giorni): -Ma che disturbo e disturbo! Non dire fesserie.
-Deciso allora- stipula lo zio soddisfatto.
 Non fa altro che parlare zio Sandro, mentre la strada si imbianca. Procediamo nel vuoto surreale della via, schizzati ritmicamente sul viso dal giallo opaco dei lampioni, diretti a nord, verso la campagna, per comprare qualcosa da mettere a tavola.
-Vedi- dice nel mezzo del suo interminabile monsone di parole -in fondo alla strada, dopo il “Luxury”, la discoteca, c’è un distributore abbandonato. Lì c’è un vecchio alimentari. Due anni fa hanno costruito quel grosso centro commerciale, hai presente? In linea d’aria saranno cinquecento metri…
-Sì, so dove si trova.
-Ecco bravo, ma ti dirò, quel negozietto ha continuato a lavorare come se niente fosse. E sai perché?
Ed ecco il genere di frasi retoriche che mi indispongono terribilmente. Sono domande solo in apparenza. L’interlocutore non vuole veramente che io dia una risposta, anche se mi pone una domanda a cui, per quanto possa saperne lui, io potrei essere perfettamente in grado di rispondere. Ma lui questo non lo vuole, lui desidera intimamente che io mi mostri ignorante e, per questo, assetato delle sue splendide rivelazioni. Sarebbe molto sconveniente se poi io non stessi al gioco e avessi addirittura pronta una risposta. In quel caso esisterebbe l’eventualità, quasi la certezza, che quanto da me espresso si riveli come minimo un’ingenuità, se non proprio una cazzata. Dunque non è interessato a conoscere una mia opinione su un fatto, vuole semplicemente masturbarsi nell’autocelebrazione.E lasciamolo godere. Non vorrei togliergli questa gioia.
-Non saprei proprio zio. Perché?
-Te lo dico io, perché- gongola lo zio -Perché qui sono tutte persone anziane e una volta che si prendono l’abitudine di andare in un posto, è difficile convincerle ad andare da un’altra parte, specie se più lontano
Mentre zio Sandro sciorina le sue acute deduzioni, il cielo diventa di un nero rossastro e i palazzi incombono su di noi con le loro sagome scure. Qualcuno deve aver momentaneamente disattivato l’audio dell’universo. Un regista che si diverte a rimescolare le leve e i cursori del Grande Mixer, con una mano alza qua, con l’altra rotea di là. E improvvisamente i nostri passi e le nostre voci svettano nel viale, amplificate come un organo in chiesa. Zio Sandro ed io: due allegri compagni di bevute nell’ebbro dormiveglia della notte. Ma che notte? E’ solo ora di cena.
Al termine della strada, come già ampiamente preannunciato dallo zio, i fantocci di nailon e scotch nascondono le colonnine del distributore fantasma. Il negozio è una scatola da scarpe grigia con le serrande abbassate a metà. Dalla vetrina si può vedere l’interno. Tre file di scaffali, una cassa, un frigo per latticini e bibite, la porta di un ipotetico retrobottega. Tutto abbastanza scontato, a parte i due cadaveri che riordinano i prodotti sugli scaffali.
Zio Sandro dà un colpo alla serranda, il suono secco e improvviso risveglia i due morti (evidentemente padre e figlio) dal loro esangue intorpidimento.
-Dai entra- mi invita lo zio tenendomi la porta aperta.
Mi chino per oltrepassare la serranda, mentre lui ha già coinvolto dead-man-walking-padre in una chiassosa discussione (ovviamente a senso unico, vale a dire che parla solo lui). Il rampollo del casato invece sta fantasticando con viso rassegnato davanti alle passate di pomodoro. Sul pavimento stinto le tracce del nostro passaggio: acqua sporca e neve.
Piuttosto che dover prendere parte alle solite chiacchiere (come va mah si va tutto bene a casa non ci possiamo lamentare ah i figli ti fanno impazzire non è facile crescere dei figli al giorno d’oggi hai visto la partita domenica…) preferisco fingermi assorto nella scelta di qualche cosa da mangiare, che peraltro è il motivo per cui siamo lì, anche se lo zio sembra essersene dimenticato. Cinque minuti dopo, mentre sto meditando di fronte al frigo dei latticini, con l’aria del sacerdote delfico nell’atto di desumere arcane profezie dalle etichette colorate dei formaggini, arriva lo zio.
-Allora che vuoi mangiare?-
D’un tratto mi sento profondamente infastidito dalla sua infantile letizia, mi tornano in mente le lamentele della zia, la sua aria triste.-Cos’ha la zia?- lo interrogo a brucia pelo. E lui per tutta risposta se ne rimane lì a bocca aperta.-E' come se ci fosse qualcosa che non va, e anche Giulia dice cose strane- insisto.
-Ultimamente siamo tutti molto stanchi- conclude laconico -Cosa prendiamo allora?– tenta di fuorviare, ma poi vedendo il mio disappunto:  –Su Checco, stanno chiudendo– mi dice -non lo vedi che ci stanno facendo un favore?
Quest’ultima affermazione la pronuncia con un certo godimento che gli viene dalla consapevolezza di poter fare ciò che alla massa è precluso. E’ un tipo fatto così lo zio, gli piace sentirsi importante e privilegiato, senza doverselo meritare.
-Va bene, muoviamoci, basta che dopo mi spieghi!-
Siglato il patto ci dedichiamo ad alcuni frugali acquisti. Niente carne, un bel piatto di carbonara, buono, soddisfacente, economico. -Gli spaghetti a casa ci sono già, figuriamoci se non ci stanno spaghetti in una casa italiana -ridacchia lo zio- Mancano solo uova e pancetta.
Dopo un rapido
eccotieniilrestograzietroppogentilegrazieatedelladisponibilitàarrivederciaprestobuonanottesalutaacasa, siamo di nuovo in strada. Frenetici fiocchi di neve nell’aria scura. Prendo il famoso e sventurato toro per le corna: -Insomma, parliamoci chiaro. La zia non fa altro che ripetere che c’è qualcosa di strano nella casa. La vedo cupa, sfiduciata e poi, scusa, sua figlia l’ha chiamata idiota due volte e lei non ha battuto ciglio.
Lo zio si rattrista e cade in un insolito mutismo; mi chiedo se sia di malaugurio. Ha lo sguardo perso nel candore dell’asfalto. Il vento ci schiaffeggia la nuca costringendoci ad avanzare intabarrati nei baveri delle giacche. Le tende dei balconi circostanti spumeggiano senza sosta. Mentre tutto viene spinto, incalzato e premuto da quest’aria infernale, io e zio Sandro avanziamo inesorabili e ritmici. Poi lui si ferma in mezzo alla strada deserta nell’interminabile miserere del vento, il volto gli si fa paonazzo, come in preda a dolorosi conati.-Sarà strano per lei, forse! Ma io sono cattolico e so che certe cose possono capitare qualche volta
-Ma che accidenti vai dicendo?
Nessuna risposta, lo zio mi prende per il braccio e riprendiamo a camminare.
-Te l’ha detto tua madre che Tea è venuta a casa vostra l’altra sera?
Difficile immaginare la zia fuori da casa sua, lontana dai suoi mobili e dalla sue faccende.
-Sì, mi ha accennato qualcosa, ma così al volo. Ci siamo sentiti per telefono perché ho dormito da un’amica e non sono ancora passato da casa- confesso e subito un accenno di giocosa malizia accende il volto corrucciato dello zio.
-Amica?-Vai avanti zio!
-Sì. Da quando siamo venuti ad abitare qui succedono cose strane: questo è quanto.
-Definisci strane.
-Che ti posso dire? Forse ci sono presenze...
-Presenze- ripeto scettico.
-Sì, presenze, insomma spiriti.
-Spiriti.-Spiriti dei morti o del demonio in persona non lo so. Fatto sta che si sentono voci, gli oggetti si muovono da soli.
-Sembra un film dell'orrore, zio.
-E invece purtroppo è tutto vero.
-Io non ci ho mai creduto a queste cose.
-Dovresti, io le ho viste, credimi. Ci sono cose che non si possono spiegare, ma esistono. Ce ne sono tante di stranezze nel mondo, sapessi.
All'improvviso lo zio si ridesta come da un incubo, mi afferra il polso e guarda l'ora: -E’ tardi, andiamo.
Senza rendermene conto siamo già arrivati al numero 12. Lo zio si è impadronito nuovamente del suo solito energico atteggiamento.-Adesso tu fai finta di niente, che non ti ho detto niente.
-Tanto non ci ho capito niente un accidenti.
Non ho mai visto lo zio che fatica a parlare e la cosa inaspettatamente mi infastidisce.
-Dai più tardi ti spiego meglio, andiamo a mangiare adesso che sto morendo.
 Piccole onde nere che si infrangono contro l’acciaio. Il cucchiaino agita lo zucchero sul fondo della tazzina e la superficie opaca del caffè si fraziona in mille riflessi. Il brusio costante di una televendita alla tv lenisce il senso di isolamento della casa. Lo zio è perso nei suoi pensieri e sorseggia il suo caffè con il ventre proteso in avanti nello sforzo digestivo. E’ il riposo del giullare che ha tenuto banco per tutto il tempo della cena. La zia è andata a mettere a letto i bambini, ma ormai è molto che si è assentata e comincio a pensare che si sia addormentata anche lei. I turbinosi interrogativi di qualche ora fa sono solo un ricordo, ora vige uno stato di calma placida e di rassegnazione, come se nulla potesse più sconvolgere la serata. Mi alzo mettendo in mostra un addome visibilmente dilatato, trangugio l’ultimo sorso di caffè e annuncio pomposo allo zio che me ne andrò al cesso. Sei culi e dodici tette saltellano improvvisamente sullo schermo del Telefunken modello prima guerra d'indipendenza. Decido di concedermi una sosta per osservare il panorama proposto. All’improvviso si sente una voce registrata parlare con fare cantilenante e metallico e rumori di spari. Vengono dal corridoio; deve trattarsi dei giocattoli dei bambini. Che Giulia e Matteo siano ancora svegli?
I culi tramontano come sei fantastici soli nell’insensata luminosità dello schermo. Decido che mi farò una bella pisciatina e poi me ne andrò a casa in taxi.
Il bagno è proprio in fondo al corridoio, subito dopo la camera da letto dei bambini e di fronte a quella dei loro genitori. La scarsa luminosità di quella specie di cunicolo proviene da un'unica lampadina posta al centro del soffitto, che ora ondeggia stranamente come sospinta da un vento invisibile. Ombre saltellanti mi accompagnano mentre procedo verso il bagno. Dal salotto al corridoio c’è un insolito dislivello termico, non me n’ero mai accorto prima. Il rumore di spari, ora accompagnato da tenui bagliori, proviene dalla fessura in basso della porta dietro la quale i bambini dovrebbero dormire infagottati in monumentali coperte in piuma d’oca. Ma non avverto la voce di Giulia, né del piccolo Matteo, e neppure il minimo indizio di un loro possibile ammutinamento all’autorità materna.
È vero: c’è qualcosa che non va in questa casa.
Un inspiegabile timore mi stringe la gola e un brivido sgattaiola giù per la colonna vertebrale. Accidenti a me e alla mia stramaledetta idea di andare a trovare la zia.
Mentre passo, mi accorgo di alcuni particolari della porta che non avevo mai notato precedentemente. Il legno è graffiato nella parte bassa e la maniglia di ottone lucido è ammaccata come se avesse ricevuto colpi di martello. Gli unici punti non danneggiati riflettono il mio volto grottescamente deformato.
-Sei morto, maledetto!
Ancora la voce metallica. Stringo il muscolo per trattenere la pipì, mentre gelidi serpenti mi scivolano lungo la schiena, giù fino all’osso sacro. Mi avvicino ancora di più alla porta per cercare di capire cosa stiano combinando dall'altra parte. Ora avverto dei sussurri e delle grida soffocate. La voce tesa e strascicata della zia che mormora parole indecifrabili. Ogni tanto qualche termine emerge dall’apnea di quell’indistinto biascicare: “via”, soprattutto “via”, e poi “questa casa”, e “mia”, reiterati come in un arcano formulario.
Mi decido e spalanco la porta. Ci vuole un po’ perché i miei occhi si abituino all’oscurità, mentre la debole luce del corridoio varca la soglia della stanza e si spinge fragilmente fino ad una nera figura centrale. Su una poltrona bassa la zia irrigidita, con gli occhi spalancati e iniettati di sangue, mi osserva sconvolta. Le sue guance bagnate riflettono lievemente la luce. Di fronte a lei, i letti su cui dormono i bambini. A metà strada tra me e lei, un robot di plastica passeggia borbottando e proiettando luce dagli occhi come un piccolo demone. Il giocattolo si ferma all’improvviso come se avesse finito le pile. Stringo le palpebre per penetrare maggiormente la semi oscurità.
-Zia che fai? - dico con un filo di voce - Tutto bene?
La bocca della zia si schiude in un respiro profondo come fosse emersa in quell’istante dall’acqua.
-Sì- la debole, tremolante risposta.
Nella mia mente arriva un tarlo che non riesco bene ad identificare, un sottofondo fastidioso, la voce di un insetto che continua a chiamarmi mentre sono concentrato su altro.
-Va bene,- dico, abbozzando un sorriso –dai, vieni di là allora: i bambini si sono già addormentati-.
Ma quel tarlo insiste, scava, picchia, grida e si fa spazio, tanto da non sentire neppure la replica della zia.
Chiudo la porta e raggiungo il bagno, alzo la ciambella e mi svuoto. Il getto scende zigzagando: è colpa della mano che trema. Mi impongo ampi respiri, ma mi riesce difficile. E’ ancora qui, l’infido insetto. Lui e il suo grido d'allarme. Nel mio corpo divampa un bruciante calore, mentre decine di gocce mi imperlano la fronte e un sudore freddo mi bagna la maglietta. E il maledetto insetto è ancora lì, lo spauracchio di una realtà che la mente razionale non può accettare. D’accordo, parla, piccolo insetto, che Dio stramaledica te e la tua specie. Parla!
Qui c’è qualcosa che non quadra e tu lo sai!
Ma che dici? Io non so niente!
Lo sai invece, hai visto! Tu hai visto!
Non far finta di non capire.
quando siamo venuti ad abitare qui succedono cose strane>
Per l’amor dei Santi!
sono cose che non si possono spiegare>
Lo hai visto con i tuoi occhi…
erte cose possono capitare qualche volta>
Avevi tutto davanti agli occhi!
Checco, Checco
Non chiamarmi Checco, insetto.
Tu hai visto, hai visto, hai visto, hai visto…
E’ vero! Improvvisamente individuo qualcosa che avevo registrato dentro di me, ma che non voleva venire a galla. Ecco cos’ho visto! Ecco cosa c’era che non andava! Mio Dio, se dovessi mai esserci, aiutami! Fa che non sia vero, che abbia visto male! Ti prego…
Ma l’inconscio inclemente mi risbatte in faccia l’immagine di prima. Io la riosservo tutta, come fosse la prima volta, come fossi in un sogno. Vedo i letti con i bambini che dormono, tutto ok; i muri della stanza, tutto ok; la poltrona e la zia che mi guarda, ok; il giocattolo… il giocattolo è un comune robot per bambini, acceso. Sì, acceso. Poi vedo quella linguetta rossa sotto lo stivale del robot. Fuochino. E’ in bella mostra ora che si è spento e si è rovesciato a terra. Ancora un piccolo passo. Cosa c’è di strano? Niente, eppure sento che è qui che devo guardare. Nell'immagine registrata nella mente, la linguetta rossa esce come un sorriso beffardo da un incavo del piede di plastica. Ed ecco che una voce dentro di me si mette ad urlare: è vuoto! E’ vuoto! E’ vuoto! Il cuore rimbalza ed il sangue si gela bruscamente per poi riprendere il suo giro forsennato. Mi fiondo fuori dal bagno. Devo sapere! Spalanco la porta della camera dei bambini. Buio. Due punti. Occhi. La zia mi fissa nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata. Ma la sua bocca è arricciata in una smorfia di orrore. Digrigna i denti e le cola della saliva dai lati della bocca.
- Vattene fuori! Vattene via! Non ti vuole qui!
Il viso di zia Tea è deformato dalla rabbia. Evito di guardarla negli occhi per non farmi intimidire: devo fare quello per cui sono rientrato nella stanza. Afferro con disgusto il robot e lo porto fuori nel corridoio. Devo sapere! Mi volto nella direzione della lampada che ora vortica su se stessa inspiegabilmente. Volto il giocattolo a testa in giù. La scoperta è completa! Con tre falcate sono in salotto. Lo zio Sandro scatta in piedi spaventato. Io lo guardo con odio, le gocce di sudore mi colano sul viso. Gli punto il giocattolo contro e lottando per respirare riesco a urlargli: -Per l’amor di Dio, come cazzo fa a parlare e a muoversi senza pile?
Silenzio.La linguetta rossa sorride demoniaca dal vano vuoto.
 Poco dopo la zia spunta visibilmente provata dal corridoio. Ha l’aspetto di una gestante dopo un parto difficoltoso. Afferra una sedia con la schiena curva e ci si accascia, col rito inclemente cui avevo più volte assistito. Lo zio silenzioso con le lacrime agli occhi la raggiunge. E’ una sagrada famiglia pietosa quella che si compone davanti ai miei occhi, con una madonna obesa e un’improbabile Giuseppe che le tiene una mano sulla spalla. D'un tratto ho la chiara percezione che la mia vita così come la conosco sia perduta per sempre
Mi trovo in un insolito limbo di sentimenti per cui non comprendo se in me prevale più la rabbia o lo spavento. I veli sono caduti, tendoni rossi e pesanti di cui non sospettavo neppure l'esistenza. Divento paonazzo e improvvisamente mi sento pronto a fare qualsiasi cosa, persino uccidere, se non mi daranno delle spiegazioni. Mi metto seduto davanti alla loro statuaria immobilità.-Adesso noi parliamo sennò vi faccio a pezzi questa casa di merda!-
-D’accordo - concilia calmo e rassegnato lo zio - ma è proprio necessario? Sei sicuro di voler sapere?-
Io ringrazio Dio di non avere un fucile in mano. Lui, quasi captando le mie intenzioni, si siede dall’altra parte del tavolo e pone le mani sulla superficie calda del legno. Calma, sembra suggerire. Un brivido mi corre lungo la schiena mentre il vento investe la finestra. Ha smesso di nevicare, ma non posso sapere da quanto. So solo che le nuvole rosse sono sparite e la notte si è fatta nera e spenta. Da fuori non viene nessun rumore, solo questo vento imbizzarrito come un toro che sbatte contro la casa. Ma la vera corrida è dentro e io sono un matador improvvisato e maldestro costretto, suo malgrado, a sventolare il capote rosso.
La luce del salotto non è sufficiente a colmare gli spazi e l’ombra è incipiente e fastidiosa.
-Checco,- la zia prende la parola con una vocina sottile - io non te ne ho parlato perché non volevo coinvolgerti, forse perché sapevo che tu sei un po’ scettico riguardo a queste cose. Avevo paura che mi prendessi per pazza. Ora forse non puoi più farlo -.
-Vuoi venire al dunque, per favore?– incalzo.
Lei prosegue come se io non avessi detto niente, come se parlasse a se stessa.
-Io… Non ci credevo neanche io, finché…
-Finché? -
-Finché una mattina di qualche settimana fa mi sono trovata sola in casa. Fuori pioveva. È stato allora che ho sentito quell'odore nauseabondo, come qualcosa di marcio o di morto. Sto spolverando i mobili del salotto quando sento un rumore proveniente dalla mia stanza da letto. Dato che ero sola mi sono incuriosita e sono andata in camera a vedere cos’era successo...-
Qui la zia si ferma e abbassa lo sguardo. Sta cercando di trattenere le lacrime. Le metto una mano sul braccio per farle coraggio.
-Non puoi capire cosa sto passando– singhiozza -io non ce la faccio, non ce la faccio più.
-Zia?Lei alza lo sguardo.
-Finisci- le dico.
-Sì- e tira su col naso –La stanza era tutta in ordine come l’avevo lasciata. Ad un certo punto… Tu hai presente come è fatta la stanza, no? Da una parte c’è il comò, al centro il letto e dall’altra parte il grosso armadio di mogano. Ad un certo punto, guardo di sfuggita l’armadio e vedo che c’è un’ammaccatura profonda, come una martellata, capisci?
-Vai avanti-
-E allora niente, mi avvicino e vedo che a terra c’è la mia cornice d’argento, quella che mi hanno regalato al mio matrimonio, col vetro tutto spaccato e dico: che cavolo è successo?
-Intendi quella  grossa cornice che c’è sul tuo comò?
In tutto questo lo zio se n’è stato zitto zitto nel suo angolo di tavolo, smarrito.
-Si, bravo, proprio quella. Il fatto è che la finestra era chiusa perché dopo aver pulito la chiudo sempre. E poi in ogni caso ci sarebbe voluto un vento inaudito per alzare quella cornice e scaraventarla con forza dall’altra parte della stanza, o sbaglio?
-Ed eri sola?
-Sola, sì.Mi stropiccio la faccia. –Cazzo- dico -cazzo! Io a queste cose non posso… mi dispiace, ma…- do un’occhiata a zio Sandro -So a cosa stai pensando zio, ma possono esserci molte spiegazioni-.Lo zio tira su la testa cupo, le ombre gli rubano i contorni del viso: -Dimmene una- sussurra.
-Porca puttana- ammetto.
-E’ successo tutto in quei giorni che ero sola in casa. Sandro si era portato i bambini giù da sua madre e io non sono potuta andare perché non stavo bene. Durante la notte ho sentito…
Le salgono i singhiozzi e non riesce più a parlare. Si mette a piangere, il viso le si trasforma. E’ la prima volta che vedo la zia piangere. Tra le lacrime cerca di portare avanti il racconto.
-Ho sentito ancora quell'odore. Ho sentito un uomo. Mentre dormivo. Un uomo grosso e sudato. Era addosso a me, mi premeva sopra. Ho aperto gli occhi e non c’era nessuno. Ma io lo sentivo! Te lo giuro, te lo giuro. Non sono pazza, mio dio! Ho sentito tutto. Non era una persona. Non era vivo. Non riuscivo più a respirare. Ero immobilizzata e mi premeva. E poi, Dio… mi spingeva come se volesse… Sarà durato qualche minuto e poi più niente, ma guarda qui
La zia si alza in piedi e si scopre la spalla mostrando un grosso segno viola.
Ho lividi dappertutto- dice e intanto mi mostra grosse macchie viola sui fianchi, sulla  pancia e sulle gambe.
Perdo la parola, non so cosa rispondere. Tutta la mia sicurezza smarrita. E ho paura che sia per sempre. Nel profondo di me so che la zia non mente. Quello che dice di aver sentito, lo ha sentito davvero. Ma che cosa? Di che cosa stiamo parlando esattamente? Davvero non saprei dire. O forse temo di dare una definizione, come se le cose non avessero il permesso di esistere finché non le definisci, finché non gli dai un nome. E adesso? Cosa faccio adesso? Vado avanti e accetto la terra vergine che sto calpestando e che al solo pensiero mi fa rimescolare le viscere? Posso sempre girarmi dall’altra parte, tornare alla mia vita di sempre, pacata e sicura, e lasciarmi tutto alle spalle. È da me. Ma potrei mai dimenticare questa notte?Nella sala nessuno parla. Sarebbe silenzio, senza i singhiozzi della zia. La voce improvvisa dello zio mi richiama dal turbinio dei miei pensieri.
-Il Male esiste, non puoi far finta di niente.
Chiudo gli occhi e respiro piano, nel tentativo di far volar via la mente, via da questa casa, da queste strade solitarie, da questi monotoni palazzi, dalle nostre presunzioni e  malinconie. Via. Uno stacco che ha il sapore dell’infinito e dell’eterno, e che invece finirà tra pochi, intensi secondi. Improvvisamente mi slancio in avanti con il busto e divarico le gambe. La zia mi guarda allucinata. Mi piego e vomito sul tappeto dove prima  giocavano i bambini. Zio Sandro mi soccorre. Mi tiene le mani sulle spalle, cercando di farmi coraggio. Quando mi rialzo, vedo una cosa che non dimenticherò mai: lo sguardo dolce e indulgente della zia, che ha finalmente capito. Sa che da me non le arriverà quell'aiuto in cui tanto sperava.Con gli stessi occhi zia Tea mi guardò per l'ultima volta dalla finestra del palazzo mentre mi allontanavo sconvolto e mi incamminavo a piedi verso la città luminosa.
Fu lo zio Sandro a trovare il corpo della moglie. Disse di essersi svegliato perché non riusciva a dormire. Sentiva dei rumori provenire dalla stanza dei bambini. I vicini non udirono urla o litigi quella notte. E neppure Giulia e Matteo che furono svegliati dal pianto disperato dello zio nelle prime ore di un mattino atroce e luccicante. Zio Sandro fu accusato di omicidio colposo e condannato. Ancora oggi non è chiaro cosa avvenne esattamente nel tempo che passò da quando lasciai la casa fino al ritrovamento del corpo tumefatto di zia Tea. Dentro di me so che il colpevole non fu lo zio. Solo che non l'ho mai detto a nessuno.

La caccia del diavolo di Morton Sidney

La storia è ambientata nei suggestivi scenari dell’Irlanda occidentale, là dove i confini fra naturale e soprannaturale sono più incerti.
Terra ricca di tradizioni e misteri, l’Irlanda. Con i suoi paesaggi tormentati, fatti di brughiere e casupole col tetto di paglia. Terra di leggende, di spiagge ventose e desolate disseminate di macigni. Dovunque si incontrano rovine: castelli, fortezze, torri, che si stagliano nelle luci grandiose di crepuscoli lunghi, quasi disperati.
In questa terra convivono religione e magia, superstizione e spiritualità. Qui si vedono gli gnomi, le Banshee, i Leprechauni. Qui i folletti intrecciano le criniere nelle stalle, di notte. E gli spettri architettano giochi crudeli e, talvolta, mortali.
Forse è per questo che molti scrittori del Soprannaturale, Le Fanu, Stoker, Maturin, Lord Dunsany… sono nati in Irlanda.
La caccia del diavolo è un capolavoro di terrore, suspense e mistero. Il suo ritmo è velocissimo e quando si incomincia a leggerlo non si riesce più a fermarsi. L’intreccio è coinvolgente, imprevedibile sino alla fine. I personaggi sono psicologicamente vividi e reali.
Ma soprattutto questo romanzo possiede un “quid”, un qualcosa di indefinibile, che si trova solo nelle grandi opere ispirate.
Il lettore che legge per la prima volta Morton Sidney resta piacevolmente sorpreso, ma prova anche un po’ di rabbia perché vorrebbe aver scoperto prima questo grande Autore!
Morton Sidney ha scritto circa 100 libri tra cui: Gli incubi di Monte DaviesLa prigioniera di rocciaLa stirpe maledettaIl tempio dell’orroreGli uomini pipistrello, Hubert lo squartatore.
La caccia del diavolo è un grande libro di un grande Scrittore, da conoscere e amare, da leggere e rileggere. E’ un classico del brivido, affascinante, che lascia un profondo ricordo di nostalgia e bellezza.

LA TRAMA
Il romanzo incomincia col descrivere l’amore improvviso e appassionato di Tom Hangine, un brillante studente del Newgate College, per Shilli Donel, una ragazza bellissima ma chiusa e introversa.
Finita l’Università i due giovani seguitano a frequentarsi nel gioco incostante dell’amore. Shilli appare strana, a volte appassionata a volte insensibile, dolce e fredda. Finché una notte dopo il ritorno dalle vacanze Shilli scompare.
La famiglia della ragazza è preoccupata e incarica la Polizia di cercarla, ma il più disperato di tutti è il fidanzato Tom che decide di cercarla da solo e così si imbarca in una avventura paurosa e allucinante.
Seguendo una sua pista Tom prende l’aereo per Dublino, poi il treno per Galway e infine la corriera per Gallimh. In un pub, da un vecchio pescatore apprende che la ragazza è andata a Draghfurt, nelle Isole di Aran. Il vecchio pescatore si chiama Malone e Tom lo ingaggia per farsi portare a Draghfurt sulla sua barca.
Nell’incanto del paesaggio irlandese, cupo e solenne, Tom sprofonda nella magia del cielo, del mare e della piccola isola. Ma quando sbarca fra quei pescatori superstiziosi Tom non trova Shilli, e inoltre una tempesta gli impedisce di tornare indietro. Così prende alloggio nell’alberghetto di Mrs. Darth dove conosce la figlia Marijoice, che si rivela una amica di Shilli.
Marijoice è una ragazza con i capelli rossi, taciturna ed enigmatica che sembra conoscere molti segreti sulla vita privata di Shilli ma non è disposta a parlare. Una sera, accanto al fuoco, Tom e Marijoice sono rimasti soli e in una drammatica conversazione la ragazza supplica Tom di andare via, subito, e di non cercare mai più Shilli.
In piena notte la tempesta terribile con pioggia e lampi si scatena sull’isola. Tom, dalla sua finestra vede Marijoice che esce di casa e si inerpica sulla collina dove si trovano i resti della vecchia chiesa abbandonata, eretta sulle fondamenta di un tempio druidico. Deciso a farla finita con questo mistero Tom segue di nascosto la ragazza e sulla collina trova le tracce di Shilli.
Adesso Tom sente di essere vicino alla soluzione. Marijoice è scomparsa, la tempesta aumenta di intensità e Tom entra risoluto dentro alla chiesa....
Qui dopo una esperienza terribile precipita nei sotterranei dove venivano sepolti i morti. Vagando nei sotterranei quasi impazzito dal terrore Tom incontra Marijoice. La ragazza non gli spiega nulla però prima di lasciarlo gli indica una botola, un passaggio segreto attraverso il quale il giovane potrà uscire.
Seguendo un cunicolo scavato nella collina Tom arriva sfinito a una caverna sul mare e in quel posto trova la sciarpa di lana bianca che lui stesso aveva regalato a Shilli. Ancora interrogativi, ancora domande senza risposta.
Al limite delle forze, sporco e ferito, Tom viene raccolto da una barca di pescatori e perde coscienza.
Si sveglia prigioniero in un luogo sconosciuto: una antica fortezza medievale in mezzo a un bosco. La fortezza è deserta, sembra abbandonata da secoli e i suoi soccorritori sono scomparsi. Poi arriva un nano, goffo, in livrea verde oro e avverte Tom che il Cavaliere lo sta aspettando.
Il Cavaliere è un personaggio cupo e misterioso. Egli afferma di aver trovato Tom in mare e che adesso è suo ospite.
Tom comprende che gli conviene stare al gioco; finché una notte Marijoice viene furtivamente nella sua stanza e gli promette di aiutarlo a liberare Shilli. Senza avere il tempo per ottenere una spiegazione Tom segue la ragazza dentro una sala dove si trovano alcune donne prigioniere, fra le quali Shilli.
Tom tenta di liberarla ma i servi del Cavaliere lo scoprono. Così inizia una feroce lotta e una disperata fuga per la vita.....
Tom riesce a mettersi in salvo, ma non ritroverà mai più Shilli e neppure Marijoice. Anche il pescatore Malone è scomparso.
La soluzione del mistero arriverà dopo alcuni anni. Tom consultando vecchie carte scoprirà che fine avevano fatto Shilli, Marijoice e le altre ragazze scomparse.
Morton Sidney, pseudonimo del dottor Franco Prattico di Roma.
Ha scritto con vari pseudonimi oltre 50 gialli, neri, fantascienza. Dopo la chiusura dell’Editrice ERP ha scritto articoli scientifici sul quotidiano La Repubblica.
Grande e dotato Scrittore del brivido. I suoi racconti del soprannaturale sono percorsi da una vena romantica. Le Opere migliori: Uomini Pipistrello, La Stirpe Maledetta, La caccia del diavolo, L’Uomo Che Non Poteva Morire, La Prigioniera Di Roccia.
La copertina è del Pittore Mario Caria di Roma. Un uomo col volto bendato aggredisce una donna. Luci bluastre sullo sfondo.
La caccia del diavolo è stato ristampato col titolo Il Diabolico Gioco, nel febbraio 1999 n° 18 Horror Story, Garden Editore Milano.
  
SCHEDA
La caccia del diavolo
Autore: Morton Sidney
Editore: ERP Roma
Collana: Racconti di Dracula, prima serie, N. 40
Edizione: Febbraio 1963, pocket, pagine 126, Lire 150.
a cura di Sergio Bissoli
  

Grosso guaio a Chinatown di John Carpenter

Jack Burton (Kurt Russel) è un camionista alquanto bizzarro, con un aspetto piuttosto trasandato e un’aria da gran duro. Una notte si trova nella Chinatown di San Francisco e passa il tempo a giocare d’azzardo in una bisca con l’amico Wang Chi (Dennis Dun). Questi deve recarsi il mattino seguente all'aeroporto, per andare a prendere la sua fidanzata Miao Yin, arrivata dalla Cina e, siccome deve dei soldi a Jack (persi al gioco) quest’ultimo decide di accompagnarlo col suo camion. Giunti all'aeroporto si accorgono sia della bella avvocatessa Gracie Law (Kim Cattral) (che Jack inizia a tampinare) sia di tre brutti ceffi appartenenti alla banda dei “Signori della morte”. Al momento dell’arrivo, Miao Yin non riesce neppure ad abbracciare Wang Chi che subito viene rapita dai tre criminali vestiti di nero e portata via a gran velocità in un luogo ignoto. Jack e Wang allora partono all'inseguimento, ma si ritrovano nuovamente nei vicoli umidi di China Town senza che dei rapitori vi sia traccia. In compenso si ritrovano al centro di una furibonda “battaglia cinese” che vede opposte le fazioni dei Chen Sing e dei malvagi Wing Kong (associati ai Signori della morte). I due, impietriti all'interno del camion, assistono ad un massacro a colpi di armi e arti marziali, interrotto dalla comparsa di tre misteriosi guerrieri scesi direttamente dal cielo e vestiti come tre spadaccini dell’antica Cina, con mantelli e grandissimi cappelli di giunco. I tre dimostrano di avere poteri soprannaturali e iniziano a fare piazza pulita di tutti i combattenti presenti nella battaglia, indistintamente. Jack e Wang capiscono che è giunto il momento di tagliare la corda e il camion inizia correre a tutta velocità fino a quando, dal nulla, compare di fronte a loro la figura di uno strano personaggio che sembra arrivare direttamente dalla Cina del Medioevo. Jack non riesce a fermarsi in tempo e lo investe, ma, quando scende per vedere se l’ha ucciso, quello strano uomo è lì in piedi, come se nulla fosse successo. Wang capisce che quello non è un uomo qualunque, ma David Lo Pan, un personaggio mitico che popolava le antiche leggende cinesi. Lo Pan emette improvvisamente un fascio di luce accecante dalla bocca e dagli occhi e Jack viene colpito, perdendo così temporaneamente la vista: i due però sono già lontani e, grazie all'aiuto di alcuni componenti del Chen Sing, riescono a trarsi in salvo. Tornati al ristorante di proprietà di Wang, questi comunica allo zio Chu e all'amico stregone Egg Shen (Victor Wong) quello che è successo e i due capiscono che  la situazione è molto grave. Lo Pen era un antico guerriero vissuto in Cina molti secoli avanti Cristo e punito dal dio Chin Dai per mezzo di un incantesimo che lo avrebbe rinchiuso nel suo palazzo per l’eternità. Solo una “vergine dagli occhi verdi” sacrificata allo stesso dio gli avrebbe consentito finalmente di rinascere e di tornare giovane. Il rapimento Miao Yin ha dunque una spiegazione: la ragazza, infatti, è un caso più unico che raro, dal momento che è una cinese dagli occhi verdi, l’ideale vittima sacrificale per Lo Pan. Sarà compito di Jack e Wang infiltrarsi nel covo del Wing Kong (che ha alle sue spalle la supervisione di Lo Pan) e, con l’aiuto di Egg Shen, di Gracie Law e alcuni guerrieri del Chen Sing dovranno destreggiarsi tra magia nera cinese, sicari feroci, mostri deformi e uomini con poteri ultraterreni, per poter liberare Miao Yin da una tragica fine.
     
Costato 25 milioni di dollari, questo film doveva essere uno dei più grandi successi del 1986, ma si rivelò invece un clamoroso flop (il quarto di fila per Carpenter, che si giocò quasi la carriera), con un incasso di soli 11 milioni di dollari. Big Trouble In Little China, questo il titolo originale, doveva inizialmente essere ambientato nel vecchio West, ma all’ultimo Carpenter optò per un’ambientazione contemporanea, con l’umida e decadente Chinatown di San Francisco (la più grande degli Stati Uniti) al centro dell’intera vicenda: il quartiere cinese, infatti, assume un’importanza fondamentale e, nel corso degli eventi, sembra perdere lentamente consistenza, senza più punti di riferimento saldi a cui aggrapparsi e una notte perenne che elimina qualsiasi differenza tra mondo in superficie e mondo sotterraneo. Proprio i continui passaggi dei personaggi tra il sopra e il sotto, tra la luce e il buio, tra il reale e il non reale (divenuti indistinguibili) conducono lo spettatore ad una perdita quasi totale dell’orientamento, in un viaggio onirico che però, grazie alle numerose scene di combattimento e al ritmo  serrato, diventa terribilmente reale. Combattimenti spettacolari, acrobatici e veloci con la costante del Kung Fu assolutamente d’obbligo. Effetti speciali costosissimi anche per l’uso delle magie: raggi multicolori e fulmini devastanti escono dalle mani dei guerrieri con una verosimiglianza impressionante, considerando il fatto che quello di cui si parla è una produzione degli anni '80.
Da sottolineare un Kurt Russel in gran forma e perfettamente nella parte: Jack Burton può essere visto come una parodia del più famoso Snake/Iena Plissken: il camionista colpisce essenzialmente per la sua caricaturale aria da duro e per la sua sbruffonaggine, puntualmente smascherata dalla sua goffaggine nelle situazioni di combattimento, un elemento che aggiungerà una pungente vena comica, indispensabile per interpretare con la giusta ironia una vicenda altrimenti complessa e artificiosa.
Le musiche, come sovente accade nelle sue produzioni, sono opera dello stesso Carpenter che dimostra anche in questo caso di saper interpretare alla perfezione le varie situazioni in chiave sonora, donando al tutto un’atmosfera cupa, ma nel contempo scherzosa e coinvolgente.
Una curiosità: durante la scena dell’iniziale “combattimento cinese”, tra i componenti della setta guerriera del Chen Sing si riconosce un giovanissimo Jackie Chan impegnato nelle sue famose mosse acrobatiche.
     
Giudizio: ottimo.
   
a cura di Giorgio Mazzola
   

Pensiero del giorno - Antonio Curnetta 23/04/2015

C'è una forma di energia pulita, rinnovabile e assolutamente gratuita che troppo spesso sottovalutiamo: il calore umano. (Antonio Curnetta)
  
   

Cinecensura italiana e l'ultimo caso Morituris

Se qualcuno di voi pensava che in Italia la libertà di parola e quella di espressione artistica dopo tanti anni, fosse finalmente libera al 100%, purtroppo si sbagliava di grosso. Infatti, nel 2011 con Morituris (film horror indipendente di Raffaele Picchio bloccato dalla censura cinematografica italiana), crediamo che si sia davvero toccato il fondo. Ebbene si, ancora oggi in Italia continuano ad esserci persone che, secondo una loro inspiegabile logica, decidono per noi cosa vedere e cosa non vedere. Ma soffermiamoci un momento sulla censura cinematografica italiana, ripercorrendo la lunga scia di disastri che ha compiuto nell'arco degli anni. Analizziamo alcuni esempi partendo dal 1946:
  • Nodo alla gola di Alfred Hitchcock, alla sua uscita del 1948 fu subito bloccato e distribuito solo nel 1956.
  • L'urlo di Tinto Brass, venne bloccato dalla censura dal 1969 fino al 1974.
  • Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, bloccato nel 1972 fino al 1987.
  • Gola profonda (film pornografico del 1972) di Gerard Damiano fu bloccato dalla censura per tre anni; uscì nel 1975 con il titolo La vera gola profonda.
  • Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini fu bocciato nel 1975 in primo grado dalla commissione e vietato ai minori di 18 anni in secondo grado ma venne poi sequestrato dalla magistratura.
  • Sesso nero di Joe D'Amato bloccato dalla censura dal 1978 fino al 1980.
  • Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, fu bloccato dalla censura dal 1980 fino al 1984 e poi dopo pesantemente tagliato.
  • Il leone del deserto (film storico del 1981) di Moustapha Akkad, bloccato dall'allora primo ministro italiano Giulio Andreotti.
  • W la foca di Nando Cicero, censurato nel 1982 e rimasto irreperibile fino al 2004.
  • Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco, alla vigilia della sua uscita nel 1998, fu dichiarato "vietato a tutti" dalla Commissione di revisione cinematografica.
  • "Oil" di Massimiliano Mazzotta documentario del 2009 sull'impatto ambientale dell'impianto petrolchimico della Saras S.p.A. di Sarroch.
Torniamo dunque all'ultimo caso di cinecensura italiana sull'horror Morituris, il film doveva essere distribuito in alcune sale cinematografiche italiane a partire dal 19 novembre 2012. Tuttavia la distribuzione del film non è potuta avvenire in quanto la commissione di revisione cinematografica ha negato il rilascio del nulla osta. Il motivo della bocciatura è stato il seguente:
    
"La Commissione di revisione cinematografica, visionato il film, esprime, all'unanimità, parere contrario al rilascio di nulla osta per la proiezione in pubblico per motivi di offesa al buon costume, intendendo gli atti di violenza e di perversione sulle donne, motivati dal gusto della sopraffazione e dall'ebbrezza della propria forza rafforzata dal consumo di alcool e droga. 
Inoltre i “giustizieri” si accaniscono sia sui ragazzi, rei di violenza e sadismo, sia sulle ragazze vittime dei loro carnefici. Infine, negli atti di perversa violenza viene impiegato un topolino come un oggetto sessuale. Pertanto la Commissione ritiene la pellicola un saggio di perversità e sadismo gratuiti."
    
Al di là dei contenuti urticanti che l'opera in sé può contenere, è indubbio che si rimane altrettanto urticati e perplessi in quanto ci venga di fatto negata la libertà di vedere o non vedere qualcosa. Eppure sarebbe stato sufficiente apporre il visto con il divieto ai minori di anni 18 e far sì che il pubblico avesse avuto almeno la libertà sacrosanta di decidere se vedere o non vedere l'opera, e invece no. Risultato: ancora oggi, in Italia ci troviamo di fronte all'ennesimo caso di cinecensura italiana, infatti, al momento Morituris può essere proiettato in Italia soltanto nei festival cinematografici, in quanto in tali occasioni il rilascio del nulla osta per la proiezione di una pellicola non è necessario, ma non nelle normali sale cinematografiche.
L'importante poi è che in film come The Passion tutto invece sia lecito: è stato liberamente distribuito nelle sale senza neanche un divieto (caso unico in Italia) nonché trasmesso in televisione in prima serata senza alcun tipo di taglio, quasi come a voler dire che la violenza rimane di esclusiva pertinenza degli horror...
Che dire di più? Le solite italianate insomma.
     
a cura di Red Scorpion
      
Riferimenti: Wikipedia - Censura cinematografica
Wikipedia - Morituris
   

Il molino a vento e altre prose - Galaad Edizioni

Il molino e altre prose raccoglie testi narrativi – poco noti al pubblico italiano – di tre autori che dominarono la scena letteraria spagnola tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento. Alla vena lirica di Gabriel Miró, che dai paesaggi della sua terra riesce a trarre brividi di paura e di estasi attraverso una scrittura estremamente sofisticata, si affiancano l’ironia cervantina e il virtuosismo retorico di Benito Peréz Galdós, e l’attitudine più mondana, ma non per questo meno affascinante, di un autore di successo come Vicente Blasco Ibáñez. Tre scrittori assai distanti tra loro – per ispirazione, tematiche, tecnica narrativa– ma che, riuniti per dare voce a uno stesso periodo e a uno stesso luogo, sono capaci di restituire al lettore italiano un’immagine quanto mai viva e sfaccettata della Spagna letteraria alla vigilia della guerra civile.
  
Gli autori
Gabriel Miró (Alicante, 1879 – Madrid, 1930), esponente di rilievo della generazione novecentista e grande cantore di paesaggi, è autore di romanzi e racconti in cui gli elementi formali e lirico-descrittivi prevalgono sull’intreccio narrativo dando vita a una prosa sensuale e raffinata. Si ricordano Il libro del signor Sigüenza e Le ciliegie del cimitero.
Benito Pérez Galdós (Las Palmas, Canarie, 1843 – Madrid, 1920), narratore e drammaturgo, è considerato lo scrittore spagnolo più importante dopo Cervantes. Oltre che del monumentale ciclo degli Episodi nazionali (quarantasei titoli in cinque serie, pubblicate tra il 1873 e il 1912), è autore di romanzi, come Tristana e Misericordia, fra i più noti della letteratura iberica.
Vicente Blasco Ibáñez (Valencia, 1867 – Mentone, 1923), romanziere prolifico e sceneggiatore cinematografico, il suo nome è legato soprattutto a best-seller come Sangue e arena e I quattro cavalieri dell’Apocalisse, da cui furono tratti celebri film. Le sue opere narrative sono il riflesso di un’esuberante vitalità e di una natura irrequieta e avventurosa.

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Il miele del diavolo di Lucio Fulci

"Al suo apparire il tuo mondo sarà finito, quando la vedrai ti mancherà il respiro, ti esploderà nel sangue ed ucciderà la tua anima con la dolcezza del fuoco, perché lei è il miele del diavolo, e tu lo assaggerai…".
Chissà se proprio Lucio Fulci in persona ha composto questa poesia giovanilistica che chiosa la sua opera del 1986, Il miele del diavolo appunto. Anche nella decade maggiormente votata all’horror, il regista romano splendidamente definito in una nota biografia “terrorista dei generi” continua a divertirsi, e a divertirci, girovagando per territori marginali del nostro cinema, e realizza un’opera abitualmente catalogata tra le pellicole erotiche. Premetto subito che il film non è certamente eccezionale, imperdibile solo per gli aficionados del regista o per chi si vuol godere l’interpretazione di Blanca Marsillach nei panni (pochi) della protagonista, ma dimostra ancora una volta come il processo di manipolazione e reinvenzione dei generi a cui ci ha abituato Fulci trova anche in quest’opera minore un ulteriore elemento del suo mastodontico puzzle. In quegli anni Lucio navigava sotto il segno della buona stella americana, infatti Murderock dell’84 strizzava più di un occhio a Flashdance ed Aenigma dell’86 era ambientato in un college con evidenti richiami al Carrie depalmiano. Il miele del diavolo è una storia di torbide perversioni sessuali, nella quale il protagonista costringe la sua ragazza a sottoporsi a pratiche amorose estreme e provocatorie, come la masturbazione durante una pazza corsa in motocicletta, e non si tratta di una coincidenza il fatto che in quel medesimo anno sbancava sui grandi schermi Nove settimane e mezzo. Come altrimenti spiegare la scelta del protagonista, sconosciuto e non particolarmente dotato, se non a motivo della sua vaga somiglianza con Michey Rourke? A prescindere dai modelli più o meno dichiarati della pellicola, l’aspetto più interessante come detto è la riconduzione della storia nell’alveo delle ossessioni tipiche del cinema di Fulci, il quale ci dice che dietro ad ogni desiderio represso, dietro ad ogni sete di vendetta o celato nella crudeltà insita nell'essere umano c’è sempre un desiderio torbido che si nasconde, e se in questo caso viene data una decisa sottolineatura visiva all'elemento erotico e nel film abbondano le sequenze erotiche, anche in Aenigma la perversione sessuale era il motore del film e velatamente compariva in numerosi altri prodotti del passato prossimo e remoto. Ogni giallo, ogni horror è anche un film erotico, ed allora quest'opera votata all'erotismo non poteva non contenere elementi gialli davvero interessanti. Gaetano, un sassofonista molto legato alla sua motocicletta, ha una relazione con Cecilia ma un giorno in una brutta caduta finisce all'ospedale, sotto i ferri di un chirurgo in piena crisi coniugale perché non riesce più a fare l'amore con la moglie, e le preferisce giovani prostitute. Non riuscirà a salvare il ragazzo, e Cecilia darà tutta la colpa a lui, sequestrandolo e torturandolo fino a che… L’ambigua personalità sessuale di Gaetano viene immediatamente suggerita dal regista nella sequenza dei titoli di testa, dove egli sta registrando un brano al sax, e la macchina da presa indugia, attraverso primissimi piani, sul modo ambiguo con cui si esercita col proprio strumento e sugli sguardi eccitati della ragazza ed irritati del fonico. Che lo strumento in mano al ragazzo si faccia metafora sessuale viene sottolineato per tutto il corso del film, a partire dalla scandalosa scena dove Gaetano masturba Cecilia suonandolo, ma anche successivamente alla sua morte, dove l’affascinante fanciulla pazza dal dolore si “consola” portandosi nel letto lo strumento, quasi contenesse l’anima del suo uomo. L’incedere del film porterà però ad un ribaltamento, ed il sax si ridurrà davvero ad esclusiva immagine dell'organo sessuale di Gaetano, l’unica cosa di lui che veramente le manca. Nella seconda parte incentrata sul sequestro, con brevi flashback ci viene mostrata la storia d'amore terminata così tragicamente, con la progressiva acquisizione di consapevolezza, da parte della protagonista, che le pratiche alle quali era sottoposta non contenevano alcunché di sentimentale, e scarnificate d'ogni affetto lasciavano solo l’amaro residuo dell'umiliazione. Parallelamente cresce in lei una strana attenzione per il medico, che da assassino del suo uomo diviene un “salvatore”, ed anche l'uomo sente crescere la passione, probabilmente perché la ragazza comincia a girare nuda per casa, e sfido chiunque a resistere a Blanca Marsillach… Infine rimane solo il sesso e la poesia riportata in apertura, che viene declamata mentre la macchina da presa abbandona la stanza da letto per mostrarci la spiaggia deserta, lasciando sicuramente soli i due protagonisti a consumare un rapporto che non ci è dato sapere se sottenda anche l’amore. Mi sia concesso accostare provocatoriamente questo finale con quello de L’aldilà, nel quale l’epilogo era affidato ad una voce off che declamava "ora affronterai il mare delle tenebre e ciò che in esso vi è di esplorabile". Esiste una sorta di fatalismo per il destino di ogni uomo, sembra dire Fulci, una pulsione malsana che logora ognuno di noi, che ci vampirizza e che talvolta ci trasforma in mostri, rappresentata visivamente attraverso il mare, reale o "tenebroso" che sia. Se riusciremo ad affrontare il male (il lato oscuro che si annida in ognuno di noi) ed a vincerlo questo non ci è dato di sapere, la verità resta celata in una stanza da letto in riva al mare che per Fulci resta inesplorabile, appunto perché "aldilà".
Giudizio: discreto.
   
A cura di Mauro Tagliabue