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La cosa di John Carpenter


Prologo: una misteriosa astronave entra a gran velocità nell’atmosfera terrestre.

Antartide: un elicottero norvegese, con a bordo due persone, sta inseguendo un cane, bersagliandolo a colpi di fucile. Il cane, stremato, riesce a raggiungere una base scientifica americana, con gli studiosi che assistono allibiti alla scena in corso. Intanto dall’elicottero piovono anche delle granate, mentre un colpo di carabina ferisce l’americano Bennings. I due norvegesi muoiono: il primo sbaglia il lancio di una granata ed esplode assieme all’elicottero; il secondo viene ucciso dal militare Garry in seguito al ferimento di Bennings. A questo punto gli scienziati americani vogliono vederci chiaro e capire quali siano state le ragioni di quel comportamento assurdo e folle da parte dei norvegesi. Così il pilota Mc Ready e il dottor Copper, il direttore della base, si recano al campo norvegese dove li attende un paesaggio di distruzione e morte (viene trovato il cadavere congelato di un uomo suicidatosi), ma soprattutto trovano un misterioso sarcofago vuoto e una strana creatura congelata, dalla forma incomprensibile, che sembra composta da due corpi umani fusi insieme. Giunti alla base eseguono un’autopsia che però non svela nulla di utile. Intanto il cane braccato dai norvegesi viene prima accudito e in seguito messo insieme ad altri cani in un’area-canile a loro riservata. Le altre bestie, però, si allontanano dall’ultimo arrivato ringhiandogli addosso e così Clark (uno degli scienziati) torna indietro per vedere cosa sta succedendo. Ciò che vede è qualcosa di impressionante: l’animale salvato dai norvegesi, infatti, si era poco prima trasformato in un mostro informe e adesso stava uccidendo gli altri cani svuotandoli delle loro viscere. La “cosa” tenta allora di distruggere il soffitto, ma non ce la fa perché viene colpita dal getto di un lanciafiamme che Mc Ready si era procurato precedentemente. Da una nuova autopsia sui resti dei cani si scopre che la cosa è in grado di mutare, assumendo la forma degli esseri con cui viene a contatto. Dalla visione di una videocassetta recuperata nel campo norvegese si scopre inoltre che gli scienziati che là abitavano avevano scoperto il relitto dell’astronave nella quale era posto il sarcofago di ghiaccio con dentro il corpo di una creatura aliena. Una spedizione veloce al campo norvegese conferma quanto visto nel videotape: il relitto dell’astronave esiste. E ormai chiaro che “La Cosa” può assumere le sembianze di chiunque e in tutto il campo-base americano la tensione è tangibile. Il dottor Copper decide quindi di analizzare il sangue di tutti i componenti per vedere se vi sono delle strane anomalie. Il progetto però non va in porto perché sabotato da qualcuno: la paura è veramente troppo grande. Intanto i sospetti si fanno sempre più pressanti e ormai non ci si fida più di nessuno. Il primo a mutare è Baggins il quale fugge all’esterno e si trasforma sotto gli occhi spaventati degli altri membri. Mc Ready è costretto a dare fuoco anche a lui. La paura dilaga e la rete dei sospetti si allarga a dismisura, quando si scopre che “La Cosa” lascia dietro di sé i vestiti di coloro che sono finiti tra la sue grinfie. Per questo motivo, dopo che Windows trova un brandello di vestito di Mc Ready, si inizia a sospettare di quest’ultimo. Ma proprio il pilota scopre che il punto debole della creatura è il fuoco. Sarà questo il fattore rilevatore della presenza nemica. Chi sarà stato infettato? Chi rimarrà vivo al termine dell’avventura? E quelli rimasti vivi avranno mai l’assoluta certezza di non essere stati infettati?
   
La cosa, tratto dal racconto di John W. Campbell Junior, Who Goes There, e ispirato a La cosa da un altro mondo, film diretto da Christian Nyby (e prodotto dal mitico Howard Hawks) è il primo film della “Trilogia dell’apocalisse” insieme a Il signore del male e Il seme della follia, tutti diretti da Carpenter. Un film che costò circa 15 milioni di dollari, ma che ne incassò qualcuno di meno, divenendo così un clamoroso flop che tradì le più floride aspettative di un annunciato successo. Non bastarono infatti i magnifici effetti speciali del bravissimo Rob Bottin (allora ventiduenne) che riuscì a dare vita alla mostruosità aliena grazie anche all’aiuto di abilissimi collaboratori (un lavoro che non ottenne la menzione nella categoria del make-up perché il sindacato della categoria stessa lo escluse, visto che tutto il lavoro era stato eseguito su manichini e non su esseri viventi). E non bastarono neanche le musiche di Ennio Morricone a sostegno di una colonna sonora di prim'ordine, per risollevare le sorti di questo lungometraggio. Forse molto dipese dalla quasi contemporanea uscita nelle sale di E.T., l’alieno decisamente molto più buono e simpatico di Spielberg, che in quel 1982 si impose su tutto e che offuscò considerevolmente l’opera di Carpenter.
Un vero peccato,  perché oltre agli effetti visivi e alle musiche eccellenti, il film è caratterizzato da una trama semplice, la quale però riesce a trasmettere un generale senso d’affanno perpetuo, un’agitazione quasi impercettibile che nasce forse dall’effetto claustrofobico dato dalle strette mura della base americana, apparentemente piccola e buia (e le scene che si svolgono all’aperto sembrano infatti far rifiatare, anche grazie alla piacevole visione del bianco della neve). Emergono così le vere protagoniste: il sospetto, la paura e la mancanza di punti di riferimento, minati irrimediabilmente dalla presenza della sempre mutevole “Cosa”. Il film procede così senza prime donne (e anche senza donne nel vero senso della parola: non ci sono interpreti femminili), in una sorprendente coralità di sentimenti affini, viziati da dubbi atroci che scavano nel profondo. Perfino un attore dallo spessore e dalla personalità di Kurt Russel rimane anonimo, sebbene sia lui uno dei punti saldi della vicenda, anche quando nulla sembra essere sicuro, senza appigli o punti di riferimento (anonimato che forse è stato voluto da Carpenter: era facile cadere nel tranello di far diventare Mc Ready/Russel un eroe indistruttibile ammazza-alieni, soprattutto se si pensa che appena un anno prima impersonava il duro e un po’ inverosimile Snake/Iena Plissken in 1997: Fuga da New York).
Una buona pellicola, insomma, che forse ha nella eccessiva lentezza della narrazione l’unico vero difetto. Le varie scene sono infatti come diluite nel tempo, con pause talvolta incomprensibili che, invece di alimentare la suspance, sortiscono un effetto contrario, quasi di noia.
  
Giudizio: molto buono.
  
a cura di Giorgio Mazzola
  

La città incantata di Hayao Miyazaki

La piccola Chihiro si sta trasferendo, assieme ai suoi genitori, in un’altra città, un cambiamento, questo, che rende la ragazzina triste, malinconica e scontrosa. Giunti nei pressi della nuova abitazione, il padre decide di prendere una scorciatoia, imboccando un sentiero sterrato che attraversa un boschetto pieno di piante rigogliosissime e che li porta davanti all’ingresso di una misteriosa e buia galleria. Dal momento che il gigantesco portale è fatto interamente di cartapesta i genitori si incuriosiscono e iniziano ad attraversare il condotto, sebbene Chihiro non sia affatto d’accordo. Giunti all’uscita, si trovano di fronte ad un’immensa radura, con piante e colline e, in lontananza, le sagome di quelle che sembrano delle case. In realtà, più che un centro abitato, sembra un vecchio parco dei divertimenti chiuso e abbandonato: attratti da un profumo irresistibile e invitante i due genitori si incamminano al suo interno, credendo che da qualche parte ci sia un ristorante ancora aperto. Il ristorante effettivamente esiste, è pieno di pietanze fumanti e succulente, ma non c’è nessuno dietro al bancone: così i due adulti iniziano comunque a mangiare, rinviando il momento del pagamento al termine del pasto. La piccola Chihiro, intanto, è sempre più nervosa, sia per il comportamento assurdo dei genitori, sia perché quel luogo le mette addosso una strana paura. Decide così di fare un piccolo giro nei dintorni e, a un certo punto, arriva ai piedi di un ponticello costruito sopra una strana ferrovia. Qui le viene incontro un ragazzo vestito con un kimono azzurro che, visibilmente preoccupato, le dice che deve lasciare quel luogo misterioso in tutta fretta, prima che scenda la sera. Chihiro allora inizia a correre spaventata, mentre le luci delle case di cartapesta iniziano ad accendersi. Giunta davanti ai suoi genitori grida loro di smettere di mangiare e di sbrigarsi ad andare via, ma si rende conto all’improvviso che il suo papà e la sua mamma si sono trasformati in due enormi maiali che non la finiscono più di ingozzarsi. La poverina allora inizia a correre impaurita, mentre in tutto il parco divertimenti iniziano a comparire degli strani spiriti dalle forme stranissime. Scioccata da tutti questi avvenimenti, si accorge che, mentre gli spiriti si materializzano, lei inizia a diventare trasparente, rischiando di scomparire definitivamente. Giunge di nuovo in suo aiuto il misterioso ragazzo dal kimono azzurro: il suo nome è Haku e convince Chihiro a mangiare un pezzo di cibo di quel mondo per non rischiare di scomparire per sempre. Il giovane riesce a far entrare la bambina all’interno della città senza che nessuno se ne accorga (gli esseri umani sono odiati dagli spiriti). Il ragazzo, allora, spiega a Chihiro cosa sta succedendo: i suoi genitori sono stati trasformati in maiali perché quello che hanno divorato era il cibo degli spiriti; la bambina, per poter sperare di salvare il papà e la mamma (rischiano di diventare dei bei prosciutti) deve prima riuscire a non farsi scacciare dalla città: per far ciò dovrà iniziare subito a trovarsi un lavoro per rendersi utile. Quello, infatti non è un parco dei divertimenti, bensì un enorme centro di cure termali per spiriti e kami. Haku spiega alla piccola che, per ottenere un lavoro, dovrà recarsi da Kamaji, il vecchio guardiano delle caldaie: giunta nelle fornaci, però, il vecchio non sembra minimamente disposto a farla lavorare (ma di questa evenienza era già stata messa in guardia da Haku). E’ però fondamentalmente buono e convince la giovane Rei (una dipendente) a prendere con sé la piccola e a portarla dalla vecchia Yubaba, la grande proprietaria di tutto il centro. Chihiro riuscirà a convincerla tra mille difficoltà a farla lavorare là dentro, ma sarà costretta a firmare un inquietante contratto: Yubaba infatti diventerà la proprietaria del nome di Chihiro e la bambina verrà così chiamata da tutti Sen.
Inizia così la meravigliosa e affascinante avventura di Chihiro che, tra mille peripezie, incredibili personaggi, misteriosi sigilli, incantesimi e magie dovrà riuscire a non arrendersi mai, tentando in tutti i modi di tenere vivo il ricordo del suo passato e del suo nome, per poter riuscire un giorno a salvare i suoi genitori e a tornare a casa insieme a loro.

Orso d’Oro al Festival di Berlino e Premio Oscar come miglior film d’animazione nel 2002, La città incantata consacrò definitivamente Hayao Miyazaki come maestro indiscusso dell’animazione giapponese, affiancandolo senza esagerazione al grande capostipite Osamu Tezuka e vedendosi affibiare, ahimè, l’assurdo epiteto di Disney d’Oriente (come d'altronde accadde allo stesso Tezuka, anni prima).
Prodotto dall’ormai storico Studio Ghibli, fondato dallo stesso Miyazaki nel 1985, La città incantata costò solamente diciannove milioni di dollari (circa sei volte meno di un film Disney), ma ne incassò circa 300 in tutto il mondo, ottenendo uno strepitoso successo anche negli USA.
Mai come in questo film lo Studio Ghibli fu presente e importante come squadra: a differenza delle produzioni passate, infatti, Miyazaki fece molto più affidamento sui suoi collaboratori: il character design fu affidato alla mano di Masashi Ando, abilissimo nell’interpretare gli schizzi dei personaggi del maestro, con uno stile inconfondibile e un tratto pulito e delicato. Gli sfondi, suggestivi e molto poetici, furono realizzati da Yoji Takeshige, anche lui abilissimo nel tradurre in immagini i favolosi mondi visionari del regista, frutto della sua inesauribile fantasia. Miyazaki si “limitò” a ideare la storia, i personaggi, le ambientazioni, a scrivere la sceneggiatura e, naturalmente, a dirigere.
La particolarità più curiosa riguarda i colori, gli unici di tutta la produzione ad essere affidati totalmente alla computer grafica: fu il computer, infatti a riempire i disegni in bianco e nero (questi, però, realizzati a mano), donando una verosimiglianza e una pulizia al tutto che sembra avere solamente in Akira, di Katsuiro Otomo, l’unico degno precedente in questo senso.

La città incantata è un film fantastico, una fiaba senza tempo capace di entusiasmare i bambini e a far sognare gli adulti. Ma oltre alla rappresentazione di mondi fantastici, di personaggi strambi e situazioni inverosimili Miyazaki fa emergere tutta una serie di tematiche che rendono assolutamente più ampio lo spettro di lettura dell’intera opera.
Prima fra tutte, l’esperienza di Chihiro, un’avventura formativa in grado di farla crescere come persona: una vicenda vissuta da una bambina che, per riuscire ad andare avanti, deve riuscire a farlo contando solo sulle proprie forze senza però dimenticare la sua famiglia e il suo passato. Una sorta di metafora della crescita, in cui quel mondo abitato da spiriti ed esseri bizzarri, assomiglia tanto al mondo degli adulti che, agli occhi dei bambini (e non solo), appare incomprensibile, spaventoso e frenetico (frenetico come la vita d’oggi e come il Giappone contemporaneo che il regista satireggia lungo tutta la vicenda). L’avventura di Chihiro, inoltre, inizia quasi subito, senza tanti preamboli, cogliendo lo spettatore impreparato ad affrontare la miriade di situazioni inverosimili che immediatamente si presentano: e non è così che l’età adulta arriva, prendendoci alla sprovvista, con una miriade di situazioni nuove e incomprensibili e con una consistente dose di responsabilità, come quella di Chihiro, sulle cui spalle grava  la responsabilità della vita dei suoi  genitori? Un viaggio onirico, insomma, ma nel contempo terribilmente reale, una situazione che all’inizio Chihiro non riesce proprio ad accettare (“…è solo un sogno, è solo un sogno…via, vattene via sparisci!...), ma con la quale dovrà imparare a convivere se non vuole sparire (quante volte ci hanno detto di crescere forti altrimenti “là fuori” tutti ci avrebbero “mangiati”…). Una critica forte anche alla società moderna che tutto inghiotte e tutto annulla e che riduce le persone a dei semplici numeri, rubando loro l’identità, nello stesso modo in cui Yubaba si appropria del nome di Chihiro dopo la firma del contratto.
Emergono anche molti elementi caratteristici già incontrati in molte produzioni passate del regista nipponico: protagonisti giovanissimi, scenari suggestivi, mondi irreali, personaggi strambi e surreali (che in questo film sono presi direttamente dalla tradizione popolare giapponese e scintoista, come i Kami, gli spiriti protettori degli elementi naturali e dei loro fenomeni) e poi l’immancabile retrogusto malinconico, un continuo sguardo al passato, ad un mondo che un tempo conservava intatta la natura, con i suoi fiumi, i suoi alberi, i suoi animali. E’ sempre lo stesso spirito ecologista di Miyazaki che viene fuori (più evidente in Nausicaa della valle del vento e Conan il ragazzo del futuro) che rappresenta gli esseri umani come gli assoluti responsabili del degrado ambientale e di conseguenza mal visti da tutti (nel film gli spiriti non fanno altro che dire “sento puzza di essere umano” e la stessa Yubaba si rivolge a Chihiro con supponenza: “…e voi umani dovete sempre rovinare tutto, come i tuoi genitori, che si sono ingozzati del cibo degli spiriti come maiali… “); esseri umani ingordi e irrispettosi come i genitori di Chihiro, che diventano la giusta metafora di quello che forse siamo diventati nel corso dei millenni: dei maiali che ripuliscono tutto ciò che di commestibile compare lungo la nostra strada.
  
La colonna sonora è affidata a Joe Hisaishi (pseudonimo di Mamoru Fujisawa) che collaborò con Miyazaki anche per altri suoi lungometraggi, come Nausicaa della valle del vento (Kaze no Tani no Nausicaa), La principessa Mononoke (Mononoke Hime) e, più recentemente, Il castello errante di Howl (Hauru no Ugoku Shiro), per citare i più celebri. Fu inoltre autore delle musiche di Kiss Me Licia (Ai Shite Night) e collaborò alle colonne sonore di sette film di Takeshi Kitano.
Una colonna sonora senz’altro poetica e avvolgente che abbraccia l’intera vicenda in un delicato balletto dai ritmi altalenanti, così come le emozioni che lo spettatore sente muovere nel profondo, accompagnate da un generale e quasi impercettibile senso di malinconia che si farà sentire anche al termine della storia.

La città incantata
Titolo originale: Sen to Chihiro no Kamikakushi.
Titolo inglese: Spirited Away.
Luogo e anno: Giappone, 2001.
Regia: Hayao Miyazaki.
Genere: Animazione, fantastico. 

a cura di Giorgio Mazzola
    

Urotsukidoji di Hideki Takayama

Atto I - LA NASCITA DEL CHOJIN
Sono ormai millenni che sulla Terra convivono tre diversi mondi paralleli: il mondo degli umani, dei demoni e degli uomini-bestia. La leggenda vuole che ogni tremila anni un dio superiore, il Chojin, si risvegli per unificare questi mondi in uno solo. Sono tre secoli che l’uomo-bestia Amano vaga alla ricerca di questo essere superiore e, finalmente, la sua ricerca sembra essere giunta alla fine: i suoi sospetti ricadono su Ozaki, uno studente delle superiori bello e popolare, capitano di una squadra di basket: potrebbe essere lui l’incarnazione del Chojin. Intanto il giovane Nagumo, compagno di scuola di Ozaki, continua la sua vita da studentello “sfigato”, sognando ad occhi aperti una possibile relazione con Akemi, la più carina della scuola. Anche Nagumo, forte della sua energia scatenata dagli ormoni, è osservato da vicino da Amano. Chi sarà la reincarnazione del Chojin.
  
Atto II - ELIMINATE IL CHOJIN!
L’identità del Chojin è stata rivelata: la sua reincarnazione non era Ozaki (sebbene gli indizi dicessero il contrario), bensì l’altro improbabile sospettato suo compagno di scuola. Nagumo intanto vive un momento felice: ignaro di essere lui stesso il dio superiore, è riuscito a conquistare la sua amata Akemi, per lo stupore generale dei compagni che lo vedevano solo come uno sfigato, primo fra tutti Niki, innamorato anche lui della giovane ragazza. Proprio la vicenda di Niki è al centro di questo secondo capitolo della saga: il ragazzo è perennemente depresso e cupo, vittima delle violenze dei genitori e degli scherzi crudeli dei compagni. Si fanno allora avanti i demoni, che lo convincono a diventare uno di loro, garantendogli che, così facendo, la sua vita, fino ad allora orribile e indegna, avrebbe subito una svolta decisiva. E la svolta arriva: Niki non è più lo stesso ragazzo timido e insicuro di un tempo, ma un delinquente forte e violento, abile con le mani e disinibito con le donne. Non passa molto tempo, ed ecco che, a causa della mente offuscata dal potere demoniaco, arriva a rapire Akemi e a tentare di violentarla. Anche se riesce a fermarsi in tempo (la sua parte umana mantiene vivo il ricordo della giovane ragazza, l’unica che era gentile con lui quando tutti lo deridevano) ormai è troppo tardi: Nagumo, a causa dell’azione sconsiderata di Niki, si trasforma nel Chojin e arriva a battersi col suo rivale per salvare la sua amata. Lo scontro sarà tremendo… Intanto Amano, con l’aiuto del saggio anziano degli uomini-bestia, riesce a vedere quale sarà, in futuro, l’utopico mondo riunito dal Chojin: la realtà sarà inquietante e assolutamente diversa da quella che tutti si immaginavano.
  
Atto III - CONFLITTO FINALE
Nagumo si è reso conto di essere il terribile Chojin, un mostro assassino senza pietà, e si rifiuta quindi di vedere Akemi. La ragazza però non vuole perdere il suo amato e si dichiara disposta a non abbandonarlo mai, sebbene conosca la sua natura non-umana. In un momento di intimità tra i due, Nagumo si trasforma nel Chojin, manifestando, questa volta, tutto il potere del dio superiore e distruggendo, come impazzito, tutto e tutti. Si avvera così la visione che Amano aveva avuto, riguardo al mondo futuro sotto il controllo del Chojin. Sembra la fine di tutto, ma un barlume di speranza giungerà da un personaggio inatteso...

Urotsukidoji  fu senza dubbio uno degli anime hentai più celebri e discussi, un po’ per la sua trama alquanto originale, ma soprattutto per gli espliciti contenuti di carattere sessuale che, assieme alle scene di sconvolgente violenza, fecero muovere persino la censura del più libertino Giappone.
Urotsukidoji fu realizzato nel 1987, sulla base del manga di Toshio Maeda, uno dei mangaka (= disegnatore di manga) più “turbati” di sempre. La regia fu affidata invece a Hideki Takayama (che tra l’altro diresse, alla fine degli anni Settanta, alcuni episodi di Capitan Futuro e, più tardi, nel 1999, anche di Master Mosquiton) un regista che collaborò anche con personaggi importanti come Shotaro Ishinomori (il creatore di Cyborg 009 e di Ryu il ragazzo delle caverne) e Kozo Morishita, che lavorò nello staff di produzione di tutte le serie di Dragon Ball e che diresse le puntate della serie Saint Seiya (I cavalieri dello Zodiaco). Lo stile, la grafica, i colori e le animazioni sono molto validi e donano a tutta l’opera una verosimiglianza e una fluidità che, in un hentai anime, sono elementi fondamentali per una visione chiara e senza problemi.
Gli episodi qui analizzati sono i primi tre, realizzati a partire dal 1987 e distribuiti dalla defunta Granata Press nel 1994.  Il finale di questa trilogia è però aperto (anche se non inconcludente) e infatti furono in seguito realizzati altri  episodi (dal 1993 al 2004) con il famigerato Chojin sempre protagonista.
Urotsukidoji, come accennato in precedenza, è un hentai anime. La parola hentai  indica tutti quegli anime, manga e videogames che contengono esplicite rappresentazioni di natura sessuale. Infatti, sebbene la vicenda del Chojin abbia una trama intricata e affascinante, una rappresentazione superba dei personaggi demoniaci e una caratterizzazione complessa dei personaggi coinvolti nell’intreccio, Urotsukidoji è soprattutto caratterizzato (e ricordato dai più) per le esplicite scene a sfondo sessuale e per lo stile splatter molto marcato.  Si può affermare, quindi, che questo sia un anime “della carne” ovvero un cartone animato in cui la carne è assolutamente protagonista: tutti gli episodi-chiave, tutte le scene-fulcro dell’intera vicenda e i rapporti personali tra i singoli personaggi, infatti, si basano o, meglio ancora, assumono un significato preciso solamente passando attraverso una serie di atti sessuali infinitamente lunghi e che talvolta si concludono con l’esplosione di sangue di uno dei due protagonisti. E’ possibile che la vicenda possa apparire esagerata e a tratti ridicola (emblematica la scena in cui Niki decide di diventare un demone: per far ciò deve compiere un truculento rito che consiste nell’amputazione del proprio pene, atto necessario per “assumerne” un altro dalle fattezze mostruose che lo avrebbe reso invincibile), ma non bisogna dimenticare che un hentai  va preso come tale e cioè un’opera che ha sì una trama che lo sostiene, ma che ha nelle scene di erotismo esplicito la sua peculiarità e la sua ragione d’essere.
Una curiosità: in Giappone è vietata la riproduzione (grafica o reale) dei genitali maschili durante l’atto sessuale, anche nei video pornografici (per questo sono sempre coperti dai pixel). In Urotsukidoji  (e in quasi tutti gli altri hentai) si è giunti ad una bizzarra soluzione per ovviare al problema: i demoni (protagonisti della maggior parte delle scene di sesso) sono quasi sempre degli esseri mostruosi dotati di più membri virili, i quali però sono più simili a dei tentacoli che ad altro. Abbiamo così delle scene di esplicito erotismo tra ragazze e tentacoli, un trucco che consente di aggirare i tagli e i ritocchi della censura. Una rappresentazione che, tra l’altro, trae ispirazione da un illustre precedente: intorno al 1820, infatti, il celebre pittore giapponese Hokusai (considerato da tutti come il primo ideatore del concetto di manga) realizzò un dipinto su legno dal titolo “Sogno della moglie del marinaio”, nel quale una donna veniva violentata da una coppia di piovre giganti (in una scena che ricorda da vicino quelle di Urotsukidoji) ed è considerata la prima rappresentazione di violenza sessuale arrecata da tentacoli (tentacle raper).

Urotsukidoji
Titolo originale: Chojin Densetsu Urotsukidoji.
Luogo e anno: Giappone, 1987.
Regia: Hideki Takayama.
Genere: Hentai-anime, fanta-horror. 

a cura di Giorgio Mazzola

Ghost in the shell di Mamoru Oshii

In un prossimo futuro, in cui le reti informatiche influenzano la vita di tutti i giorni, rendendo problematica la distinzione tra ciò che è reale e ciò che è fittizio, la convivenza tra esseri umani e cyborg è ormai un dato di fatto che non desta più scalpore. Le menti delle persone sono diventate poco più di semplici archivi in cui qualsiasi pirata della rete, particolarmente esperto, può permettersi di curiosare. Ed è proprio al gruppo di questi pirati che il fantomatico “Signore dei pupazzi” sembra appartenere, chiamato così perché sarebbe in grado di insinuarsi nelle menti delle sue vittime per far compiere loro crimini o azioni sconsiderate.
Il maggiore Matoko Kusanagi, un’ufficiale della “Shell squad”, il reparto di sicurezza della “Sezione 9”, è un cyborg dalle fattezze di una giovane donna, modificata svariate volte nel fisico, ma con il suo spirito originale rimasto immutato. Sarà compito suo (e del suo compagno di reparto Bateau) riuscire ad individuare e fermare questo misterioso nemico che, in seguito, si scoprirà essere una vera e propria coscienza cibernetica sfuggita al controllo del governo Statunitense, con la segreta ambizione di potersi unire alla stessa Kusanagi e creare così un essere che possa oltrepassare i confini restrittivi in cui i cyborg sono costretti a vivere, considerati dagli umani dei semplici gusci in cui gli spiriti cibernetici sono racchiusi  (ghost in the shell, appunto).

Ghost In The Shell, tratto dall’omonimo manga di Masamune Shirow, fu realizzato nel 1995, per la regia di Mamoru Oshii (Patlabor, Urusei Yatsura). Questo anime può essere considerato uno dei prodotti a metà strada fra le tradizionali tecniche d’animazione e le più moderne computer graphics (presenti oggi in larga parte su cartoni animati come Blue Submarine e Last Exile, dello studio Gonzo), avvicinandolo così a opere come Neon Genesis Evangelion e Cow Boy Bebop, per citare i più celebri.
In questo appassionante cyber-punk i riferimenti a Blade Runner sono evidenti, sia per le ambientazioni che per le tematiche affrontate nel corso della vicenda. L’intera trama, infatti, è costruita attorno ad un senso di precarietà, di dubbio e di tormento interiore: sentimenti, questi, incarnati pienamente dal maggiore Kusanagi, la quale, in seguito all’incontro col “Signore dei pupazzi” (capace di creare uno spirito senza una base di cellule cerebrali umane) inizia ad intuire quali possano essere le risposte alle domande che l’hanno sempre tormentata, a proposito della sua vita, delle sue origini e del suo ruolo in questo mondo in quanto cyborg. La linea di confine tra umanità e cibernetica, tra vita originale e vita ricreata diventa sottile, nebulosa, generando così una tangibile inquietudine e un forte bisogno di punti saldi a cui aggrapparsi per poter riuscire ad andare avanti: solamente andando oltre i confini, infatti, il tema della relazione con l’altro è fattibile, così come la piena coscienza di un mondo a cui ci si deve adattare, per poter infine far emergere l’essenza che più ci è sconosciuta: noi stessi.
Anche Newport City sembra incarnare l’atmosfera che si respira lungo tutta la vicenda: con i suoi grattacieli anonimi, le case abbruttite dal passare del tempo e le sue notti perennemente illuminate diventa una spettatrice decadente, impassibile di fronte alle vicende di personaggi che hanno smesso perfino di guardarsi negli occhi. Non più una metropoli che vive la vita dei suoi abitanti, ma un guscio contenente spiriti ridotti ad anime in pena, proprio come i cyborg che lei stessa discrimina.

L’efficace colonna sonora di Kenji Kawai, con percussioni che sembrano passi nel buio e voci che sembrano invocare aiuto, riesce a mettere in rilievo lo spaesamento dei personaggi, accompagnando lo spettatore in una vicenda in cui tutto sembra inaccessibile.

Ghost In The Shell
Titolo originale: Kokaku Kidootai.
Luogo e anno: Giappone, 1995.
Regia: Mamoru Oshii.
Genere: Animazione, fantascienza. 

a cura di Giorgio Mazzola
     

Archivio GHoST (immagini) - Vampire Vol.1

Vampire Vol.1 (raccolta di foto con tema i vampiri) 
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Licantropia


La luna affascina e conquista chiunque si fermi ad ammirarla, che siano essi persone, animali o mostri.
E proprio nelle notti di luna piena i sopravvissuti raccontano di essersi imbattuti in creature orrende, cacciatrici di sangue dotate di forza esorbitante, metà uomini e metà lupi: i licantropi.
Fin dai tempi più antichi, si pensava che gli uomini guerrieri e gli sciamani fossero capaci di mutare la loro forma, per avvicinarla a quella di alcuni animali, per poter ottenere la loro forza, la loro agilità e il loro coraggio. Si narra che durante le loro feste pagane gli sciamani consumassero carne di lupo e venerassero l’animale come un dio. Era infatti l’animale che suggeriva al sacerdote i comportamenti e rituali. Il cibarsi della carne dell’animale era un sacramento solenne, un modo per acquistare ed assorbire una parte di divinità. Questo era un grande dono, che solo pochi potevano ottenere. Un dono che dava loro potere all’interno della comunità di cui facevano parte.
Divenire uomo-lupo comportava un cambiamento radicale non solo nell’aspetto e nell’utilizzo dei propri sensi, ma anche nell’essenza stessa della persona, nella propria personalità.
La vista, l’udito e l’olfatto acquisivano livelli mai sperati per una persona normale, l’intuito traeva in questa mutazione giovamento infinito. Ma, importante, era anche il rovescio della medaglia: aggressività animale, forza bruta, artigli taglienti come la lama di un rasoio, denti aguzzi con cui uccidere i nemici, squartandoli e divorandoli, senza lasciare loro alcuna speranza di sopravvivenza.
In questo modo il licantropo agiva indisturbato, seguito solo dall’ombra della notte, da sempre sua alleata.
 
Nella mitologia greca si parla della nascita del primo licantropo con Licaone, un re greco che sacrificò un bambino in onore a Zeus, offrendogli le sue carni. In questo modo scatenò la collera del dio e questi per punizione, lo trasformò in lupo, lasciando in lui delle fattezze umane, maledicendolo per sempre e condannandolo ad una vita di solitudine ed emarginazione.
Anche a Roma, dove veniva venerata la lupa di Romolo e Remo, esisteva il mito del licantropo. Il termine utilizzato per indicare il lupo mannaro era “versipellis”, il cui significato è “cambiapelle”. Infatti si pensava che all’interno del corpo umano crescesse il pelo della bestia e che fosse sufficiente rivoltarsi per effettuare la metamorfosi. Sempre a Roma nel I secolo d.C., Plinio affermò che i lupi mannari erano una realtà. Nella sua opera, intitolata “Naturalis Historia”, affermò che tale credenza era molto diffusa tra il popolo. Fornì inoltre particolari importanti sugli effetti del lupo e sul carattere magico della sua coda, che conterrebbe un talismano amoroso. Accusati di cannibalismo e stragi soprattutto di bambini, nel Medioevo, molte persone considerate licantropi vennero cacciate e uccise. Questo periodo storico è tristemente famoso per il suo fanatismo religioso e per la demonizzazione di ciò che all’epoca era sconosciuto.

Tra questi c’è il caso di Gilles Garnier, accusato e processato il 18 gennaio del 1573 a Dole dal giudice Henry Boguet, principale esperto di lupi mannari dell’epoca. Garnier aggrediva soprattutto bambini per poi nutrirsene.
Interessante notare che il paese di provenienza di Gilles Garnier si diceva fosse stato invaso dai lupi, ed era lo stesso luogo di origine di altri quattro uomini processati con le medesime accuse. Un altro caso di licantropia dell’epoca fu quello della famiglia Gandillion. Tutti i suoi membri furono considerati licantropi e anche in questa occasione fu il giudice Boguet a mandarli al rogo. Si narra che continuarono ad ululare e a camminare a quattro zampe anche dopo essere stati rinchiusi in cella.
Nello stesso periodo, con la “caccia alle streghe”, licantropia e stregoneria vennero sovente accomunate. A tal proposito in Francia, Italia, Svizzera e Germania numerose donne vennero accusate e, dopo aver confessato sotto tortura, barbaramente uccise.
Si diceva, infatti, che durante i sabba, le streghe potessero assumere nuova forma, come per esempio quella del lupo e di altri animali. Alcuni studi fatti in quel tempo descrivevano la procedura: la strega, o stregone, si denudava e si ricopriva con una pelle di lupo. Si ungeva il corpo con un unguento preparato con la velenosa radice di belladonna, fuliggine, sangue di pipistrello ed altri ingredienti. Infine, indossata una speciale cintura, stringeva un patto con il Demonio, che donava loro velocità e forza, necessari per sfamare la voglia di sangue e carne umana.
Una delle leggende legate alla donna-lupo nacque sempre in Europa, nel 1588. Essa narra di un uomo che riuscì a ferire un lupo mannaro e a mozzargli una zampa. Corse in paese per dare la notizia e mostrare il suo “trofeo”, quando improvvisamente si accorse di avere tra le mani una mano femminile. Tra la folla, un uomo riconobbe l’anello nel dito dell’arto amputato e corse a casa dalla moglie, trovandola mutilata ed intenta a fasciarsi la ferita ancora sanguinante.
La licantropia, nell’Europa medievale, era così diffusa da ricevere un posto d’onore anche in alcune rappresentazioni teatrali. In Francia, una novella racconta di un nobile che, ingenuamente, confidò alla propria moglie d’essere un lupo mannaro. Questa, con l’ausilio dell’amante, atteso il momento propizio, rubò gli abiti dello sventurato che, per pudore, non poté più riprendere le sue sembianze umane. Scambiato per un raro animale, venne donato al re. Poco dopo, il lupo si svelò al sovrano ottenendo la restituzione dei suoi abiti e giustizia, a discapito dell’infedele donna e del suo amante.
L’origine della licantropia, così come la sua storia, ha diverse facce.
Tra quella magica, c’è il racconto di Peter Stubbe. Vissuto in Germania, morì atrocemente il 28 ottobre del 1589, prima torturato con la ruota della tortura, decapitato, ed infine messo al rogo per mano della “Santa” Inquisizione. L’uomo, che uccise due donne incinte e 13 bambini, tra cui i suoi figli, raccontò di aver ricevuto in dono una cintura dal demonio, con la quale poteva trasformarsi in lupo ogni qual volta voleva.
Un’altra ipotesi sull’origine della licantropia, è quella della trasmissione tramite sangue o morso infetto. Si dice, infatti, che chi sopravviva al morso del licantropo sia destinato a subirne la stessa sorte.
Quella mitologica la troviamo nel racconto greco di Licaone, già esposto all’inizio di questa ricerca, mentre, quella più naturale è quella della malattia o induzione mentale. La stessa di cui si servivano gli antichi sciamani e i più valorosi e forti guerrieri per trarre forza o coraggio dal proprio io cosciente; forza che, se non gestita correttamente, avrebbe potuto dar vita a veri e propri mostri o, più propriamente, serial killer. Ad avvalorare quest’ipotesi, troviamo racconti simili in altre parti del mondo dove, al posto del lupo, si trovano altri animali: il leopardo, il coccodrillo (Africa); il tasso (Giappone); la tigre (India) e il giaguaro (America).
Quando la malattia, oltre che psicologica trovava riscontri in altre anomalie fisiche, come l’ipertricosi ad esempio (malattia per la quale una folta peluria ricopre interamente il corpo ed il viso lasciando scoperti solo i palmi delle mani e dei piedi), era facile dar vita ad un nuovo lupo mannaro. E se a questi si aggiunge la credenza popolare, il gioco è fatto. Così nascevano i colpevoli indiscussi di alcuni omicidi mai realmente risolti.
Io penso che ognuno di noi abbia il proprio lupo nel cuore, e quando la rabbia agisce incontrollata gli dona la forza necessaria a rompere le catene che lo tengono rinchiuso. La cosa importante è che esso non prenda il sopravvento, trasformandoci in pericolosi e spietati licantropi.

a cura di Manuela e Barbara 

Il giorno degli zombi di George A. Romero

Un elicottero sorvola la costa orientale degli Stati Uniti: una lunga processione di città deserte. Almeno così sembra. Non appena due uomini si avventurano per le desolate vie di Miami, le strade si gremiscono di morti che camminano. Gli zombie hanno vinto. Il mondo è loro. Ai pochi superstiti non resta che chiudersi in un bunker e dividersi in fazioni, scienziati, soldati e tecnici, e trovare una soluzione, ciascuno a modo suo. Orgoglio, follia e paranoia finiranno per ucciderli. Per chi si è prudentemente tenuto lontano dai conflitti autodistruttivi, l’unica soluzione è fuggire e lasciare che i rimasti al mondo si divorino tra loro.
La trilogia dei morti viventi di George Romero si chiude con il capitolo più amaro. L’ironia de La notte dei morti viventi e il tono satirico di Zombi vengono abbandonati in favore di uno stile più freddo e crudo, di una claustrofobia tanto spaziale quanto umana, di una violenza gelida e famelica.
Se i due precedenti film erano varianti sul tema della violenza necessaria in uno stato mal funzionante che non si riducevano a semplici metafore politiche, Il Giorno degli Zombi sceglie esattamente questa strada.
La parte violenta e irrazionale dello stato americano (e non solo, a ben guardare) si incarna nei militari. Addestrati allo scontro, reagiscono con indolenza all’invasione: per loro è solo un altro tiro a segno. Si sentono i più forti e quando le istituzioni crollano e arriva l’anarchia, prendono prepotentemente il comando e subito si dimostrano intolleranti verso gli scienziati. Non vogliono dividere le ultime risorse con loro, considerandoli inutili.
Questi dovrebbero portare la ragione, ma perseguono le loro ricerche e i loro ideali con ottusità, a volte fino alla follia. Come nel caso del professor Logan, scienziato di antica tradizione, che “rieduca” uno dei ritornanti e conduce orribili, insensati esperimenti sui cadaveri in cerca della causa biologica dell’epidemia e di una soluzione pacifica, senza rendersi conto che le sue ricerche sono inutili quanto l’aggressività dei militari.
Militari e scienziati si danno battaglia e arrivano alle armi. La dicotomia guerra e pace è insensata, se non c’è comunicazione e spirito di collaborazione, se l’istinto che inevitabilmente prevale è la sopraffazione, simboleggiata dagli zombi, che in questo film si muovono in affollatissime ondate e sono più che mai affamati e violenti. Un soldato, umiliato dai compagni, apre le porte e lascia entrare i mostri nel bunker dando inizio al massacro indiscriminato. Gli uomini hanno perso, su tutti i fronti. 
Chi la scampa sono i tecnici, che considerano inutile tanto sparare che stare a guardare e badano alla propria individuale sopravvivenza. Quando la guerra interna al bunker sfiora i loro quartieri non esitano a darsela a gambe, lasciando gli altri al loro destino. Tra loro c’è la protagonista, interpretata da Lori Cardille, il cui percorso è simbolico dell’ideologia del film: partita come scienziata in cerca di risposte e soluzioni, abbandona l’ideale e comprende che l’unica via di sopravvivenza è nella saggezza pragmatica e materialista dei due tecnici dell’elicottero. La chiosa della trilogia è dunque disperatamente nichilista.
Il film ha alcuni difetti nella sua eccessiva verbosità (sebbene i dialoghi siano ben scritti) e nell’eccessivo schematismo con cui rende conto delle parti in gioco. I personaggi non sono ben motivati e, a tratti, aderiscono a stereotipi. Ciò non toglie che l’effetto di insieme sia incredibilmente potente.
Merito soprattutto del ritmo, come al solito fulmineo, e della regia, mai così ispirata e visionaria. Il mondo del bunker sotterraneo sembra uscito da un incubo di solitudine e abbandono, con i suoi spazi immensi, le pareti di un soffocante bianco uniforme, una staccionata e una semplice rete metallica come protezione dall’esterno.
Ancora una volta l’orrore si scatena alla luce, in un assolato mattino di Miami e nei corridoi dei laboratori illuminati al neon (solo una la sequenza al buio, la memorabile fuga attraverso le caverne).
Il sangue scorre a fiumi ma raramente viene ricercato l’effetto facile e la violenza mantiene il tratto ironico dei film precedenti. Il banchetto cannibalesco finale è un perfezionamento della conclusione di Zombi nel suo programmatico irrealismo. Il cattivissimo capo dei militari, Joe Pilato, viene sventrato e smembrato e non sembra provare il minimo dolore. Privo di organi interni, con un ghigno sulle labbra, invita i mostri a divorarlo.
Le ristrettezze di budget non si sentono, tuttavia il film è una soluzione di compromesso che ha sacrificato molte delle idee originali di George. In rete è possibile scaricare la sceneggiatura originale de Il giorno degli zombi, leggendo la quale si può intuire che, con qualche soldo in più, sarebbe stato un film indimenticabile.

a cura di Lucio Besana