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Gita al faro di Virginia Woolf

Gita al faro è un romanzo familiare. Non solo perché ha come protagonista una famiglia (i Ramsay), ma anche per la sensazione di familiarità che ho avuto nel leggerlo, quasi stessi vivendo in un'isola, in un mondo confuso, in guerra, circondata dalle persone, dalle loro solitudini... Virginia Woolf scrive questo romanzo con una sensibilità, una poeticità che non appartiene a molti: testimonianza di un'assenza che è innanzi tutto assenza della madre, morta quando Virginia aveva solo tredici anni. Gita al faro è un viaggio: nella mente umana, nei ricordi, un viaggio nostalgico (quando gli occhi della mente guardano attraverso una finestra sul futuro e hanno paura di lasciare ciò che hanno), ma pure di speranza, perché anche se ci si rassegna al tempo che passa, e alla morte, si perpetua la vita in un raggio di luce, la natura vive come ciò che "sentiamo" e va oltre le distanze (e spaziali e temporali). Mentre il narratore rimane extradiegetico ed eterodiegetico (nonostante si sappia che la Signora Ramsay sia figura della madre della Woolf e Lily Briscoe alter ego della stessa Woolf), la focalizzazione nel racconto è variabile. 
A prevalere nella prima parte del libro è il punto di vista della madre e ad essere messe in evidenza, quindi, sono le solitudini dei vari personaggi, le distanze che la signora Ramsay tenta di ridurre: lo spazio è necessariamente e quasi totalmente quello interiore; anche i gesti (lavorare a maglia, attaccare figurine, aprire e leggere un libro…) mostrano il loro aspetto sentimentale. Nell'ultima parte invece il punto di vista è quello di Lily: dominano i dubbi, le domande senza risposta, ancora la solitudine prende il sopravvento e continua la ricerca di un'unione che alla fine, com'è giusto che sia, si risolve in un'unione più personale che collettiva. Possiamo quindi trovare la nostra visione, su una spiaggia come in un quadro, e lo faremo da soli, ma forse non ci riusciremo senza quei fili di luce sottile che sono i rapporti con gli altri (o i loro ricordi). C'è poi il capitolo centrale che funge da ponte tra "la finestra" sul passato e il futuro, che vede il raggiungimento del "faro" : "il tempo passa", momento apparentemente  anomalo di un romanzo che pare immobile, come se il susseguirsi dei pensieri, tra positivo e negativo, dipingesse un mare ondoso ed eterno. Si, ciò di cui si parla qui è il trascorrere dei giorni, dei mesi, degli anni, ma, concretamente, si tratta di un racconto" sommario", ricco di pause, e con frequenti sguardi nel cannocchiale dei ricordi. Ha inizio con una scena: gli ospiti e i figli della signora Ramsay rientrano in casa e spengono i lumi. Tutto è confuso, niente è distinguibile a causa del "diluvio di tenebre" che invade le stanze. "Dobbiamo attendere che il futuro si riveli" (questa la prima frase),ma ora è impossibile e ciò che si presagisce non è niente di buono, con il buio e gli aliti di vento che prendono corpo, quasi si personificano, e si infiltrano toccando ogni cosa ma non le persone, ancora vive. Se la luce rappresenta la vita, le tenebre non possono che raffigurare la morte, il nulla. Ma quegli aliti, interrogativi e perplessi, forse racchiudono in loro una forza che non è della Natura sola, è una forza che arriva dall'alto. Poi, ancora nei primi paragrafi, ha avvio il susseguirsi delle stagioni, anch'esse corporalizzate (l'autunno sono gli alberi che luccicano nel giallo chiarore della luna; l'inverno ha dita instancabili per distribuire le notti…) e compare una bontà divina volubile, che solleva o abbassa il sipario dello spettacolo-vita senza curarsi troppo delle sofferenze umane o delle loro domande. La mano protesa (alla Natura) si ritrae, come pure dovrà fare quella del signor Ramsay, quando, in un buio mattino, cercherà l'abbraccio di sua moglie invano: lei è morta, le braccia di lui vuote. Il vuoto è la caratteristica principale della stessa casa. A mostrarcelo è ancora il vento, e il delicato naso delle brezze marine,  che insieme descrivono la desolazione accarezzando le cose annerite dal tempo e fanno rimbombare le loro domande: siete destinati a perire? Tutto è ancora immobile, come se gli abitanti della casa fossero ancora lì, o almeno i loro gesti si fossero cristallizzati in quell'aria umida. Ma le ombre lottano e prevalgono la luce, sono ombre non-umane, di uccelli e alberi; e anche quel mantello di silenzio, che è quiete e pure rispetto del passato, viene infranto, per un attimo, quando una piega dello scialle della signora Ramsay si apre un poco ed oscilla nell'aria: le distanze, il tempo, la morte, mutano lentamente le cose. A questo punto, con tutta la sua forza grezza e pesante, compare la custode della casa: la signora Mc Nab (strappa il velo di silenzio e lo calpesta). Il paragrafo 5 è dedicato a lei, a lei che rollava come nave in mare e che con il suo sguardo obliquo, di sbieco, si difendeva dall'ostilità del mondo, lei che, seppur curva dalla stanchezza, cantava, e intanto lavorava. Non si sa cosa pensasse, mentre gli altri, i mistici, i visionari passeggiavano sulla spiaggia, agitavano l'acqua di una pozza (immagine che si ripete più volte), per poter scorgere i riflessi di una visione futura, per capire chi fossero veramente: una minuscola parte di un mare infinito o il mare stesso. "Lei avrebbe continuato a bere e a spettegolare": quale distanza da quella spiaggia (e da quella pozza)! Continua poi la visione antropomorfa delle stagioni. Ora è il momento della primavera (vergine fiera nella sua castità, indifferente e luminosa) e dell'estate, con le sue spie (il vento) in giro per la casa. Il bel tempo riporta alle riflessioni sullo specchio d'acqua, le menti degli uomini piene di nuvole e ombre, agitate ma piene di sogni, contemplano la vita sperando in qualcosa di più, che vada oltre le virtù familiari, una salvezza che sa di assoluto. Ma nonostante il torpore scaturito dal caldo, la vita umana va avanti, con tutte le sue sofferenze. Una tarda pioggia primaverile, e poi un tonfo, come di qualcosa che cade, raffigurano altre assenze: quelle di Prue e di Andew Ramsay. Assieme a quella della madre esse occupano poche righe, l'autrice si affida ai puri fatti visti da altre persone, il tutto racchiuso in parentesi quadre, un distacco che aumenta la tragicità ma, soprattutto, l'ineluttabilità degli eventi. Con la morte del figlio fa la sua apparizione la guerra, che completerà il suo tetro dipinto lasciando dei segni sulla superficie della natura, del mare: una nave cinerea e una macchia purpurea, provenienti dal profondo (la meschinità dell'animo umano), assolutamente contrastanti con la bellezza del mondo, in cui ormai è difficile se non impossibile rispecchiarsi. Lo specchio è rotto, dice, poiché trionfa la disgregazione, non più l'unità. L'uomo si rifugia nella poesia( Carmichael,il poeta, ottiene un insperato successo, infatti), la regina di quanto c'è di elevato, alto, per sfuggire alle bassezze della guerra. Intanto venti eonde sono come masse amorfe di leviatani privi del lume della ragione: l'universo intero è sconvolto, è in uno stato di confusione bruta, di cupidigia insensata e sfrenata (ricorda il signor Ramsay, l'uomo che si tormenta e non è mai in armonia con la natura!). La quiete e lo splendore del giorno si contrappongono al caos e al tumulto della notte; gli alberi guardan fisso davanti a loro e verso l'alto senza vedere… come l'individuo che tra i tormenti oscuri della mente cerca di elevarsi senza però riuscirci. Dal paragrafo 8 la casa è di nuovo protagonista, attraverso gli occhi della signora Mc Nab. I fiori ci mostrano che è ancora primavera, le riflessioni della custode il passare del tempo e la degradazione: libri pieni di muffa (da mettere al sole), giù l'intonaco, otturata la grondaia sopra la finestra, rovinato il tappeto. Tra queste rovine riappare la signora Ramsay, in mezzo ai vestiti negli armadi, alle sue cose ormai piene di tarme, con il suo scialle che portava un tempo per lavorare in giardino (e quindi a contatto con la natura), un giardino ora diventato un groviglio di piante. Viene messa in evidenza la figura della madre (c'è il bambino al suo fianco), e la sua morte è introdotta da un "dicevano", che la fa sperare non-reale. La vediamo salutare la signora Mc Nab una volta e poi ancora, gentilmente (la custode apre il cassetto di ricordi): quante persone sono morte, quante persone hanno perso i propri cari (e lo richiude). Il pensiero ora va ai prezzi che sono saliti, altro breve cenno alla "semplicità" della cameriera (che mai viene chiamata così, ma solo per nome), come lo sono stati lo sguardo, la bocca sdentata, le gambe pesanti…Ci sono degli elementi che si ripetono, per meglio rappresentare i pensieri di una persona come la signora Mc Nab: la signora Ramsay e il suo altruismo (con la sua offerta di zuppa al latte), lei così fragile ma presente (come un bagliore giallognolo che vagava sul muro), la vecchiaia (aveva dimenticato tante cose…si stava meglio allora che adesso), la rassegnazione e il distacco dalla famiglia dei signori (troppo da fare per una donna sola… loro non mandano mai nessuno, non vengono mai…). L'immagine che continua a consolidarsi è quella di una casa vecchia, scricchiolante e sola, proprio come la stessa custode. Le porte sbattono, quelle porte che la signora Ramsay voleva chiuse, mentre le finestre dovevano essere aperte, per rigenerare la vita. La casa abbandonata, disertata ci appare come un casa-fantasma, un campo di battaglia alla fine della guerra. La notte ancora rappresenta la morte, ritorna la personificazione delle brezze e degli aliti, a dimostrare come la natura possa prendere il sopravvento se la forza dell'uomo non è presente per controllarla. I ricordi hanno vacillato sui muri come una macchia di sole(di vita) e sono svaniti; la luce del faro è entrata per un attimo, forse ad evidenziare il contrasto con l'abisso di tenebre in cui la casa, fatiscente e cadente, sta per precipitare. Basta una piuma per far traboccare la bilancia: una piuma nera avrebbe portato la casa (la vita passata, familiare) nell'oblio, una piuma come i rovi e le cicute, e solo una tritoma o un frammento di porcellana avrebbero indicato quella vita. La semplicità dei lavoratori ritorna  a questo punto come forza (inconsapevole, dice) che pone un freno alla decomposizione e putrefazione: la s. Mac Nab insieme con la s. Bast salvano così la casa, e forse anche loro stesse, dal diluvio del tempo, attraverso l'azione. Viene evidenziata la lentezza, la fatica, le numerose cose da fare (in contrasto con l'idea delle "signorine" di ritrovare tutto com'era prima). Le donne scuotono e sbattono, pare un parto rugginoso e laborioso. Una vita che non c'è più deve resuscitare! Ecco di nuovo il cannocchiale per guardare indietro. Ora il cerchio di luce è il signor Ramsay, si potrebbe dire l'opposto della sua consorte: non chiamato per nome, magro e duro come un chiodo, che scuoteva il capo, parlando da solo, e che non la notava mai, la s.Mc Nab. Ancora dubbi sulla morte poi, nella camera dei bambini, i ricordi si fanno allegri (e si srotolano come un tenero gomitolo), diversamente da quelli scaturiti dalle lunghe file di libri un tempo neri come corvi, simboli di una distanza sottile e silenziosa tra i coniugi Ramsay, ma anche tra le persone comuni e i grandi pensatori. Cominciano a rivivere gli oggetti, perché rivivono le persone, ha di nuovo un senso usare il servizio da tè! Ed ecco che il gomitolo giunge a sfiorare elementi di una vecchia ricca condizione sociale, nei quali domina la distanza: da lontano veniva il teschio appeso alla parete, dall'oriente alcuni vecchi ospiti, e le signore in abito da sera, tutte ingioiellate sono contrapposte alla s. Mac Nab che lavava i piatti, fin dopo la mezzanotte. Ora le finestre sono di nuovo aperte, e le porte chiuse, si possono sentire i suoni della Natura (quelli minacciosi della guerra sono svaniti), si può ritentare un'armonizzazione con Lei, nonostante non sia mai totale. Poi cala il silenzio e si alza la quiete, la foschia rende tutto soffuso, cosicchè le diverse solitudini possono ricomparire, in punta di piedi, quasi fossero spiriti, anch'esse infatti racchiuse in parentesi quadre. Il cambiamento, il ritorno della pace è giustamente affidato al mare, il suo mormorio ridiviene misterioso poiché ad ascoltarlo c'è Lily Briscoe, la notte stessa indossa il vestito più bello per ammaliare menti  profonde come quella di lei e del signor Carmichael. La casa è nuovamente piena, di nuovo c'è qualcuno che sposti la tenda per guardar fuori, il buio continua la sua invasione, ma ora è dolce, delicato, come un drappo che avvolga ogni cosa, poiché più forte è la consapevolezza che sia giusto rassegnarsi (al buio come alla morte). E' un segno positivo a prevalere, qui come alla fine di ogni capitolo, positivo e femminile: l'amore non dimostrato ma percepito; il sole che solleva le tende; lo sforzo della pittrice, e mentale e fisico, che porta ad una conclusione. Quindi è il sole, dicevo, la luce che rianima le cose e le persone. Lily afferra le coperte "come chi sul punto di cadere da una rupe, s'afferra alla zolla sul ciglio", è di nuovo sveglia: fa sempre un po' paura riscoprirsi vivi!
SCHEDA LIBRO
Titolo: Gita al faro
Autrice: Virginia Woolf
Editore: Garzanti
Prezzo di copertina: 8,50 Euro

a cura di Ally
    

La tana e il microfono di Antonio Alleva


Dal suo microcosmo esemplare di Nocella di Campli, lo sperduto villaggio che è insieme centro di un universo popolato e fremente, e fratello di tutti gli altri sconosciuti piccoli universi cari a ciascuno di noi, Alleva lancia folgoranti messaggi in bottiglia…” (Antonia Arslan).
“Capita di rado di aprire un libro di poesia intenso e strutturato come La tana e il microfono; in un tempo in cui i poeti raccolgono i frammenti delle proprie esperienze personali spacciandole per universali, o raccontano le proprie storie come fossero brandelli significativi di Storia, Antonio Alleva ci consegna uno dei libri più alti e consapevoli di questi ultimi decenni…” (Mauro Ferrari).
“Bianco, bianco, tutto bianco. /  mi chiedo se avrebbe ancora senso/ ma il fascino resta indenne ci prende/ la mistica del se riusciremo un giorno/ ad innalzare la scrittura all’apice del silenzio/ se mai riusciremo un giorno a lasciarlo davvero tutto bianco questo foglio”./
Il foglio bianco è immobile, aspetta una manifestazione dal luogo in cui nulla si crea e nulla si distrugge mentre il Poeta si chiede se oltre l’involucro, “a quel punto preverrà la mistica del lasciarsi colare su quelle antiche gocce di bel sangue se si dichiarerà fallito l’ennesimo tentativo di battere dio facendosi solo fruscio facendosi solo lo scrivere o se invece avrà stravinto l’invisibile raggiante l’io-vivente come un dondolo felice tra gli alberi e la sapienza che già precedevano la carta”.
Ci fu un tempo in cui la sapienza degli uomini precedeva la carta, era il tempo degli uomini guidati dagli dèi e dalle voci considerate come persone; voci alle quali l’uomo ha dato un senso solo successivamente. Antonio Alleva, all’interno del suo testo poetico, dal titolo geniale, “La Tana e il microfono” Edizioni Joker, descrive l’origine della coscienza capace di interagire con tanti Io, pronti a divenire voci o messaggeri divini in un tempo contemporaneo, in cui solo i  poeti percepiscono che l’essere non è solo materia, ma possiede una dimensione più profonda e segreta, pulsante, incontrollabile. A quel punto, prevale la mistica del lasciarsi colare su quelle antiche gocce di bel sangue e così; gocce d’inchiostro fuoriescono come frammenti d’inconscio e sporcano un foglio bianco sul quale l’autore dirige tutte le energie. In questa straordinaria plaquette di Antonio Alleva, l’essenza del tutto si concentra nelle essenze dei singoli e versa con stilemi originali su di esse. L’autore stesso, assiste in silenzio alla pratica attiva del pensiero che si manifesta in una sorta di inatteso linguaggio che può essere percepito attraverso un attento sentire. Il senso si estende nel suo immediato divenire nello spazio bianco tra il silenzio e la necessità di parola, in cui si trova un tempo che volteggia come una piuma tra il raccoglimento e il palcoscenico, l’armonia e la platealità, il grembo e la moltitudine. Sembrano i binomi di una contraddizione che spesso l’uomo si trova a fronteggiare e che Antonio Alleva,  inserisce tra interno ed esterno, stagliandoli in una poetica discorsiva fatta di oggetti, paesaggi, simboli e sonorità; sul filo di una maturità espressiva notevole che affonda le sue radici in un rinnovamento lessicale che la lirica del nostro tempo sperimenta. Il suono racchiuso nei bisbigli degli animali fruga contemporaneamente nel celeste, arriva dritto sulle ali degli angeli, regalando una realtà alle immagini. Tuttavia, quando la parola suona in maniera esplicita depista, pur riuscendo a sopraffare il dolore, a mitigare il senso di colpa ed  a scaricarsi in forma sulla carta malgrado tutto. Viene in aiuto nella resistenza anche quando si presta a più significati; elevandosi nel tono quando esulta, oppure, al contrario, sussurrando mentre vaga tra i versi di una poesia, avvolta nel bisogno di rimuovere per ritrovare la strada che conduce alla rinascita. Come nel secondo Novecento l’evoluzione prosastica si oppone alla linea ermetica, così il verso di Antonio Alleva, illumina le azioni del quotidiano avvicinandosi alla poetica delle neoavanguardie pur conservando aloni di senso e coincidenze di natura in un’ insieme di cose piccole; protagoniste e simboli del suo affascinante universo. L’autore, tra il libro e la vita,  concentra il flusso dei pensieri nelle immagini reali; “dai Papija tira fuori quelle 4 pezze di plastica a colori quelle strisce di canna quel rocchetto di filo e vediamo di ricordare anche con una mano sola come si fa” (da Il GT ragazzi in diretta da Kabùl) le quali, scandiscono ogni dettaglio delle piccole cose, attestando che le procedure per ricostruire un  aquilone servono per sognare ancora con gli occhi incollati nel cielo prima che partono i primi spot sull’arrivo dei videogiochi al centro di kabùl. In tutte le poesie di Antonio Alleva il senso si regge e si alimenta di palesi limiti che confermano quanto tutto ha bisogno di una forma, quanto il tutto, nasce dall’uno e diventa il nostro gruppo di appartenenza, il nostro paese, il nostro giardino, l’amata patria.  Antonio Alleva, dalla sua tana “Nocella di Campli” annuncia al mondo di aver ritrovato la sua anima e tra l’essere e l’apparire, sceglie il microfono per comunicare la sua intrigante poesia e diluire con speciali invenzioni linguistiche la consapevolezza del nostro destino. Dalla sua tana, ricompone il tempo e la sua caducità, in un frammento di poesia pulsante, frutto di ciò che i suoi occhi possono contenere, occultando l’io narrante in un filo d’erba, bersaglio al gioco delle correnti, senza nessun tutor, e senza nessuna pietà. Essere brevità l’ultimo esile esempio di come tutta quella forza assurda fosse intrecciata così male a tutta quella assurda fragilità. “Poesia del filo d’erba”.
   
Antonio Alleva è nato ed è tornato a vivere a Nocella di Campli (Teramo). Ha pubblicato  Le farfalle di Bartleby (Edizioni Tracce, 1998) e Reportages dal villaggio in 7 Poeti del Premio Montale – 2000 (Crocetti, 2001). E’ presente in Vent’anni di Poesia – Antologia del Premio Montale 1982 – 2002 (Passigli, 2002), in Ondate di rabbia e di paura (Rai-Eri, 2002), L’amore, la guerra (Rai – Eri/ Ibiskos 2004), 4 poeti abruzzesi (Edizioni Orizzonti Meridionali, 2004) e in Diversi-Poeti per Sim-patia (DIA-LOGOlibri, 2004).Della sua poesia si sono occupate le riviste: Atelier, sito web di Poesia e Sinestesie, la Clessidra, Il Monte Analogo.
     
SCHEDA LIBRO
Titolo: La tana e il microfono
Autore: Antonio Alleva
Editore: Joker Edizioni
Anno di pubblicazione: 2006

a cura di Carina Spurio
   

Genio e follia


Molti personaggi geniali nel corso della loro esistenza hanno incontrato la follia. In varie culture ed epoche storiche si è spesso riscontrato un legame tra lo stato maniaco-depressivo e il temperamento artistico e per via di queste testimonianze, tramandate nei secoli, “arte e psicosi”, hanno formato un connubio di grande fascino.

Sia l’Arte che la Psichiatria hanno un punto in comune; le esperienze emotive. Se la psicosi corrisponde ad uno stato di perdita, l’arte permette alla mente di accedere nel luogo in cui la creatività è libera di manifestarsi ed esprimersi. Arte e follia sembrano coincidere nel momento in cui la sofferenza, viene dominata dalla creatività e l’anima si rivela attraverso l’espressione artistica. Forse la follia spiega le ali del genio?
Nel soggetto psicotico avviene una graduale perdita di contatto con larealtà, un distacco che in alcuni casi pregiudica la capacità dicomunicazione.
 
Quando la logica di pensiero e quella di comunicazione si alterano, la continuità tra passato e presente viene compromessa.
Il cervello di fronte alla realtà si modifica, la cambia, e il soggetto che soffre di psicosi confonde la realtà esterna con quella interiore, dando origine ad un rapporto diverso con la vita concreta.

L’Arte, sembra l’unico processo in grado di portare alla creazione di nuove realtà, di stimolare un canale di comunicazione in grado di contenere nuove percezioni, nell’innocenza di mani intrecciate che scorrono su forme e colori tra realtà e fantasia. La psicosi è un vuoto; l’impercettibile pensiero dominante di un’assenza che nuvole dense all’orizzonte colorano di grigio. Parole e suoni sono lontani.

Nella trappola del suo sentire, la malattia mentale, altera le capacità percettive ed emotive dell’artista e interferisce sull’espressione pittorica, musicale, letteraria. Il soggetto colpito, sente di non appartenere a se stesso e inizia a subire influenze e persecuzioni di forze esterne ed il treno della vita, viaggia su un “doppio binario”, pervaso da deliri e popolato, in alcuni casi, da individui fantastici.

La relazione tra creatività e follia affascina e inquieta gli esseri umani da secoli, attraversa epoche storiche nell’occidente, si attenua nel Medio Evo, ritornerà attuale nel Rinascimento, subirà ancora trasformazione nel Romanticismo, quando, arte e psicosi sembrano ospitare il genio della sregolatezza che tormentò artisti come Michelangelo e Caravaggio.
L’artista è imprigionato da un pensiero fisso che lo esclude e quel vuoto dentro, si dilata a dismisura, tanto, da colmare l’universo.
Non sente più nulla fuori di sé. Dentro di sé, cattura l’angoscia, che diventa la condizione per creare la formula, il colore o il suono imprevisto.
“Genio e follia” sembrano un binomio ideale per produzioni creative, vivono ancora intrecciati nella leggenda del genio incompreso.

Fu durante il Positivismo, reazione al Romanticismo, che il legame tra genio e follia verrà valutato in maniera diversa. In quel periodo, Cesare Lombroso (Antropologo, criminologo e giurista italiano, 1835 - 1909), cercò una relazione tra il genio, il folle e il criminale. Le potenzialità all’eccesso sembrerebbero ereditarie. L’ereditarietà per alcune malattie è un dato riconosciuto. Sulle teorie di Lombroso si intersecano gli studi di uno psichiatra inglese H. Ellis. Una sua statistica, condotta su 2000 personaggi famosi britannici, confermò il 5% di psicosi, confutando le teorie di Lombroso. Altri studi e statistiche compiuti successivamente tra la Germania e l’Islanda confermarono un legame tra creatività artistica e disturbi schizofrenici e tale associazione si riproduceva anche sui discendenti.
 
Sembra chiaro che nel dolore della perdita, si attiva la fantasia. Si crea. Si notano cose insospettate. Tutte le porte sono aperte. E l’artista racconta la sua storia personale mentre fugge dalla realtà esterna e se la malattia è un disagio, il suo vuoto, diventa un terreno fertile.
La storia ce lo racconta con la creatività forsennata di van Gogh, l’allucinata disperazione di Edward Munch, in cui, genio e follia inventano un cammino su un percorso che unisce due mondi, quello normale e quello diverso.
Molti personaggi famosi nel corso dei secoli, sono stati preda di varie patologie psichiatriche (politici, grandi scienziati, pittori, scultori, musicisti, scrittori, registi e poeti) ad iniziare dalla depressione all’asocialità, dall’anoressia alle ossessioni, ed hanno trovato nella follia la spinta per creare.

Resta un dato di fatto; l’immensa produzione di Michelangelo che pare lavorasse giorno e notte (fino a tarda età) , le molteplici composizioni di Beethoven, il quale, dormiva poche ore ogni notte e i 41 romanzi in un solo anno di Georges Simenon. Ma la lista degli instancabili geni folli è ancora lunga e parte dalle copiose produzioni di Rubens, Balzac, Bach, Mozart, Leonardo, Picasso e Hugo. Contempla le crisi allucinatorie di Rimbaud e quelle uditive di Schuman, l’anoressia di Kafka e la dislessia di Dickens, la criminale violenza di Caravaggio e Benvenuto Cellini, l’asocialità di Newton, la depressione di Baudelaire, De Chirico e Goehte.

L’alcolismo di Hemingway, Modigliani e Poe. Le manie di persecuzione di Shopenhauer. Esempi di personaggi tra la scienza e la politica sono numerosi. Molti ricorderanno John Nash che è stato un geniale e raffinato matematico. La sua carriera e la sua vita hanno oscillato tra psicosi e guarigione, la sua storia è stata raccontata anche dal cinema hollywoodiano. Oppure, Lincoln, il sedicesimo Presidente degli Stati Uniti d’America, il primo ad essere eletto fra le schiere del partito repubblicano. Veniva descritto come una persona semplice e modesta che soffriva di una forma latente di depressione. Era uno straordinario oratore dotato di un carisma magnetico e fu “un artista” della politica alla quale si dedicò con immensa passione.

Sono testimonianze di come solo i grandi geni sono capaci di innalzare la follia fino a congiungerla alla creatività. Il demone della follia sembra permettere all’anima di rivelarsi e in casi in cui c’è un’intelligenza superiore, la follia può condurre l’arte ad alti livelli. La creazione artistica si serve dei conflitti irrisolti dell’inconscio che restano proiettati nell’oggetto artistico. Dunque l’Opera contiene tutte le contraddizioni dell’essere, le stesse, possono appartenere al mondo intero; questa affermazione, sembra contenere la catarsi delle emozioni aristotelica, secondo il quale, l’opera teatrale, esercitava potere sullo spettatore perché scioglieva in quest’ultimo le tensioni accumulate nel quotidiano. Se ne deduce che l’arte può ricongiungerci con l’altra parte di noi e illuminare i lati bui della mente umana. Personalmente, dopo avere curiosato tra molte biografie ho trovato singolari ed affascinanti le storie di Roger Keith Barret, chitarrista, voce dei Pink Floyd e di Alda Merini, poetessa contemporanea.
 
“E’ molto gentile da parte tua pensare che io sia qui. E io ti faccio la cortesia di spiegarti che non sono qui. E mi chiedo chi stia scrivendo questa canzone”. (S.Barrett)
Syd Barrett, iniziò a perdere il contatto con la realtà a 21 anni. Il suo estro creativo fu spesso offuscato dall’uso di allucinogeni che misero a repentaglio le sue esibizioni live. Lavorare con lui, per la band, era diventato un problema, durante i concerti balbettava e cambiava ritmo all’improvviso.
 
Fu ricoverato in ospedale nel ’70 e una volta dimesso, continuò a vivere isolato nella sua casa di Cambridge in un mondo tutto suo. Il geniale Syd fu sorpreso lentamente dalla malattia. La sua indole, delicata per natura, divenne instabile. Gli acidi, uniti alla schizofrenia, amplificarono la malattia e delle sue esibizioni sul palco che ipnotizzavano il pubblico, dei suoi movimenti armonici trapassati da intense luci colorate, rimase solo un ricordo. (nonostante la sua fama continuò a tramandarsi per intere generazioni).
 
Nel ’75 il suo gruppo gli dedicò un omaggio commovente: “Shine On You Grazy Diamone” (Splendi, folle diamante). Il brano aveva attinenze con il titolo dell’intero album “Wish You Were Here” (Vorremmo che fossi qui). Tra un ricovero e l’altro, su Syd, calò il sipario. Nonostante questo, Barret, fu l’anima dei Pink Floyd, il suo album di esordio resta tra i capisaldi della psichedelica ed ha esercitato un grande influenza sui musicisti di tutto il mondo. Le composizioni infantili di Syd, avevano tratti peculiari, indimenticabile il suo originale uso del feedback, dello slide e dell’eco che hanno caratterizzato il sound live dei Pink Floyd.
“Il convento della vita l’ho poi trovato nel manicomio. Lì ho sofferto mentre tutti tacevano, perché a tutti era vietato pensare.”
Versi duri, impressi in una biografia di una delle maggiori poetesse italiane contemporanee, Alda Merini.
La sua intensa storia di vita, trapassa l’anima, in alcuni punti delle sue biografie la malattia indossa le vesti di un’ombra grigia che sporca l’azzurro del suo cielo.
Le sofferenze psichiche e i primi segni della malattia affliggeranno l’intera vita della famosa poetessa mentre il manicomio ha reso intensi i contenuti dei suoi versi. Tra un ricovero e l’altro, la Merini, si ritrovò per lunghi mesi tra uno stato di totale incoscienza che sostituì la realtà della mente.
 
Evito di proposito di riportare il dettaglio dei ricoveri e degli anni in cui avvennero per non evidenziare l’aspetto del male che toglie ogni dignità e per sottolineare l’unico aspetto che la malattia non è riuscita a sopraffare; l’immenso amore per la vita che la Merini ancora oggi dimostra raccontando i tormenti provati. In questo caso, sembra evidente il ruolo salvifico della poesia; ha messo in moto le corde dell’anima e l’ha spinta verso l’espressione artistica. In chiave metaforica Alda Merini ha dato voce alle sue esperienze interiori rappresentando gli abissi del manicomio e della malattia mentale: “Le mie impronte/ prese in manicomio/ hanno perseguitato le mie mani/come un rantolo che salisse la vena della vita,/quelle impronte digitali dannate/
sono state registrate nel cielo/ e vibrano insieme/ ahimé/ alle stelle dell’Orsa maggiore.”


E tra “Genio e Follia” alcune domande al Dott. Gianferruccio Canfora, Direttore del Centro di Igiene Mentale di Teramo.
 
In “De Tranquillitate Animi” Seneca afferma che nessun grande ingegno fu mai senza una mistura di follia.

Il discorso va definito. Se ci riferiamo alla “follia” in quanto “malattia” il discorso cambia perché nella malattia il pensiero non è logico ma alterato. Se invece la “follia” è intesa come pensiero diverso e contingente dal razionale e non ha alterazioni della forma del pensiero ci può ricondurre all’intelligenza creativa.

“Genio e follia” sembrerebbero proporzionali negli individui: chi ha più ragione potrebbe avere anche più follia? La domanda sembrerebbe giustificare la compresenza di genio e follia nelle biografie di molti artisti e scienziati.

Non c’è mai una sola forma di intelligenza ma tante. Di solito noi ci riferiamo all’intelligenza logico-razionale ma ce ne sono molte altre, ad esempio, quella analitica, legata alla capacità di scomporre e di esaminare, quella pratica, che si riscontra nell’organizzazione e quella creativa; la capacità di intuizione, immaginazione e di produrre novità. Quella che noi chiamiamo follia non è altro che l’intelligenza artistica, una forma di pensiero analogico che non è malattia intesa come disgregazione delle funzioni sia logico- matematiche che creative.

Per quanto la riguarda; addentrarsi nei meandri della psiche umana la ritiene una fortuna?

La considero una fortuna. Sono legato alla mia professione che ho scelto e che sicuramente può essere pesante solo relativamente alla routine.

La nostra epoca è narcisista, individualista, paranoica. Siamo tutti invitati a godere degli stessi oggetti, ci isoliamo, ci rifugiamo nei riti del nostro malessere. L’inadeguatezza alle condizioni standardizzate può corrispondere ad un disagio?

No. Non ritengo sia l’inizio di un disagio, anzi, la ribellione rispetto alla standardizzazione delle proposte comunicative del mondo moderno è in realtà l’espressione di una sanità, è la ricerca di un qualcosa in più rispetto a ciò che la consuetudine ci propone.

Se l’uomo si appiattisce entra in un mondo di asfissia e una persona sana sente il disagio e va alla ricerca di qualcos’altro. La ricerca di altro è la ricerca normale e umana della conoscenza.

Ritualità e consuetudine sono forme di controllo, ci si adegua per paura o per eliminare l’angoscia ma dopo, manca sempre qualcosa.

a cura di Carina Spurio

Incontro con Stefano Simone, regista underground


Pubblico per il portale GHoST un'intervista rilasciata dal regista pugliese Stefano Simone, del quale su queste pagine un collega ha postato la recensione del corto Kenneth uno dei tanti lavori del giovane autore.
 
Stefano, ti avranno già fatto innumerevoli volte questa domanda ma come capirai un’intervista non può che partire da qui. Come nasce la tua passione per il cinema e, in particolare, per la regia?
Intanto un saluto a tutti coloro che stanno leggendo quest’intervista. Allora, i film che mi hanno fatto amare il cinema sono Indiana Jones e il tempio maledetto e Lo squalo, entrambi del regista che io personalmente reputo il migliore di tutti i tempi, Steven Spielberg.
Ovviamente è stato anche il primo autore che ho conosciuto: in pratica, guardando i suoi film, è nata in me una passione SMISURATA per la regia e, di conseguenza, per il cinema... 
 
Hai dei registi da cui cerchi di ispirarti?
Come appena detto, Spielberg è il regista che mi ha fatto amare il cinema; di conseguenza, non può non avere almeno una minima influenza su di me. Minima perché, come si può immaginare facilmente, realizzo film che non hanno niente in comune con quelli di Spielberg; perciò questo cineasta merita un discorso completamente a parte...
Per quanto riguarda il mio genere... mah, in particolare non mi ispiro a nessun regista, cerco di seguire una strada personale. Inoltre sono molti gli autori che mi piacciono. Diciamo che tra tutti forse Carpenter, Romero, Friedkin e Cronenberg sono quelli che prediligo. Ma come posso non citare Hitchcock, Siegel, Peckinpah, Leone, Lenzi, Di Leo, Soavi, Dario Argento e tanti altri?!
 
Come lavori sul set? Il tuo motto è "la prima buona" oppure ripeti meticolosamente le scene, e pretendi dagli attori particolari portamenti ed espressioni predeterminate in fase di sceneggiatura?  
Se la prima scena la trovo già buona non sto di certo a perdere tempo per farne altre; anzi, in genere sono sempre le prime le migliori, soprattutto perché gli attori sono più freschi (e, credetemi, in queste produzioni la freschezza dell’attore – specie se alle prime armi - conta molto!). Per quanto riguarda la seconda domanda... eh! Come già accennato in un’altra intervista rilasciata su Manfredonia.net, sono un regista che non tende a valorizzare (non a "dirigere", attenzione!) gli attori, perché chiedo all’interprete in questione sempre "sguardi neutri". Insomma, sono un sostenitore dell’"esperimento Kulesov": un attore guarda qualcosa; l’inquadratura seguente ci mostra questo qualcosa (quindi è una "soggettiva"); stacco e ritorno sul volto dell’attore con conseguente interpretazione da parte dello spettatore dello stato d’animo del protagonista e del contesto in generale.
 
La tua carriera da videomaker ha inizio con dei thrilling dalle contaminazioni horror, penso a "Istinto Omicida" (riferimenti alla metempsicosi) e a "L’uomo vestito di nero". Poi ti sei buttato sui noir con forti connotazioni drammatiche. Bene, hai deciso di cambiare genere o ritornerai ad atmosfere più fantastiche nei tuoi prossimi lavori?  
Il prossimo sarà sicuramente un horror a tutti gli effetti. In ogni modo, faccio film che in quel momento sento di girare. Dopo L’uomo vestito di nero che, come hai detto giustamente è una pellicola più "fantastica" che orrorifica, avevo voglia di fare film più realistici, anche perchè cominciavo ad appassionarmi al genere "poliziesco-noir". Così ho fatto Lo storpio, Contratto per vendetta e Kenneth. Ora invece voglio riportare in vita Zio Tibia! Ah ah ah ah!!!!
 
Vedendo i tuoi corti, notiamo che non ricorri all’effetto truculento, ma prediligi un taglio più soft. È solo un problema di budget o dipende dai soggetti che hai affrontato sino a ora?  
Dipende solo ed esclusivamente dai soggetti. Basta dire che in altri film, specie negli ultimi tre, ho mostrato e non poco! E da alcuni spettatori sono stato anche criticato!
 
Il budget è spesso un grosso problema per i prodotti amatoriali. Per ora, penso di poter dire, hai sempre girato a zero budget; credi nel tuo prossimo futuro di poter ottenere dei fondi per tentare di mettere in scena una sceneggiatura più pretenziosa?  
Pensi benissimo! Ho sempre girato a budget ultra-zero! Sicuramente se riuscirò ad ottenere dei fondi tanto di guadagnato; ma, come ho sempre detto, la limitatezza del budget non la considero un problema (mi riferisco anche a registi di fama internazionale), semplicemente perché mi stimola ad essere sempre più creativo e a ricavare il massimo con niente! Inoltre, considera che sono un sostenitore del cinema indipendente, dei b-movie e dell’exploitation…
 
Oltre che regista, Stefano Simone è anche sceneggiatore di tutti i suoi corti, tranne l’ultimo. Continuerai su questa strada oppure, vista la recente collaborazione con Emanuele Mattana, hai deciso di affidare la scrittura dei tuoi prossimi lavori a dei collaboratori?  
Trovare un ottimo sceneggiatore era il mio sogno! Ora che ci son riuscito, non ho motivo di continuare a scrivermi da solo i film...
 
Quasi tutti i tuoi film sono tratti da opere narrative. Come mai questa scelta, nutri un po’ di sfiducia per i soggetti originali?  
Assolutamente no. Un soggetto originale può essere geniale o scarso, così come un racconto. Forse, lavorando su soggetti altrui, ho una sensibilità maggiore e riesco a individuare meglio i difetti e i pregi della storia, in modo tale da apportare le necessarie modifiche.
 
Visto che dimostri un certo interesse per la narrativa, puoi dirci quali sono i tuoi scrittori preferiti.  
Stephen King e Edgar Allan Poe. Li trovo geniali! Anche se sono autori completamente diversi.
 
Parlaci di "Istinto Omicida" e di "L’uomo vestito di nero". Quali sono le tue impressioni? 
Istinto omicida è un prodotto quasi amatoriale, perché l’ho realizzato con una telecamerina da 1 ccd quando avevo 20 anni e non conoscevo ancora bene tutte le tecniche registiche-narrative: in questo film do poco spazio alle immagini, favorendo troppi dialoghi lunghi e… a tratti anche pesanti. In ogni modo, preso per quel che è (particolare non da poco), lo considero un discreto prodotto. L’uomo vestito di nero è il primo passo verso la professionalità: realizzato con gli stessi mezzi del precedente, si nota immediatamente il miglioramento sia tecnico che narrativo. Inoltre è anche molto sperimentale: ho usato le dissolvenze incrociate e i leitmotiv sonori (i trucchi più vecchi e artigianali del cinema!) per rendere credibile l’apparizione-sparizione del diavolo.
 
Concludiamo l’intervista parlando del futuro. Che progetti hai in cantiere?
Attualmente sono alle prese con il progetto Cappuccetto Rosso tratto da un racconto di Gordiano Lupi. Ho poi in cantiere un lungometraggio a carattere religioso, ma non è da escludere che nel frattempo giri anche qualche altro corto. E poi ho una miriade di soggetti che, a poco a poco, metterò su "celluloide" (lo so che siamo nell’era digitale, ma per me il cinema resterà sempre celluloide! Sigh sigh).
 
Un’ultima domanda, pratica e utile per i nostri lettori. Un appassionato di cortometraggi underground dove o come può recuperare i tuoi lavori?  
Può contattarmi tranquillamente al mio indirizzo e-mail: matisse_05@libero.it. Sarò ben lieto di spedire i miei lavori.
 
 
Un ringraziamento a Stefano Simone, per la sua cortesia e la disponibilità prestata nel rilasciare questa intervista, con un caloroso augurio per il prosieguo della sua attività di regista. 

a cura di Matteo Mancini