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Sulla breccia di Caterina Falconi

Silvia e Cinzia abitavano nello stesso vicolo ed erano cresciute assieme. Silvia aveva diciannove anni e Cinzia ventidue.
Cinzia aveva i capelli rossi e gli occhi verdi. Viveva il presente senza tante complicazioni…
    
“Un’ora dopo passeggiavano per i viali deserti della villa comunale. Cinzia e Angelo davanti. Marco e Silvia dietro. Angelo avrebbe preferito la brunetta, con quell’aria dolce e intelligente, ma la strafiga gli aveva lasciato intendere di essere disponibile…” “Più facile lasciarsi andare al bacio di Cinzia, che gli riempì la bocca di un liquido sapore di chewing gum. Facile lasciarsi sbottonare i jeans addossato a un pino bitorzoluto. Cinzia infilò la punte delle dita nei suoi slip. Sfiorò la sua erezione. Silvia si voltò, li vide, e provò una tale rabbia, un gelosia così intensa da fare la prima di una lunga serie di stronzate che le avrebbero rovinato la vita: baciare Marco.”
Due anni dopo Silvia e Marco si erano sposati. Nell’avvilente routine quotidiana Silvia sperava nell’arrivo di qualcuno che la portasse via, qualcuno che somigliasse ad Angelo. Silvia e Angelo si erano ritrovati avvinghiati nel buio totale…


Sulla breccia sogni e speranze, fatalità ed errori.
Dentro la storia, Silvia e il suo segreto.
Dentro un segreto lo smarrimento e la consapevolezza di amare Angelo. Nell’imprevedibile finale, il senso di un’identità perduta riaffiora nella perdita e negli intrecci del destino che sembrano prendersi gioco degli esseri umani e dei loro sentimenti.
Caterina, Sulla breccia atterri o decolli?
Né l’uno nè l’altro. Sulla breccia è una nicchia, c’è dentro uno dei mondi che ho inventato. Posso entrarci e uscire quando voglio, riposarci. Vorrei fabbricarne altre di anse così... dici che mi sto alienando?
    
Caterina Falconi è nata ad Atri (Te) nel 1963. Laureata in filosofia, ha lavorato due anni nel reparto pediatrico di un ospedale africano come volontaria. Attualmente è educatrice in un istituto di riabilitazione di Giulianova, dove vive con le due figlie. Ha vinto il premio Teramo nel 1999. Sulla breccia è il suo primo romanzo.
Per maggiori informazioni e acquisti, collegarsi al sito della casa editrice: www.fernandel.it
   
SCHEDA LIBRO
Titolo: Sulla breccia
Autrice: Caterina Falconi
Formato: 120 pagine in brossura
Anno di pubblicazione: marzo 2009
Editore: Fernandel Edizioni
Codice ISBN: 9788895865065
Prezzo di copertina: 12,00 Euro

a cura di Carina Spurio
   

La torre nera di Stephen King


Se nel corso degli anni “Il signore degli anelli” di J. R. R. Tolkien ha riscosso un enorme successo tanto da diventare un colossal cinematografico in tre episodi osannato dalla critica e dagli appassionati di tutto il mondo, allora cosa ci si deve aspettare dalla saga nata dalla penna di Stephen King?

“La Torre Nera” è un opera monumentale che si suddivide in sette libri (L’ultimo cavaliere, La chiamata dei tre, Terre desolate, La sfera del buio, I lupi del Calla, La canzone di Susannah, La Torre Nera) per un totale di quattromila e più pagine, quattromila pagine che, una volta superato l’iniziale timore provocato da una simile “montagna di carta”, scorrono via senza annoiare il lettore.
La base della storia è semplice, uno di quei temi cari a molti romanzieri e poeti del periodo romantico e non solo: il viaggio. In questo caso si tratta di un viaggio volto al raggiungimento dell’obbiettivo di una vita, la Torre Nera appunto.
Il protagonista è Roland Deschain di Gilead, la vicenda si svolge quasi per intero in un mondo che ha molte affinità con il nostro ma che, come viene ribadito in più occasioni, “è andato avanti”, tanto da essere sul punto di sgretolarsi e scomparire per sempre. Un mondo dopo una sanguinosa guerra civile svoltasi secoli prima del quando in cui è ambientata l’epopea di Roland, ultimo di una stirpe di pistoleri al servizio del bene e  della luce. Il mondo come lo ha conosciuto da bambino è finito, i suoi amici sono scomparsi e a Roland resta soltanto la sua ricerca.
Resta solo la sua mania, resta solamente la Torre.
Una ricerca estenuante che si snoda tra paesaggi da incubo, lungo laspiaggia del Mare Occidentale che di notte si popola di orribilicreature marine, in città in rovina abitate da fazioni mutanti in lottatra loro. A bordo di un treno impazzito che vuole terminare la suacorsa schiantandosi contro il capolinea. Ciò che rende avvincente lastoria è il fatto che alcuni dei momenti cruciali per il destino nonsolo di Roland, ma dell’universo intero, si svolgono nel nostro mondo,grazie a porte o a grotte parlanti che si aprono nella nostradimensione e permettono al Pistolero di saltare da una realtàall’altra. Di chiamare altri “cavalieri”, di entrare in contatto con lostesso King, colui che ha il compito di narrare di Roland e dei suoicompagni affinché sia impedito il crollo della Torre e il  trionfo delRosso.
I dettagli sono infiniti e non possono essere trattati in manierasistematica, richiederebbero tempo e pagine su pagine, ma ciò che piùcolpisce è la limpidezza narrativa, un semplicità che rende scorrevoleuna storia che a prima vista potrebbe apparire opprimente e impossibileda portare a termine. I colpi di scena sono innumerevoli e sisusseguono a ritmo serrato tanto da rendere imprevedibile l’evolversidel racconto. Tanto da rendere ossessiva, almeno per gli appassionatidelle storie del Re, la lettura. Il desiderio di sapere cosa accadrànella pagina successiva è impossibile da tenere a freno e testimonia lagrandezza dell’opera.
King ha dato il meglio delle sue capacità, riuscendo a far vederenitidamente al lettore il mondo che descrive, le gesta di Roland e delsuo “ka-tet”.
Taluni giudicano King come un autore prettamente commerciale, che nonentrerà mai nell’Olimpo dei Grandi Narratori che hanno fatto la storiadella letteratura mondiale. Bè, La Torre Nera può riservare delle bellee soprattutto inaspettate sorprese. Da leggere.

a cura di Stefano
    

Blip & Blop

Blip & Blop è un gioco arcade iperviolento e geniale sul tipo di Gryzor e Metal Slug. Nel primo scenario incontrerete un povero Gargamella torturato ed ammazzato dai malefici puffi. Puffo Golosone vi lancierà torte di pufbacche, Puffetta baci assassini, puffo selvaggio vi sparerà dalle liane, e ci sarà anche una breve apparizione del malefico e infimo Grande Puffo. Tra gli altri personaggi che vedrete ci sono Gli Orsetti del Cuore, i Lemmings e tutto il mondo di Super Mario, compreso il simpaticissimo Joshi. Giocatori esperti giurano di non essere riusciti a finirlo.
Quindi se odiate Puffi, Snorkies, Dorkemons e affini avete trovato il gioco che fa per voi: sparerete e ne ucciderete a volontà. Anche multiplayer. Richiede le DirectX 7.0 o superiori.
Per assistenza dedicata (solo per soci sostenitori GHoST) o altre informazioni contattare la nostra redazione.
   
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Alla scoperta dei Rainska


Quando un genere musicale trova la giusta forma d’espressione e permette a chi lo ascolta di entrare nel suo ritmo vuol dire che l’obiettivo è stato raggiunto, senza doverlo più sognare. Il gruppo dei Rainska si è formato ufficialmente nel 2002 a Teramo. Tra rassegne musicali e feste di compleanno i componenti della band iniziano subito a comporre brani continuando a sperimentare nuovi suoni e ad esibirsi in numerosi concerti, per arrivare dopo alcuni demo, ad incidere il loro primo album registrato allo Skunk Studio di Marco Pallini sito a Bellante (Te) e mixato al Living Rhum Studio di Mantova. I Il loro primo album dal titolo “Lo Specchio delle Vanità”, distribuito da Amdromeda, giunge sul mercato nell’ottobre 2008, dopo innumerevoli cambi di rotta; dal 2002 al 2005, la formazione cambia tre batteristi, due bassisti e un chitarrista.
L’album ricorda le influenze provenienti dai Matrioska, Ska-p, Madness, Mad Caddiesè un lavoro molto interessante frutto della fusione delle influenzemusicali di ogni singolo componente della band (ska, punk rock, metal,progressive, jazz, funky, rocksteady) alla matrice ska-punk rock.Quello dei Rainska è un approccio con la musica non banale, non a caso,la scelta di armonizzare generi musicali in chiave ska-punk rockproduce un ritmo vitale ed energetico ed evita la ripetizione di unsound simile a se stesso. Il contratto con la prestigiosa agenzia dipromozione Alekemist Fanatix Europe conferma le loro qualità musicalianticipando un futuro in ascesa verso la scena alternativa del momentoe dei grandi network musicali.  Attualmente i Rainska hanno appena datoalle stampe il singolo “Le Notti” e progettano di girare un videoclipprofessionale da far trasmettere alle principali tv musicali.
 
 
I Rainska:
Lorenzo Reale: Voce; Pierpaolo Candeloro: Sax; Angelo Di Nicola: Chitarra; Lorenzo Mazzaufo: Batteria, percussioni; Daniele Giannattasio: Basso; Giovanni Candeloro: Tromba; Michele Ginestre: Trombone.
 
Per info e contatti: www.myspace.com/rainska
  
a cura di Carina Spurio

Ponyo sulla scogliera di Miyazaki Hayao


Sosuke è un bambino di cinque anni che vive con la madre in una casa in cima ad una scogliera, non lontano da un grazioso villaggio di mare. Un giorno trova per caso sul bagnasciuga una pesciolina con la testa dalle fattezze umane incastrata in un barattolo di vetro, scampato per miracolo alle reti dei pescatori. Sosuke, dopo averla liberata, le dà un nome, Ponyo, e la porta con sé dopo averla messa in un secchiello pieno d’acqua. Lo stregone marino Fujimoto però, il padre di Ponyo che una volta era umano, riporta la figlia con sé nella sua casa sott’acqua. Laggiù la piccola riesce a bere l’Acqua della Vita e tenta di fuggire dalla casa di suo padre con l’intento di ritrovare Sosuke in superficie. Ma, durante la fuga, Ponyo versa un po’ dell’Acqua della Vita in mare provocando così un violento tsunami fatto di onde gigantesche a forma di pesce, sulle quali la piccola corre spensierata, ma che devastano completamente il grazioso villaggio marino. Ponyo vuole a tutti i costi rimanere accanto a Sosuke, ma Fujimoto non sembra intenzionato a lasciare che sua figlia diventi un’umana a tutti gli effetti. Riuscirà a riportarla con sé in mare? E che ne sarà del villaggio, continuamente investito dalle onde gigantesche lanciate dallo stregone? 
   
Uscito in Italia per la Lucky Red il 20 marzo 2009 (quasi nove mesi dopo la prima giapponese) Ponyo sulla scogliera ha già incassato circa 237 mila euro in tutto il nostro paese (sesto posto tra i film più visti) ed è reduce dalla partecipazione alla 65esima  Mostra del cinema di Venezia.
Il 67enne Miyazaki torna alla regia di un lungometraggio animato a quattro anni di distanza dal suo ultimo lavoro, Il castello errante di Howl (Hauru no Ugoku Shiro, 2004) e due anni dopo l’uscita del primo film del figlio Goro, I racconti di Terramare (Gedo Senki, 2006), con lo Studio Ghibli sempre a sostegno delle straordinarie invenzioni e dell’immaginazione del maestro Miya-san.
 
A 67 anni Miyazaki Hayao ritorna con quello che forse sarà il suo ultimo film, dato che, come ha recentemente affermato «Ho raggiunto un’età in cui posso contare con le dita gli anni che mi rimangono da vivere… e quando sarò lassù sarò probabilmente riunito a mia madre: cosa potrò mai raccontarle?». Un ritorno, dunque, che però sembra portare con sé anche i pensieri e le riflessioni di un uomo arrivato al fatidico momento dei bilanci. Gli elementi autobiografici hanno sempre contraddistinto le opere del maestro, ma mai come in questo film si respira una nostalgia per l’infanzia così forte, espressa in maniera evidente dai continui richiami alla figura materna che Miyazaki perse troppo presto (Lisa,  Gran Mamare e la vecchia Yoshie sono tutti aspetti che descrivono sua madre: una donna forte, premurosa, ma che nella malattia divenne un po’ scorbutica a causa dell’immobilità forzata). Bambini e figure femminili come protagonisti: un film di Miyazaki a tutti gli effetti che, però, forse, per la prima volta, vuole essere dichiaratamente un prodotto per l’infanzia: a differenza delle protagoniste Mei e Satsuki de Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, 1988) che trovavano nello spirito della foresta Totoro un fedele compagno che potesse distrarle dal dolore causato dall’assenza della madre malata (ancora l’elemento autobiografico che ritorna); o a differenza di Kiki (Kiki’s Delivery Service – Majo no Takkyubin, 1989) che si ritrova da sola nella grande città, ma supportata dalla magia e dalla gente che l’accoglie calorosamente; a differenza di questi lavori, dicevo, Miyazaki mette in scena una vicenda in cui i bambini finalmente si trovano in una posizione tale da poter decidere delle proprie sorti autonomamente, divenendo così i principali fautori del proprio destino (una naturale evoluzione della figura di Chihiro de La città incanatataSen to Chihiro no Kamikakushi, 2001- la quale si trova nella condizione di dover sopravvivere nel gigantesco villaggio termale, con tutte le sue regole talvolta incomprensibili, ma con in mente sempre un obiettivo impostole, però, da qualcun altro).  
  
Un esplicito richiamo all’infanzia, una dichiarazione d’intenti che si intuisce anche dalle particolari decisioni prese per quanto riguarda la messa in scena: il sacrificio di qualche frame che rende l’animazione meno fluida rispetto agli ultimi lavori e che richiama lo stile tipico (anche per esigenze economiche) delle produzioni seriali del passato; la volontà di utilizzare sfondi acquerellati e molto meno particolareggiati (che ricordano molto da vicino le illustrazioni dei libri per l’infanzia), ma mai banali; la volontà ferma da parte di Miyazaki di non utilizzare la computer grafica (un altro espediente per non “raffreddare” l’animazione), ma di affidarsi totalmente alle capacità degli animatori guidati ogni giorno dal suo severissimo sguardo.
 
Un film gradevole, ben realizzato, in cui il mutamento sembra essere la chiave di lettura ottimale: Ponyo è una pesciolina che diventa un essere umano; Sosuke è un bambino che si comporta come un adulto; Fujimoto è un uomo che ha deciso di diventare un pesce; il mondo marino che ha deciso di fondersi con quello terrestre grazie alla volontà di una bambina, capace di correre sulle onde del mare in tempesta.
 
Miyazaki è tornato, ma forse solo per un saluto. Si respira la malinconia di chi si accinge a firmare l’ultimo lavoro. E proprio grazie alla sequenza mozzafiato di Ponyo che corre felice sullo tsunami inseguendo Sosuke nell’automobile guidata dalla spericolata Lisa, torniamo a sognare e a commuoverci, ripensando alla famosa corsa di Lupin nella sua 500 potenziata (Lupin III, Il castello di CagliostroRupan Sansei: Kariosutoro no Shiro, 1979) o alle incursioni della principessa Mononoke nei boschi medievali giapponesi (La principessa Mononoke - Mononoke Hime, 1997). Non me la sento di dire che altri film non verranno, perché, a mio parere, Miyazaki Hayao, nonostante i suoi quasi 70 anni, ha ancora molto da dire: il bambino che c’è in lui è ancora vivissimo.
 
Giudizio: molto buono.

a cura di Giorgio Mazzola
   

Neverball 1.5.1

Neverball è un puzzle game nel quale dovremo raccogliere monete per passare al livello successivo ma con un originale concetto di giocabilità: invece di guidare la pallina, infatti, dovremo muovere il piano sul quale si trova la sfera, inclinandolo a piacere! In questo modo potremo si muovere la pallina, ma la manovrabilità non sarà facile da mantenere... Divertimento assicurato.
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Stregoneria popolare e moderna

La Stregoneria evoca alla mente bagliori di fuochi, un calderone in cui bolle una brodaglia di rospi. E vecchie megere con il cappello a cono. Oppure ragazze seminude con i lunghi capelli neri e gli occhi che affascinano...
In Inghilterra la parola antica per Stregoneria è WICCA; una contrazione di Wise = saggezza e Craft = arte; cioè Arte della Saggezza.
La Stregoneria è stata erroneamente confusa con il satanismo. Il satanismo nato nel 1800 è un anticristianesimo praticato da depravati e spretati.
La Stregoneria è molto più antica ed è figlia del Paganesimo. Il Paganesimo è la religione naturale di tutti i popoli primitivi e consiste nella adorazione di Dei che sono la personificazione di forze della Natura, di energie, emozioni.
La Stregoneria è affine alla Magia, tanto da essere chiamata anche Bassa Magia. La Magia persegue fini elevati quali: l’autorealizzazione, l’ascesa sulla scala dell’evoluzione, l’evocazione di spiriti superiori. La Stregoneria ha scopi pratici e utili: prevedere il futuro, guarire un amico, ostacolare un nemico, aumentare i raccolti, trovare il benessere, l’amore, controllare i fenomeni  atmosferici.
La Stregoneria veniva praticata solo da medium, sensitivi, veggenti cioè da persone dotate per nascita e che tentavano di sviluppare ulteriormente la seconda vista. I sistemi impiegati sono gli stessi dell’Occultismo. L’operatore interpreta i sogni, gli auspici naturali che avvengono in situazioni drammatiche. Interpreta le macchie di inchiostro, le forme che assume la cera fusa lasciata cadere nell’acqua, le visioni nel cristallo. In quest’ultimo caso l’operatore guarda dentro una sfera di cristallo. Guarda in maniera assorta come se volesse perdersi dentro al cristallo. Dopo un po’ incomincia a vedere una nebbia grigia e poi delle immagini ai lati degli occhi.
La Stregoneria pratica la psicocinesi cioè il dominio della mente sulla materia. Per ottenere questo si serve di formule e riti,  oltre che di doti naturali. La formula è un insieme di parole sullo scopo da ottenere. Assomiglia a una filastrocca per bambini, molto semplice, essenziale e in rima. Viene ripetuta molte volte, cantilenata con una leggera intonazione. La formula serve per fissare il pensiero sullo scopo voluto. E il pensiero è energia.
Il rito è un insieme di gesti che mimano lo scopo da ottenere. Il rito serve anch’esso per fissare il pensiero sullo scopo e mettere l’operatore nel giusto stato di coscienza. Nel rito si adoperano oggetti comuni: corde con nodi per annodare, cioè impedire qualcosa; esempio una malattia, un nemico, un parassita in agricoltura. Pentolini d’acqua da bollire: il pentolino rappresenta l’utero, il grembo dove si sviluppa un progetto. Pupazzi di stoffa o fotografie sulle quali l’operatore agisce per trasferimento come sulla persona voluta; esempio: per guarire, ostacolare, far innamorare. Spirali, cerchi concentrici, ellissi.  La spirale simboleggia l’evoluzione, la crescita, lo sviluppo di qualcosa. I cerchi concentrici sono la forma grafica della ripetizione di una formula e di un rito per ottenere uno scopo. L’ellisse concentrica rappresenta la vagina, l’uovo, la nascita di qualcosa e i molti strati ne sono la ripetizione.
Le crocette: molte croci di S. Andrea sovrapposte significano fine di qualcosa; ad esempio di una malattia.
Formule e riti, servono per mettere l’operatore nell’appropriato stato di coscienza dove la sua mente crea ed emette energia. Per rinforzare le formule e i riti spesso si fa ricorso a Dei, antenati, spiriti guida.
Quando la forza individuale non basta, streghe e stregoni si radunano per praticare il Sabba. Qui streghe e stregoni uniscono le forze mentali per ottenere uno scopo voluto da tutti i partecipanti. Il Sabba è un raduno in un tempio naturale: in mezzo alla campagna, in cima a una collina, là dove c’è una sorgente, un monolito (simbolo di stabilità e durata) un vecchio albero che ispira venerazione. Oppure un fuoco che simboleggia la luce.
I partecipanti danzano tenendosi per mano. Danzano nudi, perchè il corpo nudo emette maggior energia; maschi e femmine alternati (per la polarità) e cantilenano in coro la formula. La danza diviene sempre più frenetica e così si crea il cono di energia vitale. Poi  la danza bruscamente finisce e l’energia si libera verso lo scopo voluto.
I Sabba erano praticati negli equinozi, solistizi, a metà delle stagioni e nei pleniluni. Non si commettevano crimini nè si cuocevano i bambini. Queste sciocchezze le scrivevano gli incompetenti o i detrattori della Stregoneria. Spesso i Sabba erano feste per ottenere la fecondità, i buoni raccolti, oppure occasioni per danzare e divertirsi.
In un Sabba famoso del 1500 le streghe impedirono alla Grande Armada spagnola di invadere la Gran Bretagna. In un altro Sabba del 1943 le streghe impedirono che Hitler invadesse la Gran Bretagna. In quell’occasione le streghe suscitarono una brutta tempesta sulla Manica; le navi tedesche dovettero rimandare l’attacco e in seguito la Germania non era più in grado di attaccare.
A Castletown nell’isola di Man in Inghilterra c’è un monumento. Esso è dedicato a  9 milioni di vittime bruciate sul rogo per eresia e stregoneria. Teniamo presente che nel medioevo fare un decotto di erbe contro la tosse era considerato stregoneria.
Oggi la Stregoneria è maggiormente diffusa nel Nord Europa, in Inghilterra e in USA dove i suoi adepti si riuniscono in congreghe. Il teorico della Stregoneria moderna è il dottor Gerald B. Gardner 1884/1964. Egli ha studiato la Stregoneria per tutta la vita, ha tenuto conferenze, ha scritto libri e fondato un Museo. Ha contribuito ad abbattere false credenze e superstizioni, e ha posto le basi per una Stregoneria scientifica.
 
a cura di Sergio Bissoli

28 settimane dopo di Juan Carlos Fresnadillo


Lo splendore sinistro della metropoli.

Questo film non appartiene fortunatamente alla “moda” del sequel, ovvero non nasce dal bisogno incontenibile di esplicitare, mostrare e sfruttare quanto nel primo film veniva solo evocato (per precise ragioni il più delle volte). In effetti si potrebbero distinguere due tipi di sequel: il primo tipo è quello appena menzionato, che non capisce o poco gli importa di capire che molto spesso l’inespresso di un film deve restare tale (penso al seguito di opere come The Ring o di Blair witch project). Questo tipo sfrutta i pruriti degli spettatori più morbosetti, quelli per intenderci che vogliono “vedere” il più possibile, quelli che proprio per questo hanno detestato Blair witch, che a loro dire troppo lasciava intendere e troppo poco vedere. Il secondo tipo è quello più fertile e più interessante, perché più umilmente continua a raccontare, non disturbando il primo film, i cui misteri resteranno tali. Ci possono essere ovviamente incroci interessanti, anzi formidabili, tra i due tipi - gli alieni di Cameron per esempio - ma credo che la distinzione possa essere mantenuta.
Veniamo al nostro. L’opera di Boyle è un piccolo capolavoro della fantascienza cinematografica contemporanea, uno dei film più suggestivi degli ultimi anni. Il merito di Fresnadillo risiede nel sapiente equilibrio che riesce a creare tra continuità e discontinuità rispetto al primo film.
  
Vedendolo riconosci e non riconosci, ritrovi e non ritrovi il tratto di Boyle, che in effetti c’è e non c’è. Mi sentirei quasi di dire che Boyle prima e Fresnadillo poi hanno creato una sorta di poetica della desolazione urbana. Mai vista una città inquietante come la Londra del lungometraggio di Fresnadillo, una città familiare ed al tempo stesso assolutamente irriconoscibile. Per non parlare di altre perle visive, che non voglio anticipare. Una città, quella deserta, tutta per te, ma insostenibile nella sua vastità priva di vita.
  
Una città che sembra ormai incapace di ospitare di nuovo la civiltà, malgrado il tentativo di ripopolazione, di cui il film è la cronaca e il racconto. Vorrei dire il meno possibile su questo film, che non presenta novità di rilievo sul piano del motore narrativo (il virus della rabbia che trasforma gli esseri umani in bestie feroci). La sua bellezza risiede nell’affresco di Londra, inospitale e al tempo stesso abitabile come mai lo è stata, vuota e al tempo stesso minacciosa, orribile e al tempo stesso affascinante. Il film di Fresnadillo merita di essere annoverato tra i lavori che hanno cantato lo splendore sinistro della megalopoli contemporanea.

a cura di Michele Alessandrelli
Fonte: Offscreen
     

Cappuccetto Rosso di Stefano Simone


Pietro, un giovane studente molto tranquillo è diligente, sta attraversando un periodo un po’ particolare: i suoi voti non sono più brillanti e ha problemi di disciplina. Nel frattempo un suo compagno di scuola scompare nel bosco dove si dice abiti Cappuccetto Rosso (alias “Dianne”) una ragazza psicopatica che ama torturare e uccidere i lupi e le persone che incontra sul suo cammino. Tutti pensano ovviamente che il ragazzo sia l’ennesima vittima della serial killer, ma Pietro sembra scettico a riguardo. La madre di quest’ultimo, intanto, chiede al giovane di portare il pranzo alla nonna malata che abita in una casetta proprio in mezzo al bosco. Sarà meglio che segua il sentiero se non vuole incontrare brutte sorprese...
 
Stefano Simone, già regista del più che apprezzabile Kenneth, torna con un corto che stavolta sembra prendere molto più decisamente una direzione horror, abbandonando per un momento le ambientazioni realistiche del film ambientato a Manfredonia. Simone dimostra ancora una volta di saper dosare con cura i ritmi narrativi attraverso un montaggio equilibrato e mai discontinuo. Certo però, rispetto a Kenneth, sembra che sia stato fatto qualche passo indietro: riproporre una fotografia rossastra come quella del film precedente non mi è sembrata la scelta giusta (forse si voleva continuamente far riferimento al sangue e al rosso del cappuccio): colori così caldi rischiano di compromettere la tipica sensazione di freddezza chirurgica che i film come questo solitamente utilizzano per far nascere il senso di inquietudine in chi guarda; e poi certe sequenze inspiegabilmente lunghe, dedicate ad azioni che non hanno motivo di essere analizzate così a fondo, come la descrizione della passeggiata di Pietro che si reca dalla nonna, con varie tappe ad annusare i fiori e a bere dal ruscello chinato a quattro zampe (forse un’anticipazione subliminale di quello che si scoprirà nel gran finale): pause lunghissime che rischiano di spazientire e soprattutto di far calare inesorabilmente la tensione nello spettatore.

La recitazione è scadente. La dizione degli attori ancora peggio. Stefano Simone è un regista interessante, con buone idee e sarei curioso di vederlo lavorare con attori che sappiano il fatto loro: sarebbe un vero e proprio salto di qualità.

Le musiche di Luca Auriemma sono puntuali e compiono un ottimo lavoro, specialmente nei momenti di passaggio tra calma è tensione.

Voto: quasi discreto.
 
 
CAPPUCCETTO ROSSO
Regia: Stefano Simone. Sceneggiatura: Emanuele Mattana, dal racconto di Gordiano Lupi. Musiche: Luca Auriemma. Fotografia e montaggio: Stefano Simone. – Interpreti: Luca Peracino, Soraia Di Fazio, Sara Ronco, Andrea Zamburlin, Giovanni Pipia.- Audio: Stereo PCM. Produzione: Foglio Cinema.- Italia, 2009, Dur: 31′ 

a cura di Giorgio Mazzola

Archivio GHoST (videogame) - Blip & Blop

Blip & Blop (videogioco arcade) 
  • Licenza: Freeware
  • Sistema operativo: Windows 98/Me/2000/XP/Vista/7
  • Requisiti minimi: Pentium - 128 MB di Ram
  • Dimensione file: 43,4 MB
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Codice: G00001
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