>>> COMUNICAZIONE DI SERVIZIO

Il blog sospende gli aggiornamenti. Per tutte le novità e

ulteriori aggiornamenti visitare il nuovo sito ClubGHoST.it

Collegati al nuovo portale ClubGHoST.it

Pensiero del giorno - Donald Pleasence 31/10/2015

L'ho incontrato quindici anni fa era... come svuotato. Non capiva, non aveva coscienza non sentiva anche nel senso più rudimentale né gioia né dolore, né male né bene, né caldo né freddo... spaventoso. Un ragazzo di sei anni con una faccia atona, bianca, completamente spenta e gli occhi neri... gli occhi del diavolo. (Donald Pleasence in Halloween - La notte delle streghe)
 
   

Macabro, I mostri non muoiono - Edizioni Kimerik

La redazione GHoST segnala Macabro - I mostri non muoiono, opera horror di Fabrizio Maceroni, un libro con un percorso che vuole introdurci nella quintessenza del sentimento del macabro. Il lettore è condotto fin dalle prime righe in un’atmosfera di mistero e di rivelazione che fa di queste pagine un racconto iniziatico in prima persona attraverso le parole e le esperienze del protagonista. Non si lasci intimorire il lettore dal sapore criptico e oscuro della prosa dell’autore, prosa che si alterna tra periodi difficili ad altri di gradevolissima e scorrevole lettura; non si lasci sconcertare dalla bassezza efferata di certe scene, che servono semmai ancor di più a marcare l’elemento del macabro nella narrazione, a indagare il lato corrotto dell’animo umano, perché fra queste pagine si aprono, a volte inaspettate, immagini vivissime che catturano l’immaginazione di chi vi si imbatte per una prima lettura, storie di così forte inventiva da lasciare turbata la mente del lettore, e se il turbamento è il sentimento che l’autore vuol suscitare nella narrazione di questo particolarissimo racconto nero, c’è da dire che ci è riuscito senz’altro. Macabro è la storia della curiosità e dell’impertinenza di alcuni ragazzi della provincia toscana che sfidano i limiti imposti dalle circostanze e dalla consuetudine.
Il libro edito da Kimerik Edizioni, disponibile anche in versione ebook, sarà presentato dall'autore il 13 novembre alle ore 18:00 presso la libreria "Nuova libreria di Bernardini e Bersotti snc" a Grosseto in via dei mille 6/A.
Macabro, I mostri non muoiono, Anno: 2015, pagine: 176
Codice ISBN: 978-88-68845-59-9, Editore: Kimerik Edizioni
   
      
L'AUTORE
Fabrizio Maceroni nasce a Pisa il 22 febbraio del 1983. Fin da giovanissimo dimostra un notevole interesse per la scrittura e la lettura. Apolitico, cristiano, dalla personalità introversa, crede nel potere della parola e della filosofia; attivo in ambito sociale, frequenta diverse associazioni. Ha già pubblicato con una piccola casa editrice, la Aletti Editore, la sua prima opera, dal titolo Adventus, in cui parla e affronta le problematiche della dipendenza e altre questioni sociali.
    

Anche il fuoco ha paura di me - Edizioni Fernandel

La redazione GHoST segnala l'uscita dal 5 novembre in tutte le librerie di Anche il fuoco ha paura di me, il nuovo romanzo di Gianluca Morozzi. dove si narra di un uomo di cui conosciamo solo il nome, Theo, è legato a una sedia. Di fronte a lui, con una pistola in mano, Metello gli spiega perché sta per ucciderlo. E gli racconta la sua storia.
Metello è nato e cresciuto a Lemuria, un singolare paese della Bassa emiliana reso celebre da un famosissimo poeta e da un cantante rock di successo. Metello è cresciuto deciso a diventare famoso a sua volta, per arricchirsi e conquistare Alice, fidanzata con Ulisse fin dal primo giorno delle elementari. C’è solo un problema: non ha nessun talento artistico. Ma la fortuna gli sorride quando scopre di essere il sosia di un attore hollywoodiano emergente, il volto nuovo del cinema mondiale, il grande Lando Krol.
Metello inizia così una carriera come sosia di Lando Krol: ospitate televisive, una parte in una fiction, incontri con le sosia ufficiali di Rihanna ed Emma Stone. Fino a un’imprevista svolta del destino...
Un'opera coinvolgente dove la mano felice dello scrittore bolognese Morozzi reinventa miti e archetipi della narrativa padana in un romanzo che ha la struttura di un thriller
Il romanzo edito da Fernandel Edizioni è disponibile anche in versione ebook.
Anche il fuoco ha paura di me, Anno: 2015, pagine: 144, Collana: Fernandel
Codice ISBN: 978-88-98605-26-2, Editore: Fernandel Edizioni
 
Un assaggio del libro
....No, Theo, mi dispiace. Non ti allenterò il bavaglio.
Le domande che vuoi farmi te le leggo negli occhi. E a quelle domande, stai tranquillo, risponderò.
Le risposte sono queste.
No.
Sì.
No.
Sì.
Nell’ordine.
No: ahimè, la pistola non è finta.
Sì: la userò per ucciderti. Mi dispiace anche per questo. Sono sincero: mi dispiace.
No: non sono pazzo. Non sono un malato di mente, un maniaco, e non cerco vendetta per le azioni di cui ti hanno accusato. Tra poco capirai.
Sì: prima di spararti, ti racconterò la mia storia. Voglio che tu capisca perché mi trovo qui, davanti a te, con un’arma tra le mani. Perché ti ho legato a una sedia, perché ti ho imbavagliato, e perché questa follia non poteva finire che così.
Non ti ammazzerò finché non ti avrò spiegato ogni cosa fino in fondo, Theo, stai tranquillo. Con tutti i dettagli. Come è giusto.
Nessuno verrà a disturbarci fino a domattina. Ho tutta la notte per parlare, dunque.
Le corde sono troppo strette?
No?
Allora mettiti comodo...
 
     
L'AUTORE
Gianluca Morozzi è nato nel 1971 a Bologna, dove vive. Per Fernandel ha pubblicato il romanzo d’esordio Despero (2001), le raccolte Luglio, agosto, settembre nero (2002), Dieci cose che ho fatto ma che non posso credere di aver fatto, però le ho fatte (2003), il libro springsteeniano Accecati dalla luce (2004) e, in collaborazione con il disegnatore Squaz, il suo primo fumetto, Pandemonio (2006). Nello stesso anno insieme a Paolo Alberti ha scritto il libro calcistico Le avventure di zio Savoldi, a cui sono seguiti il romanzo L’abisso (2007), la serie a fumetti FactorY (2008-2010, in collaborazione con Michele Petrucci) e le raccolte Spargere il sale (2011), Niente fiori per gli scrittori (2013), L’amore ai tempi del telefono fisso (2015).
   

The Martian di Ridley Scott

Un astronauta, impegnato in una missione su Marte, dopo una forte tempesta viene creduto morto e abbandonato. Ma l'uomo è ancora vivo e deve ingegnarsi per riuscire a sopravvivere.
Non è una novita che i film di Ridley Scott vengano accolti con eccessivo entusiasmo e ritenuti dei capolavori, andando ben oltre i loro meriti effettivi. Basta pensare a due tra i film più sopravvalutati degli ultimi trent'anni, Thelma & Louise e Il gladiatore. Accade anche con Sopravvissuto - The Martian. In questo caso però le stellette distribuite a mano bassa stupiscono meno. Non tanto perchè il film sia migliore dei precedenti, casomai per il semplice motivo che siamo ormai abituati a ogni iperbole critica (un altro caso incomprensibile riguarda l'unanime consenso nei confronti di un film italiano appena uscito di cui preferiamo omettere il titolo). Per quanto ci riguarda, continuiamo a pensarla come il compianto Enzo Ungari, che nel 1978 tacciò di "formalismo informe" I duellanti nel suo breve saggio «Settecento» (in «Schermo delle mie brame», Vallecchi 1978). Da allora il cinema del regista inglese non è cambiato molto, anche se Sopravvissuto poteva far ben sperare, dal momento che il meglio (Prometheus a parte) Scott l'ha dato proprio quando si è occupato di fantascienza (ma anche il fantasy Legend e i polizieschi/noir Chi protegge il testimone e Black Rain - Pioggia sporca sono da rivedere con occhio attento). Il problema è che non è più tempo di Alien e tantomeno di uno sceneggiatore anarchico come Dan O'Bannon (e di un produttore come Walter Hill eccetera). Qui l'autore dello script (tratto dal romanzo L'uomo di Marte di Andy Weir) è Drew Goddard, responsabile di varie serie televisive. Quindi tutto deve concludersi per il meglio. L'idelogia di base è quella dello slogan Yes We Can, con cui l'ottimismo iper-lucido e high-tech del regista può andare a nozze. Va bene che le riflessioni filosofiche alla Tarkovskij non vanno più di moda, però da un film su un uomo rimasto solo su Marte ci si aspettava qualcosa di più coraggioso e meno allineato. Invece si vira su una presunta commedia fantascientifica: lo era anche Il Dottor Stranamore, attraversato però da uno spirito corrosivo che Sopravvissuto nemmeno riesce a sfiorare. Purtroppo la formazione pubblicitaria (e televisiva, dopotutto) di Ridley Scott è sempre lì, in agguato. Se ne desume l'imprinting in ogni inquadratura, in ogni situazione (sintomatica, seppur apparentemente marginale rispetto all'evolversi della narrazione, l'abitudine del protagonista di mangiare le patate con il ketchup). Il linguaggio pubblicitario, che deve essere sempre rassicurante e coinvolgente (oltre che visivamente suadente, ovvio), determina tutta una serie di scelte. A cominciare da quella che dà il tono all'intero film: raccontare la solitudine (non solo metaforica, ma reale) con così tanti personaggi (la maggior parte fastidiosi, tra l'altro) da non far mai sentire davvero solo il protagonista, e con lui lo spettatore. Se ci si fa caso, varie inquadrature della parte ambientata alla Nasa sono sature di figure, in evidente contrasto con le immagini marziane. Ciò non toglie che alcune sequenze siano memorabili. Una in particolare è girata e montata (da Pietro Scalia) straordinariamente bene. Ed è curioso che ricordi quella dell'arrivo di Floyd sulla base lunare in 2001: odissea nello spazio (ma sia chiaro, Kubrick è lontano anni luce). Si può persino pensare che Scott abbia voluto omaggiarla e nello stesso tempo dissacrarla concettualmente: infatti al posto del nobile valzer di Strauss c'è una hit della disco-music, Don't Leave me This Way (un segno dei tempi? il tentativo - abbastanza patetico - di rendere ancor più digeribile un'opera che, nella sua essenza, avrebbe potuto non essere facilmente fruibile o addirittura ostica?). In sostanza, sfrondandolo di personaggi e situazioni inutili, avrebbe potuto sfiorare il capolavoro. Così, è solo un'occasione mancata.   
    
a cura di Roberto Frini
   

La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati

Stefano Rossi è un pittore che viene chiamato da Antonio, un suo amico in un paesino della Pianura Padana, più precisamente nei dintorni di Ferrara, per restaurare un affresco di Buono Legnani che si trova in una chiesa e che rappresenta San Sebastiano pugnalato da due orribili figure femminili. Mentre il suo lavoro procede iniziano a succedere cose strane: Antonio si suicida proprio dopo avergli detto che aveva scoperto delle cose molto importanti. Da quel momento incubi e misteri orribili invadono la vita di Stefano che viene perseguitato da fatti inquietanti e morti violente legate alla casa del pittore. (Fonte: Ibs)
Nel 1976 Pupi Avati realizza uno dei suoi pochi film riusciti, La casa dalle finestre che ridono. Dario Argento, nel libro Mostri & C., scrisse: «Pupi Avati ha costruito un horror semi-naif, con le atmosfere grasse e sanguigne della campagna padana, inserendovi un plot zeppo di intricati contraccolpi narrativi». La figura centrale del film è infatti un pittore naif morto suicida, Buono Legnani, che dipingeva sulla propria pelle, era malato di sifilide e non avendo alcuna donna che posasse per lui, faceva egli stesso da modello anche per le figure femminili. Il giovane artista Stefano (Lino Capolicchio) arriva in un paesino della provincia di Ferrara (in una zona non meglio precisata, ma comunque vicino al Polesine e a Rovigo) per restaurare un affresco di Legnani, raffigurante il Martirio di San Sebastiano e trovato nella chiesa locale. La figura del pittore è circondata dal mistero, che avvolge sia le sue opere (viene chiamato il pittore delle agonie perché amava dipingere gli esseri umani nell’atto del trapasso) che la sua vita e, soprattutto, la sua morte (si è suicidato vent’anni prima dandosi fuoco). Un amico di Stefano, il chimico Mazza, che sembra sapere qualcosa di più su Legnani, muore anch’egli misteriosamente. Stefano è convinto che qualcuno l’abbia ucciso e comincia a indagare. Scopre che le sorelle del pittore, completamente folli, conservano il cadavere del fratello nella formaldeide, continuando a procurargli i soggetti perché il pittore possa dipingerli. Inutile dire che il finale aperto (non si sa se Stefano viene ucciso dalle sorelle) contribuisce a fare di La casa dalle finestre che ridono uno dei film più inquietanti e (nel vero senso della parola) paurosi dell’intera storia del cinema dell’orrore. Avati in più di un’intervista afferma che il soggetto gli è stato ispirato da una storia udita da bambino che riguardava un prete-donna. La sceneggiatura, scritta insieme al fratello Antonio, a Gianni Cavina (che interpreta benissimo l’alcolizzato Coppola) e a Maurizio Costanzo, sviluppa la vicenda ambientandola in una zona non usuale per il cinema del terrore eppure, grazie all’utilizzo di figure grottesche e tipiche della provincia, mantiene un'atmosfera angosciante e ossessiva. Anche disseminando il film di indizi che non vengono spiegati (i fiori, la polvere bianca, l’accendino di Francesca con le iniziali B. L., le bocche dipinte intorno alle finestre).
   
a cura di Roberto Frini
    

Ritorni - Edizioni Twins

La redazione GHoST segnala Ritorni, opera dello scrittore aostano Vincenzo Costanza, un interessante romanzo sorretto da una storia originale dove si narra che a causa di una situazione divenuta insostenibile in termini di accoglienza, l’Aldilà inizia a respingere i nuovi trapassati. Il primo di loro è Nedo Nedi, deceduto al termine di una lunga e misteriosa malattia, che, dopo aver vagato inebetito per la campagna circostante il cimitero, decide di tornare a casa dalla moglie, cardiopatica suscettibile alle forte emozioni.
Con uno sguardo che dal microcosmo di Orcino, il paese di Nedo, si allarga sempre più, prima all’Italia, poi al mondo intero e, infine, all’ultraterreno, Ritorni è un libro che, con una buona dose di assurdo e umorismo, spinge a riflettere su problematiche sociali di stringente attualità quali l’accoglimento e l’integrazione del diverso, la profonda frattura che si è venuta a creare tra cittadini e istituzioni, la cecità della burocrazia, e molto atro ancora.
Il romanzo edito da Twins Edizioni è stato pubblicato su licenza della David and Matthaus Edizioni.
Ritorni, Anno: 2014-2015, pagine: 120
Codice ISBN: 978-88-98899-94-4, Editore: Twins Edizioni
 
Un assaggio del libro
....Il primo a ritornare fu Nedo Nedi, deceduto dopo lunga malattia.
A causa di una situazione divenuta insostenibile in termini di accoglienza, l’Aldilà iniziò ad attuare, con decisione immotivata e unilaterale, una ferrea politica di respingimento. I viaggi della Caronte Ferries furono sospesi fino a data da destinarsi (e lo stesso Caronte fu posto in cassa integrazione) mentre lo Stige e tutti gli altri fiumi infernali venivano perlustrati giorno e notte da diaboliche motovedette armate fino ai denti per impedire sbarchi di clandestini. I defunti, quindi, non potendo trasferirsi all’altro mondo, dovettero giocoforza restare su questo e condividerlo con i vivi.
Nedo, impreparato all’inattesa situazione, vagò inebetito per alcune ore nella campagna circostante il cimitero. Alla fine, recuperato il senno, decise di tornare a casa dalla moglie. “Chissà come sarà contenta di vedermi” pensò rincuorato....
 
     
L'AUTORE
Vincenzo Costanza nasce il 20 dicembre 1966 ad Aosta, dove lavora in qualità di webmaster e vive con la moglie Monique, i tre figli, due pastori scozzesi e un gatto. Diplomato al liceo scientifico e laureato in comunicazione, fin dalla più tenera età dimostra una vocazione artistica fuori dal comune, soprattutto per le arti grafiche. Amante dell’horror e fine umorista, da qualche anno scrive storie strampalate nella speranza di “azzeccare” un bestseller per potersi ritirare in un eremo tra le colline pisane.
   

Fulci e Barker, amici per la pelle? No, per la carne

Se pensiamo a un film che ha elevato Lucio Fulci al maestro dell'horror internazionale non può non venirci in mente ...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà. Il poeta del macabro aveva cominciato a fare sul serio nel 1980, con il suo primo film horror, Zombi 2, fin a continuare con Paura nella città dei morti viventi dando prova di inaudita crudeltà visiva e una pittorica componente suggestiva delle immagine. Se in Paura il regista comincia a richiamare Lovecraft tinteggiando di sangue e desolazione la città di Dunwich così cara allo scrittore statunitense, in L'aldilà Fulci diventa più incisivo, fumettistico, rappresentativo. Se pensiamo per esempio a Emily, quel personaggio così affascinante dagli occhi bianchi non possiamo smettere di restare incollati davanti allo schermo e sentirci ipnotizzati dalle atmosfere tipiche anni '80 ma con qualcosa in più, con quell'estro che solo Fulci poteva donare. La testa esplosa della bambina zombie, l'occhio trafitto della domestica, l'occhio strappato dell'idraulico, i morsi del cane, la voce dei dannati venuti dagli inferi, le porte dell'inferno che si spalancano, il pittore maledetto che grida vendetta, sono tutti elementi che hanno fatto grande questa pellicola.
A proposito di 'pittore' c'è un forte richiamo alla figura del ritrattista maledetto de La casa dalle finestre che ridono del 1976  che raffigurava le persone che stavano per morire in modo atroce. In Fulci abbiamo sempre la figura del pittore ma questa volta in modo totalmente esasperata, anzi 'apocalittica'; infatti ucciso da una folla inferocita l'artista bagnerà con il proprio sangue le porte dell'inferno rischiandole di farle aprire. L'aldilà, anche se in sé ripercorre un po' il filone delle 'case maledette' tra cui anche Shining di Kubrick, vanta di un'originalità senza eguali. Riporta in vita totalmente le atmosfere di Lovecraft e getta le basi di quello che sarà uno dei film più 'scarnificanti' della storia del cinema: Hellraiser.
L'opera di Clive Barker, quella più rappresentativa, vanta di essere debitrice a L'aldilà. L'inferno è il primo elemento, in entrambi i lavori è il fuoco purificatore a regnare, ma forse ancora prima c'è un elemento molto più profondo e diretto: la carne. Come la simpatia tra Barker e Cronenberg, che sorse grazie alla passione innata per il concetto visivo dello strazio della carne, tant'è che il regista de La mosca fece il cattivo in Cabal, l'amicizia artistica tra Barker e Fulci non fu da meno.
Se in Hellraiser si parla proprio di brama per la carne, in cui i Supplizianti/Cenobiti si divertono un mondo a sviscerare e straziare in mille brani i corpi dei malcapitati, in Fulci l'analogia è completa.
Un corpo che viene polverizzato, inghiottito, sezionato, digerito da migliaia e migliaia di ragni venuti dall'inferno. Lingua, occhi, bocca, sono tutte parti ben strappate e assimilate da questi orrendi aracnidi. Se anche in Paura predominante era la violenza, ne L'aldilà entra in scena il Guardiano, una sorta di demone/zombie che ti vuole portare nel mondo dei morti e farti provare il dolore assoluto. Ecco, questo concetto è in fortissimo legame con i Cenobiti di Barker. Esseri che arrivano sulla Terra per punire e far provare una sofferenza indicibile per poi far discendere le anime straziate nell'Ade. Clive Barker, proprio per questa pittura poetica della morte, questa raffigurazione meticolosa (che rimanda a Caravaggio e Bosch) della carne violata e maciullata, e per questi concetti metafisici era un grande ammiratore di Lucio Fulci.
I due probabilmente erano espressivamente così vicini da farli non amici per la pelle, ma per la carne.
   
a cura di Francesco Basso

Fino alla fine della rete - Kindle Amazon

La redazione GHoST segnala Fino alla Fine della Rete, il romanzo d'esordio di  R.V. Beta. La storia narra di Yuuki, una ragazza scappata di casa per vivere sulla propria pelle un’irrefrenabile curiosità per la vita e la tecnologia.
La sua ultima impresa di pirateria informatica l’ha riportata bruscamente dal mondo virtuale a quello reale, e ora è un obiettivo.
Daisuke è dotato di una fervida immaginazione, con la quale sconfigge le noiose giornate da impiegato di una multinazionale.
Qualcosa di speciale unisce Yuuki e Daisuke nella fuga che affronteranno insieme o almeno così è come la vede lui...
Fino alla fine della rete è disponibile in formato elettronico su Amazon.Una storia con tanto, tantissimo amore ma anche parecchia plastica bruciata, schizzata di sangue fresco fresco.
C'è un lui, una lei, un loro che ce l'hanno con lui e lei, e qualche aspetto cyberpunkeggiante a imparanoiare il tutto.
A detta dell'autrice, "...se vi piacciono anche i videogiochi, non riuscirete a scollare le cornee dalle sue pagine digitali..."
Sito ufficiale: http://www.rv-beta.com
Fino alla fine della rete, Anno: 2013, pagine: 255, Codice ASIN: B00GYI8ZM2, Autoprodotto. 
    
L'AUTRICE
Si chiama (se credete a questa storia) R.V. Beta.
Secoli fa faceva da balia a un Tamagotchi non suo, e non sa perché tendeva a trattarlo male: ha ancora i sensi di colpa.
Si immagina di entrare un giorno in un negozio di elettrodomestici e tutte le televisioni la salutano facendo il suo nome...
           

Nonhosonno di Dario Argento

In Nonhosonno Argento dimostra d’essere ancora capace di sferrare colpi micidiali. L’idea è semplice: al diavolo l’inutile tentativo di rincorrere una fasulla modernità, si torna all'antico. Nasce così il suo primo film del nuovo millennio. La città è di quelle che lo hanno ispirato maggiormente, Torino. Gli sceneggiatori questa volta sono gli italiani Franco Ferrini (Io, Chiara e lo Scuro, C’era una volta in America, Dèmoni) e lo scrittore Carlo Lucarelli. La vicenda è semplice ma con trovate non banali. L’assassino creduto un nano che si rivela invece un bambino, ad esempio. Tutti hanno ammesso la bellezza della scena sul treno, i detrattori hanno sottolineato l’improponibilità di un paragone con Profondo rosso, a cui lo accomunano molte scelte, prima tra tutte un ritorno che mette i brividi, quello dei Goblin. Nonhosonno è, in realtà, la summa artistica di ciò che di straordinario il regista ha filmato e il riuscito tentativo di liberarsi degli orpelli di un cinema che non fa per lui. Ciò che distingue Nonhosonno dai precedenti film di Dario Argento realizzati negli anni Novanta non è il genere. D’accordo, Il fantasma dell’Opera apparteneva, o avrebbe dovuto appartenere, all’horror puro, ma Trauma e La sindrome di Stendhal cos’erano se non dei thriller? Quindi, poche storie, il tanto sbandierato ritorno al giallo di Dario Argento è solo un abile (?) operazione di marketing. A tracciare una linea netta tra Nonhosonno e i tre film citati è la qualità. Nonhosonno è un buon film perché recupera un modus operandi che ha fatto di Dario il sanguinario un maestro. Primo, bando alle ambientazioni internazionali e, come scritto, ritorno a una città italiana. Poi, storia più essenziale ma con varie idee interessanti. Al risultato contribuiscono anche gli attori, tutti bravi e funzionali, cosa che non capitava dai tempi di Phenomena (fatta eccezione per l’episodio di Due occhi diabolici, un piccolo gioiello sui generis). Ma, ciò che soprattutto rende Nonhosonno un film da vedere è lo stile di Dario Argento. I suoi movimenti di macchina (meno virtuosistici di una volta ma sempre avvolgenti), i suoi angoli di ripresa, il montaggio e il gusto per il dettaglio; la suspense che riesce a creare inquadrando una stanza buia, le atrocità (abbastanza limitate, a dire il vero) che solo lui riesce a rendere metafisiche, come nella scena dello sparo finale. Notevole l’aspetto visivo, anche per merito del direttore della fotografia Ronnie Taylor (Gandhi, A Chorus Line, Seduzione pericolosa e, sempre con Argento, Opera). Qualcuno ha detto che di Nonhosonno si possono salvare giusto i primi venti minuti. Certo, un delirio di virtuosismo/musica/montaggio/terrore puro come quello iniziale non si vede tutti i giorni ma, permettete, chi ha nel sangue il cinema italiano degli anni Settanta non può restare indifferente di fronte alla scena ambientata nei sotterranei della discoteca, tanto per dirne una. Altri hanno sostenuto che Dario Argento si è limitato a rifare Profondo rosso (quasi fosse una colpa). Può darsi che abbiano ragione ma, in ogni caso, i risultati sono comunque migliori della maggior parte dei film italiani che escono di questi tempi. Anche se, con poca originalità, mette semplicemente in scena un assassino psicopatico che uccide giovani donne.
   
a cura di Roberto Frini
    

La strada di Cormac McCarthy

Quella di La Strada è una lettura impegnativa.
E alla fine, dopo il punto che chiude questo incredibile romanzo di Cormac McCarthy, si capisce perché nel 2007 si è meritato il premio Pulitzer per la narrativa.
Ma andiamo per ordine e parliamo prima della trama, come sempre scarna per non rovinare il piacere della lettura: padre e figlio, diretti verso sud, viaggiano lungo le grandi strade americane, attraverso un mondo distrutto dove, come scrive McCarthy, ben presto non rimarrà in piedi un solo albero e, alla fine, anche la morte verrà uccisa.
Un mondo oscuro, fatto di polvere e fuliggine. Violento e spietato.
Il mondo dopo l'apocalisse.
Una realtà desolata e piena di pericoli che sembra avvicinarsi a quella condizione originaria temuta dal filosofo inglese Hobbes, dove vige lo spietato principio dell'Homo homini lupus.
Un viaggio infinito, scandito dall'estenuante ossessione quotidiana del cibo, caratterizzato da incontri brutali, come nella grande casa sulla collina, rifugio di cannibali che imprigionano, come tante bestie da macello, le persone nello scantinato.
Un viaggio usato da McCarthy come una tela dove dipingere il rapporto tra padre e figlio. Un legame intenso e a due direzioni perché, se da un lato il bambino dipende dal padre per il cibo, il calore, la sicurezza, anche l'uomo è saldamente legato a suo figlio: in un mondo dove tutto sta morendo, il bambino diventa simbolo della speranza stessa. Il riflesso della parte migliore e “buona” presente, indipendentemente da tutto, in ogni persona: l'amore reciproco che soltanto due esseri umani sono in grado di darsi.
Il finale è di quelli che fanno stringere lo stomaco, ma che si adatta perfettamente al romanzo, senza nessuna travata buonista che avrebbe fatto a pugni con quello raccontato in precedenza.
Un finale amaro dove la forza, la potenza del legame tra padre e figlio si delinea con chiarezza, dimostrandosi indissolubile e capace di superare ogni barriera. Anche quelle che possono apparire definitive e irreversibili come la morte stessa.
Nel 2009 dal romanzo di McCarthy è stato tratto l'omonimo film di John Hilcoat The Road con Viggo Mortensen e Charlize Theron.
Da leggere.
        
      
SCHEDA
La strada
Autore: Cormac McCarthy
Traduttore: Martina Testa
Editore: Einaudi
Collana: Supercoralli
Edizione: 2007, pagine 218
Codice ISBN: 978-88-0618-582-4
      
a cura di Stefano Milighetti
        

Pensiero del giorno - Jodie Foster 09/10/2015

L'universo è un posto molto vasto, è più grande di ogni cosa che chiunque abbia mai immaginato finora. Se ci fossimo solo noi, sarebbe uno spreco di spazio... giusto? (Jodie Foster in Contact)

In ricordo di John Guillermin

John Guillermin, nato l’11 novembre del 1925 e deceduto in California il 27 settembre del 2015, appartiene a quella categoria di registi che non ha mai beneficiato del titolo di Autore. Anzi, soprattutto negli anni Settanta passava per essere soltanto un discreto mestierante. In qualche caso, in maniera ancora più sprezzante, veniva definito uno yes-man. Un regista in sostanza a cui si poteva affidare qualsiasi sceneggiatura sapendo che non nutriva velleità particolari e che avrebbe quindi diretto in maniera professionale, senza guizzi e garantendo un buon successo al botteghino. Con ogni probabilità tale etichetta gli venne affibbiata soprattutto quando firmò L’inferno di cristallo (The Towering Inferno, ’74), sotto la supervisione (ma ormai viene quasi sempre accreditato come co-regista) del grande produttore Irwin Allen. Il film fu uno dei primi disaster-movie (nello stesso anno uscì anche Terremoto, diretto da Mark Robson) e sicuramente uno dei migliori, con alcune sequenze molto spettacolari. Certo, in quegli anni il cinema americano stava cambiando, guardava all’Europa e cercava di svincolarsi dalla tradizione hollywoodiana dei kolossal, dei cast stellari e del puro consumo, per cui film come L’inferno di cristallo e registi come Guillermin non potevano essere visti di buon occhio. I tempi delle teorizzazioni disincantate sul cinema-cinema, delle riletture e rivalutazioni dell’effimero sarebbero arrivati di lì a poco. Dopo L’inferno di cristallo, in ogni caso, Guillermin diede un ulteriore contributo al rilancio delle pellicole avventurose ad altissimo budget, chiamato da un altro titanico produttore, il nostro Dino De Laurentiis. King Kong, del 1976, inaugurò in un certo senso la stagione dei remake e di un cinema nostalgico e regressivo. Sul film, poco apprezzato anche dagli appassionati del fantastico, pesò ovviamente il confronto col capolavoro del 1933 diretto da Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper (cosa che in verità capita quasi sempre ai rifacimenti). A distanza di tanti anni tuttavia non si può non guardarlo con occhio diverso (specie dopo l’ipercinetico King Kong di Peter Jackson) e apprezzarne almeno l’estatica e quasi sognante prima parte, intrisa di un erotismo lussureggiante. Uno spiccato gusto retrò (cominciava in quegli anni, d’altronde) emerse dal film successivo, Assassinio sul Nilo (Death on the Nile, 1978) tratto dal romanzo di Agatha Christie. Guillermin dimostrò d’essere capace di creare una discreta atmosfera, che è poi quello che conta maggiormente in questo genere di film. L’Egitto assolato fa da sfondo a un tipico giallo nel quale bisogna scoprire chi è l’assassino, il tutto condito da una sottile perfidia tipica della Christie. Non era però nelle corde del regista, a suo agio con vicende più movimentate. Infatti nel 1984 tornò dietro la macchina da presa per dirigere Sheena, regina della giungla (Sheena), un Tarzan in gonnella che ha le splendide fattezze di Tanya Roberts. Un ritorno al passato, per Guillermin, che qualche decennio prima aveva diretto due film con protagonista l’eroe della giungla: Il terrore corre sul fiume (Tarzan’s Greatest Adventure, 1959) e Tarzan in India (Tarzan Goes to India, 1962). Tratto dal fumetto omonimo e scritto da una coppia di sceneggiatori di vaglia come David Newman e Lorenzo Semple jr (quest’ultimo già tra gli autori di King Kong), Sheena, regina della giungla non ebbe un grande successo ma è un film da riscoprire. Stesso discorso per il successivo King Kong 2 (King Kong Lives, 1986) sempre prodotto da De Laurentiis e ultimo della carriera di Guillermin. Qui i gorilla giganteschi sono due, un maschio e una femmina, e la vicenda sentimentale sostituisce quella più sensuale tra Kong e Jessica Lange del film precedente. Il buon piglio del regista si nota nelle scene d’azione, a cui aggiunge persino alcuni timidi tentativi splatter, che per contrasto accentuano la sostanziale ingenuità dell’insieme, tipica di un cineasta d’altri tempi. Se abbiamo concentrato la nostra attenzione all’incirca sull’ultimo decennio dell’attività di Guillermin è proprio perché evidenzia quanto di buono è riuscito a fare in un’epoca di passaggio, nel quale il cinema cominciava a cambiare in maniera molto rapida. Non certo perché non avesse realizzato dei film interessanti anche prima. Ricordiamo almeno il noir I gangsters di Piccadilly (Never Let Go, 1960), i bellici La caduta delle aquile (The Blue Max, 1966) e Il ponte di Remagen (The Bridge at Remagen, 1969) e il thriller Il castello di carte (House of Cards, 1968).
 
a cura di Roberto Frini
   

Omaggio a Wes Craven

La frase più bella e significativa su Wes Craven l’ha detta, non a caso, un suo grande collega e amico: John Carpenter. “Era un regista della vecchia scuola”. Che significa (supponiamo, quanto meno) dare molta importanza alla sceneggiatura e all’impianto narrativo, alla definizione dei personaggi, alle inquadrature, al montaggio e a un minimo di direzione degli attori. Ma anche, forse, avere qualcosa da dire. Seguendo certi principi (che dovrebbero essere basilari, ma tant’è), Craven ha contribuito all’uscita del genere horror dalla marginalità a cui era costretto (considerato alla stregua di un intrattenimento di poco conto). Nato a Cleveland, laureatosi in lettere e filosofia, dopo alcuni anni in cui insegna materie umanistiche (come il collega Tobe Hooper, che con lui condivide gli inizi slasher zeppi di situazioni forti), sceglie di dedicarsi al cinema. Esordisce collaborando al soft Together (1971), diretto da Sean S. Cunningham (il futuro regista di Venerdì 13) e che segna il debutto, in un piccolo ruolo, di Marilyn Chambers (attrice di film pornografici e interprete, nel 1977, di Rabid- Sete di sangue, diretto da Cronenberg). Il primo, vero lungometraggio, del 1972, si ispira nientemeno che allo splendido La fontana della vergine (1960, Ingmar Bergman).
L’ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, 1972) rappresenta senza dubbio un’opera cruciale per quel che riguarda il New Horror americano, pur se Craven negli anni a venire sosterrà di non apprezzarlo particolarmente. Uno dei primi esempi di rape&ravenge (dopo Cane di paglia di Peckinpah), ha squarci visionari che anticipano le opere del decennio successivo. Con Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 1977) insiste nell’approccio realista e nell’uso di una violenza esplicita, ma persegue anche una metaforica e impietosa rappresentazione sociale (e dell’essere umano che ne è responsabile). Ispirato a un caso realmente accaduto nel XVII secolo, narra di una famiglia in vacanza massacrata da un manipolo di assassini cannibali. Con questo film diventa, dopo Romero (La notte dei morti viventi), e insieme a William Friedkin (L’esorcista), Larry Cohen (Baby Killer), David Cronenberg (Il demone sotto la pelle), Tobe Hooper (Non aprite quella porta), David Lynch (Eraserhead – La mente che cancella), Brian De Palma (Carrie - Lo sguardo di Satana) e Carpenter (Distretto 13 – Le brigate della morte), uno degli alfieri impegnati a rinnovare temi e atmosfere dell’horror su pellicola (senza dimenticare però gli apripista come il grande Roger Corman, e poi Herschell Gordon Lewis, Jack Hill, eccetera).
Nelle opere di questi registi i meccanismi che scatenano paura e angoscia non sono soltanto elementi di contorno, ma cardine del film, grimaldello con cui scardinare gli stereotipi interni al genere e, oseremmo dire, le convenzioni del cinema (e non solo) borghese. Che poi tale ribellismo di derivazione surrealista possa essere addomesticato e reso innocuo è una questione con cui ha dovuto fare i conti lo stesso Craven (i risultati li abbiamo sotto gli occhi). In ogni caso, l’orrore (come il comico), lo sappiamo, poiché utilizza materiali ritenuti di bassa levatura, a maneggiarlo bene permette di affrontare tematiche controverse e di sovvertire regole e morale. Nel 1981 dirige il sottovalutato Benedizione mortale (Deadly Blessing), ambientato in una comunità di Ittiti, con il quale approccia il sovrannaturale e il fantasy. Pregevoli alcune scene, su tutte quella con protagoniste una vasca da bagno e una ragazza (decisamente anticipatrice: vedere per credere). Seguono due film per la tv (tra cui  Swamp Thing – Il mostro della palude, basato su una celebre serie a fumetti di Len Wein e Berni Wrightson), poi nel 1984 ottiene un clamoroso e inaspettato successo con Nightmare – Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street). Capolavoro nel quale riesce a miscelare realismo e fantasy, gore e atmosfere oniriche in modo magistrale. Inventando, oltretutto, un personaggio destinato a entrare nella leggenda: Freddy Krueger, revenant che uccide gli adolescenti attraverso i loro incubi, riproposto in una serie di seguiti e rifacimenti che ancora oggi non sembra avere fine. Nonostante lo stesso Craven si riappropri della sua creatura nel 1994 con Nightmare – Nuovo incubo, per chiudere definitivamente il cerchio. Senza, purtroppo, riuscirci.
La svolta verso un horror più fantastico e visionario, nella seconda metà degli anni Ottanta (in linea è bene precisarlo con la tendenza del periodo) si fa netta. E oltretutto giova al regista, tenendo conto che Le colline hanno gli occhi II (The Hills Have Eyes part II, 1985) si rivela un mezzo fallimento, sia dal punto di vista artistico che da quello degli incassi. Craven non si accontenta certo di soggetti banali, ma è innegabile che nel periodo successivo all’exploit di Nightmare cerchi di riproporne le medesime suggestioni sia in Dovevi essere morta (Deadly Friend, 1986) che in Sotto Shock (Shocker, 1989). Entrambi hanno degli adolescenti come protagonisti, che si muovono nella consueta cittadina middle-class americana. Il primo è un curioso incrocio tra un film d’avventure fantasy e una storia di morti viventi. Nonostante il risvolto sentimentale, non mancano le scene splatter (la morte di Anne Ramsey non si dimentica tanto facilmente). Sotto shock, prodotto dalla Alive Films (una casa di produzione indipendente e benemerita che in quel periodo produsse anche vari Carpenter e che lo stesso Craven lodò perché “offre delle cose che nessun altro si sogna di fare”), presenta un cattivo di notevole appeal: Horace Pinker è un serial-killer condannato alla sedia elettrica che però invece di morire diventa una sorta di fantasma dell’etere, fino a materializzarsi nei canali video. La lunga battaglia-zapping che vede il protagonista e il mostro attraversare vari programmi televisivi (e nel quale compare anche Timothy Leary, lisergico guru della pop-culture americana) è una sequenza geniale, tra le migliori e più complesse girate da Craven. Il più riuscito del periodo è però Il serpente e l’arcobaleno (The Serpent and the Rainbow, 1988), allucinante variazione su un tema affrontato varie volte in quegli anni dal cinema USA: la magia nera (ricordiamo Angel Heart – Ascensore per l’inferno, di Alan Parker e The Believers – I credenti del male, di John Schlesinger, entrambi del 1987). Qui siamo ad Haiti, e il mistero del plot s’intreccia ai misfatti del potere politico (il riferimento ai tristemente famosi Tonton Macoutes del dittatore Duvalier non è certo casuale). Tensione e incubi ai massimi livelli, e anche in questo caso una scena da antologia: nella quale il personaggio principale viene sepolto vivo.
A dispetto dei risultati artistici, il botteghino non sorride a Craven, che paga il consueto tributo al mezzo televisivo con il non eccelso Delitti in forma di stella (Night Visions, del 1990) e s’aggrappa ancora una volta alla Alive Films per poter  tornare dietro la macchina da presa. Lo fa con il thriller La casa nera (The People Under the Stairs, 1991), ispirato a un fatto di cronaca accaduto a Los Angeles alla fine degli anni Settanta. Interessante e più realistico dei titoli precedenti, anche se qualcosa di  mostruoso sembra nascondersi nei sotterranei della casa degli orrori dove tre ragazzi del ghetto penetrano per compiere un furto. Curiosamente la coppia di cattivi è formata da Wendy Robie e Everett McGill, che avevano già recitato in coppia nella serie tv Twin Peaks, di David Lynch. Dopo i sei telefilm di Nightmare Café, ideati e diretti (insieme ad Armand Mastroianni) per il canale NBC, e il già citato Nightmare – Nuovo Incubo, il regista compie un altro mezzo passo falso con Vampiro a Brooklyn (Vampire in Brooklyn, 1995), protagonista Eddie Murphy. La commedia horror non è nelle corde di Craven, meno che mai con una star debordante (qui anche autore del soggetto e produttore) da dirigere. Un altro mezzo disastro che avrebbe potuto stroncare definitivamente la carriera di Craven. Invece, l’anno seguente firma Scream, accolto molto bene dal pubblico e dalla critica.
Scritto da Kevin Williamson (fin troppo elogiato per questo script) e prodotto dai fratelli Weinstein (non certo una garanzia di sobrietà, specie per quel che riguarda l’indiscriminato sfruttamento di ogni minima idea decente), è una sorta di meta-thriller che cerca di evidenziare i meccanismi del genere (slasher, soprattutto), decretandone il definitivo superamento. In un certo senso una parodia seria, da cui non a caso si svilupperanno (quasi come degli spin-off) una serie di film demenziali e non proprio raffinati, tra i quali Scary Movie (2000), di Keenen Ivory Wayans. A prescindere da ciò, l’assassino con la maschera che riproduce il celebre dipinto L’urlo di Munch, entra di diritto della storia del cinema del terrore. Da qui in poi, inutile negarlo, Craven vivrà di rendita. Il meglio lo darà dirigendo i tre sequel Scream 2 (1996), Scream 3 (2000) e Scream 4 (2011). Per il resto, film nella media. La musica nel cuore (Music of the Heart, 1999), con Meryl Streep; Cursed – Il maleficio (Cursed, 2004), una vicenda di lupi mannari; Red Eye (2005), il migliore dei suoi ultimi; My Soul to Take (2010). Da sottolineare la partecipazione al film collettivo (non horror) Paris, Je t’aime, del 2006. Il suo episodio, Père-Lachaise, è da recuperare. Nel 1999 pubblica un romanzo, La società degli immortali (Fountain Society), ristampato in seguito con il titolo Incubo. Resta da scrivere che le opere di Craven da mandare a memoria sono, senz’ombra di dubbio, quelle che hanno concretizzato un’idea, e cioè che “il vero orrore ha un volto umano”.
      
a cura di Roberto Frini
      

The Green Inferno di Eli Roth

La giovane universitaria Justine entra a far parte di un gruppo di studenti ambientalisti intenzionati a raggiungere l’Amazzonia peruviana per bloccare la distruzione di una parte della foresta. Lo fanno utilizzando i telefonini e condividendo in streaming le riprese video del disboscamento. Arrestati dalla milizia e rimandati a casa, precipitano però con l’aereo nella giungla e vengono catturati da una tribù di feroci cannibali.
Per una volta ci sembra giusto cominciare da un giudizio sulla locandina. Potrà sembrare una notazione marginale ma non lo è affatto. D’accordo, oggi di un film si sa tutto molto prima che arrivi nelle sale, il trailer circola con mesi di anticipo. Tempo addietro però non era così, la locandina rappresentava il primo impatto con un’uscita cinematografica. L’appassionato poteva pregustare la visione principalmente attraverso ciò che veniva rappresentato in essa. E bisogna dire che non sempre il contenuto manteneva le promesse: in molti casi era alquanto menzognero (il che paradossalmente accresceva il suo fascino). Tutto questo preambolo per dire che la locandina italiana di The Green Inferno è una delle migliori viste negli ultimi anni (ma anche quella americana non scherza). E, oltre tutto, non mente per nulla, perché l’ultima opera di Eli Roth (Cabin Fever, Hostel) è un signor film. Girato nel 2013, esce soltanto adesso, ritardo che dimostra - ammesso che ce ne fosse bisogno - quanto i cannibal-movies non contino su un gran numero di estimatori. Resta però il dubbio che la post-produzione non sia filata proprio liscia, e che Roth abbia finito per tagliare qualche fotogramma cruento, ammorbidendo per quanto possibile un’opera che altrimenti avrebbe incontrato davvero delle grosse difficoltà a trovare un distributore. Almeno due o tre sequenze – a partire da quella iniziale – sembrano tagliate con l’accetta (per restare in tema). Siamo pronti a scommettere che a breve uscirà il dvd in versione uncut (in questo caso, per una volta, quanto mai interessante). Per comprendere il substrato da cui nasce The Green Inferno, bisogna sottolineare il fatto che Eli Roth è un sodale di Tarantino, produttore di Hostel. Sappiamo tutti (anche troppo bene, per la verità) che il regista di Pulp Fiction è un esegeta del cinema bis italiano, e il suo amico e collega non sembra da meno. Da questo orientamento cinefilo nasce l’idea di riproporre il genere cannibalico, che tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta fece la fortuna dei produttori italiani e rese celebri in tutto il mondo alcuni registi (ma ebbe vita breve). Tra questi, Ruggero Deodato, autore di Cannibal Holocaust (e anche di Ultimo mondo cannibale), dal quale The Green Inferno prende le mosse. Il titolo è infatti lo stesso con cui ha inizio la seconda parte del film uscito nel 1980 e che tanti problemi ebbe con la censura. Ma in realtà Roth omaggia (o trae ispirazione, fate voi) quasi tutte le pellicole italiane del genere (puntualmente citate nei titoli di coda), compreso il preferito da chi scrive, La montagna del dio cannibale, diretto da Sergio Martino nel 1978. Proprio questi riferimenti sembrano aver attirato anatemi e critiche inusitate e, detto chiaro e tondo, difficili da comprendere. Anche perché, con tutto il rispetto e la simpatia per Deodato, Lenzi, eccetera, non stiamo parlando di Roma città aperta o I vitelloni. Se consideriamo che qualcuno progetta di realizzare il remake de La dolce vita, non sembra proprio il caso di gridare allo scandalo per lesa maestà nei confronti di Cannibal Holocaust o Cannibal Ferox, vituperati ai tempi come oggi capita a The Green Inferno. Così come lasciano parecchio perplessi le riflessioni di chi lo snobba trattandolo come una specie di parodia. A parte il fatto che, per lo stesso motivo di cui sopra, non riusciamo a capire cosa ci sarebbe di male. Inoltre l’approccio ludico/goliardico all’horror, dagli anni Ottanta in poi è diventato quasi la regola (chi scrive certe cose probabilmente non ha mai visto i film di Henenlotter e Il ritorno dei morti viventi, Re-Animator, Society, Street Trash, tanto per citarne alcuni: il gusto dell’eccesso finisce sovente per sembrare parodistico) e d’altra parte è un marchio di fabbrica della factory di Tarantino (Dal tramonto all’alba cos’era se non un horror ai limiti della parodia?). Il buon lavoro di un regista si misura, in casi come questi, dalla capacità di trovare un equilibrio tra tensione e ironia o eventuali derive grottesco/demenziali. Dal saper dosare elementi (ripetiamo) apparentemente contrastanti o, ancora, dal portare all’estremo sia l’una che gli altri fino a creare una miscela esplosiva. Oso affermare che Eli Roth (dal sottoscritto in precedenza poco apprezzato) ci sia riuscito in maniera (quasi) magistrale. La scena più gore, quella nella quale il gruppo di attivisti scopre di aver a che fare con una tribù di cannibali, non solo è l’unica davvero efferata ai limiti dell’insostenibile (scelta azzeccata) ma è pure realizzata con sapienza: inquadrature e montaggio (senza contare ovviamente gli effetti speciali di trucco opera dei maestri Greg Nicotero e Howard Berger) dimostrano una competenza tutt’altro che disprezzabile. E non è l’unica. Citiamo almeno il sogno del pre-finale, che probabilmente non è piaciuto a nessuno e che invece ci pare geniale (messa in abisso del senso come ai bei tempi). Ma anche dal punto di vista visivo The Green Inferno supera di gran lunga la maggior parte degli horror (e non solo) recenti. L’uso del colore, ad esempio, per nulla banale. Vedi il rosso della tribù che torna nella maschera di Justine dipinta di bianco (immagine notevole). A proposito del personaggio principale, la studentessa è interpretata dall’attrice cilena Lorenza Izzo, moglie di Roth: ammettiamo che non la conoscevamo e che, comunque, difficilmente la scorderemo. Chiusa la parentesi. Segnaliamo, inoltre, le sapide frecciate rivolte all’uso dei cellulari (che alla fine, servono a ben poco, specialmente tra i cannibali) e la presa in giro dei vegetariani che, ironia della sorte, finiscono proprio tra i mangiatori di carne, umana questa volta. Quanto al resto, Eli Roth sembra essersi ricordato del celebre aforisma di Marx “La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”, anche se si diverte a mischiare le carte. Forse, fa capire tra le righe, bisogna diffidare delle buone intenzioni quando sono troppo esibite. Tuttavia pare fuori luogo attribuire particolari intenzioni concettuali (per non dire politiche o morali) al regista. L’assenza delle quali non è sinonimo di cattivo cinema, specie in un’epoca come quella attuale di millantato impegno (e si torna all’aforisma marxiano). Insomma, siccome non stiamo trattando di questioni filosofiche ma di un film del terrore, ci pare che il miglior complimento che possiamo fare a The Green Inferno è che torneremmo volentieri a vederlo una seconda volta: il che capita ormai sempre più raramente.
   
a cura di Roberto Frini
  

Pensiero del giorno - Charles Bukowski 02/10/2015

Come cazzo è possibile che ad un uomo piaccia essere svegliato alle 6.30 da una sveglia, scivolare fuori dal letto, vestirsi, mangiare a forza, cagare, pisciare, lavarsi i denti e pettinarsi, poi combattere contro il traffico per finire in un posto dove essenzialmente fai un sacco di soldi per qualcun altro e ti viene chiesto di essere grato per l'opportunità di farlo? (Charles Bukowski)
 
 

La Guerra del Metallo Freddo - Ebook Kindle Amazon

La redazione GHoST segnala La Guerra del Metallo Freddo, il primo romanzo di fantascienza autoprodotto di Ivan Bruno. La storia è ambientata in un futuro devastato dalla guerra, dove una bambina keniota è sopravvissuta a una tragedia che la spingerà ad arruolarsi tra le fila della Coalizione Terrestre, desiderosa di aiutare la civiltà umana a sopravvivere alla "minaccia metallica" giunta dallo spazio
profondo secoli prima. Lala sarà messa a confronto con le realtà nascoste dietro le azioni degli umani e dei cyborg e dovrà far fronte alle decisioni prese da Brian, l'eroe dell'Esercito Rivoluzionario Irlandese, un altro soldato alla ricerca di risposte a quesiti nati da un comportamento inaspettato. Dietro al sipario di un triste scenario, la maggior parte delle forze alleate si è rifugiata a chilometri di profondità dalla superficie terrestre: tra queste, Città del Vaticano II si è impegnata a dare asilo ai sopravvissuti ritrovati tra le rovine della civiltà antica. Governata da un Papa rivoluzionario, insegna ai bambini cos’è il progresso e ricorda loro le memorie della storia terrestre. Quando lo scontro tra umani e macchine prenderà una piega decisiva, entreranno in gioco degli elementi in grado di ribaltare l’ago della bilancia e la Terra non sarà più la stessa.
Il romanzo sarà presentato l'11 ottobre presso la libreria Mondadori di Sanremo:
I libro è disponibile sia in formato ebook che cartaceo. Fan page:
La Guerra del Metallo Freddo, Anno: 2015, pagine: 318, Codice ISBN: 978-15-1191-413-0,
Codice ASIN: B00X2YS5P8, Autoprodotto. 
     
Un assaggio del libro
«Mamma, ho paura.»
Florence cercò, attraverso l’oscurità violata dalle prime luci dell’alba, gli occhi della giovane Anita. Era difficile trovare parole rassicuranti in quel giorno di morte e distruzione; il nascondiglio, improvvisato nella notte precedente, puzzava d’urina; dalla trasmittente non giungeva più nessuna comunicazione. L’eco delle esplosioni era l’unico messaggio proveniente dall’esterno.
La scura mano della donna, tremante, accarezzò il viso della figlia. «Sii forte, bambina mia», le disse, prima di voltarsi verso la più giovane Lala. «Papà ci porterà in salvo, ma fino a quel momento dobbiamo restare nascoste.»
Il marito, sceso in campo contro l’attacco notturno dell’immenso mezzo volante, era un soldato keniota della Coalizione Terrestre; aveva assicurato all’amata famiglia un rapido rientro velato di gloria. Tuttavia, Florence conosceva bene l’uomo con cui si era legata per il resto della sua vita e sapeva riconoscere quando le mentiva; lo aveva baciato a lungo, prima di lasciarlo partire dal loro appartamento. Da allora, erano passate sei ore.
Le pareti del bagno pubblico sussultarono, scosse da un impatto misterioso, e un’ombra di polvere calò dal soffitto; le due sorelle si aggrapparono alla madre; lei le cinse con la forza della disperazione. Intensi rumori meccanici allertarono il gruppo delle fuggitive; un cupo suono di passi pesanti si faceva vicino e il crollo della struttura pareva imminente. Alcuni colpi di tosse nati dall’ecatombe di detriti causarono un improvviso silenzio.
Lala alzò il capo: lance di luce attraversavano la finestra del bagno e il volto di Florence, irradiato da un alone surreale, le ricordò la raffigurazione di un angelo vista su un vecchio libro del padre; rasserenata, avrebbe potuto contemplare la madre per il resto della giornata, ma qualcosa si accostò ai vetri e il buio tornò sovrano.
«Mammina...» La frase di Lala venne soffocata dalla mano di Florence; la donna sentiva il proprio cuore pulsarle in testa.
Un sibilo metallico punse le orecchie delle tre, mentre un soffio di vento attraversava la stanza.
L’abbraccio della madre sulle due figlie si intensificò allo spasmo e perse ogni forza subito dopo, quando una parte del bagno pubblico venne spazzata via, tagliata come il burro.
Lala e Anita furono accecate dal Sole del mattino; una pioggia calda scaldò loro le guance e la curiosità le spinse a riaprire gli occhi: il corpo di Florence aveva perso la testa e, dal collo, sprizzava a fiotti una fontana di sangue; la donna giaceva in ginocchio, sostenuta ancora dalle figlie urlanti di terrore. Raffiche di fucili d’assalto sovrastarono l’agonia generata da quell’orrore famigliare e un’orda di proiettili cozzò contro la minaccia metallica; alcuni soldati kenioti irruppero, impavidi, nel rudere.
Il tempo era tiranno e negava al cuore il pianto della vittima innocente; Anita venne afferrata al braccio, Lala per il cappuccio della blusa, sollevata come un gattino impotente: aggrappate al corpo della madre, a entrambe parve di sentirsi strappare via le braccia; avrebbero voluto restare lì per sempre. Non erano abbastanza forti.
«Da quella parte!» ordinò uno del commando.
Lungo la via di fuga, Anita riuscì a voltarsi, incapace di accettare l’abbandono di chi l’aveva messa al mondo e cresciuta con immenso amore; un fato magnanimo le risparmiò ulteriori sofferenze: al posto del cadavere, per lei, l’ultima immagine impressa di quel tragico ricordo sarebbe stata una gigantesca figura umanoide mimetizzata tra la luce del Sole; qualcosa sembrò staccarsi dalla misteriosa creatura e dirigersi verso il cielo.
«Guarda avanti!» le intimò il soldato, mentre faceva scendere la propria morsa dal braccio alla mano della bambina. Anita ubbidì e cercò di portare l’attenzione sulla sorella, ma un’esplosione provocò un vento infuocato che la investì in pieno; volò, spinta lontano, e, quando cadde, la terra le lacerò gli abiti e le grattò via la carne dalla schiena; il dolore le impediva di perdere i sensi e le orecchie fischiavano d’un sibilo assordante; d’istinto, serrò la presa alla mano del soldato e ne cercò l’aiuto. Tuttavia, tirato a sé il proprio braccio, Anita si accorse di non aver compiuto alcuno sforzo; lasciò scivolare lo sguardo lungo l’arto: il polso dell’altro era stato tagliato di netto; qualcosa si era portato via il militare.
Mentre lei sveniva, credette di sentirsi chiamare dalla sorella.
Lala trattenne il respiro, dispersa in un limbo in cui i pensieri dormivano, e osservò il suo soccorritore dirigersi verso Anita; un furgone corazzato si frappose tra di loro con una brusca frenata e lei, trasalita, ne notò il conducente dalla pelle bianca; sulla portiera del mezzo era impressa una sagoma umana che, pugni serrati, incrociava le braccia al petto.
L’idea di essere rimasta sola al mondo attanagliò lo spirito di Lala; la consapevolezza di un futuro impossibile nacque nella realizzazione di quella che era diventata, in una sola notte, la città. Per alcuni secondi, la piccola credette di vedere ancora il rigoglioso parco dai laghi d’acqua potabile, gli alberi appartenenti alle più antiche tipologie nati dalla coltivazione biologica, le giostre dove andava a giocare insieme a famiglia e amici nei giorni tranquilli, le infinite torri cittadine che brillavano al cielo con le loro difese inespugnabili e i caccia sfrecciare, fieri, tra nuvole dalla forma dei sogni. La realtà le si presentò cruenta sul miraggio di un mondo perduto: Nairobi era diventata uno scheletro dalla pelle bruciata in cui i venti monsonici soffiavano via le anime dei morti.
I soldati stranieri, scesi dal mezzo, le parlavano in esperanto, la lingua internazionale che avrebbe dovuto iniziare a studiare nell’anno seguente. Non capiva nulla. Lala si limitò a farsi prendere in braccio, abbandonata a se stessa.
          
L'AUTORE
Ivan Bruno è nato a Sanremo il 6 gennaio 1976. Mostra sin dall’infanzia uno spiccato senso artistico nel disegno e inizia a creare mondi fantastici nel suo immaginario quotidiano. Devono passare parecchi anni prima che gli venga concessa l’occasione di esprimere la propria creatività al pubblico: nel 2014 pubblica la sua prima opera, Mondi Perduti, frutto di un lavoro durato due anni. Due anni spesi a rincorrere personaggi e a tessere trame intricate che lo hanno condotto a raccogliere dieci dei suoi migliori racconti in un unico libro. Deciso ad andare avanti e spinto dalla voglia di scrivere, si impegna a costruire il suo primo romanzo e nel 2015 pubblica La Guerra del Metallo Freddo, lanciando così il suo primo grande messaggio ai lettori
italiani. Ivan è un autodidatta e ha optato per il self publishing: lavora con Amazon e Lulu, dove è libero di pubblicare in formato cartaceo e digitale senza che una casa editrice gli imponga le argomentazioni o effettui tagli drastici ai suoi testi. Grazie a questa scelta ne giovano la qualità e l’originalità delle storie, guidate da uno stile lontano dalla narrativa comune a cui si è abituati da qualche decennio.