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Specie mortale di Roger Donaldson

Un esperimento che unisce DNA umano e alieno dà vita ad una creatura dall'incredibile appetito sessuale e con l'unico scopo di accoppiarsi e riprodursi.
Dotata di una bellezza e un corpo da urlo l'aliena comincerà a cercare il maschio adatto lasciando dietro di sé una scia impressionante di morti.
Una squadra governativa si mette alla sua ricerca per cercare di fermarla prima che l'aliena riesca nel suo intento.
Combinazione riuscita tra fantascienza e horror per l'undicesimo film di Roger Donaldson solido mestierante che si avvale anche del contributo artistico di H.R.Giger per questa pellicola che sfrutta idee poco originali (la creatura aliena ricorda non poco l'Alien di Ridley Scott) e si muove tra ambizioni filosofico-antropologiche e dosi misurate di suspence e azione che conferiscono ritmo ed equilibrio a questo Specie mortale (Species, 1995) che riesce agevolmente a coinvolgere lo spettatore supportato comunque da uno script lineare e senza fronzoli di sorta ma che segue tutti i stereotipi del genere. Merito di ciò anche l'ottimo cast scelto per questo incalzante fanta-horror e su tutti Ben Kingsley nella parte di un ricercatore instabile; il solito Michael Madsen in quella di un killer; Forest Whitaker nell'insolito ruolo di un telepate e Natasha Henstridge in quello della famelica aliena dotata di una sensualità tale che sprizza da tutti i pori.
Gli effetti speciali sia in digitale che in lattice però non sono così ben amalgamati e spesso risultano discontinui soprattutto quelli in CGI troppo evidenti.
Species ottiene un buon successo di pubblico dando così vita a ben quattro sequel diretti da altrettanti registi.
   
a cura di Andrea Frascari
   

Il ponte delle spie di Steven Spielberg

L'avvocato James Donovan viene incaricato di recarsi a Berlino per trattare lo scambio di una spia sovietica arrestata dalla Cia, che ha difeso in tribunale, con un pilota americano caduto in territorio russo.
Nel dizionario, tra i vari significati del termine convenzionale troviamo: “Che segue passivamente una consuetudine, una maniera comunemente accettata, quindi artificioso, privo di originalità e naturalezza”. Se una tale definizione viene applicata a un'opera artistica, subito si penserà a un giudizio negativo. Ma non è necessariamente così. L'essere convenzionale può diventare un pregio quando tutti s'affannano a cercare un modo per risultare anticonvenzionali. E, in ogni caso, non ci sogneremmo mai di esprimere un qualsivoglia pensiero critico nei confronti di un cineasta come Steven Spielberg, attivo da più di quarant'anni, giunto al ventottesimo film (e mezzo) dietro la macchina da presa (senza contare quelli realizzati per la televisione e le numerose produzioni): siamo dell'idea che di fronte a una carriera tanto lunga e articolata, e di questo livello, si debba sospendere ogni eventuale giudizio qualitativo e limitarsi allo studio ponderato e approfondito di un così vasto materiale. Oltretutto siamo in presenza di uno dei pochi registi, è giusto sottolinearlo, nati artisticamente negli anni Settanta che riesca ancora a girare con una certa continuità (insieme a Eastwood, Woody Allen, il rinato Malick e pochi altri). Colpisce a tal proposito il fatto che Il ponte delle spie sia uscito in Italia in contemporanea con Star Wars - Il risveglio della forza, prodotto da George Lucas (da sempre amico e in alcuni casi partner produttivo di Spielberg), il quale invece sembra sempre più intenzionato a defilarsi. Tornando a monte, ciò che è convenzionale non è per forza di cose negativo. Ma, una volta fatte le debite distinzioni (e, ribadiamo, il fondamentale confronto con tutto ciò che è altrettanto artificialmente “anticonvenzionale”), va oggettivamente riconosciuto. Per certo Spielberg, e per Il ponte delle spie in particolare, viene in mente una frase di Godard, che si riferiva al cinema americano in generale (e probabilmente proprio a Spielberg in particolare): “Laggiù non si vola alto, ma si vola bene”. Perché è evidente che se usi gli effetti digitali per rendere più realistici (più suadenti?) gli ambienti, i costumi, i volti di un'epoca passata (quella che hai scelto di raccontare preferendola al presente, che sarebbe stato realistico di per sé), non stai volando alto (si confronti l'uso che degli effetti visivi fa, tanto per dire, Sokurov in Francofonia). Così come se scegli, nel 2015, di inquadrare qualcuno che cammina in una pozzanghera per aprire una scena o se usi la metafora di una palizzata scavalcata da un gruppo di ragazzi (simbolo di libertà nei rassicuranti States?), osservata dal protagonista che ricorda dei berlinesi mitragliati mentre cercavano di oltrepassare il Muro. Di questo e altro si può trovare traccia in Il ponte delle spie (militari sovietici tratteggiati come i nazisti di Schindler's List, sguardi accusatori di cittadini americani anticomunisti, cene familiari, relazioni sentimentali nella città divisa). La cosa non stupisce affatto. Spielberg ha sempre lavorato su una base narrativa convenzionale (in alcuni casi l'ha creata proprio lui nella prima metà - la migliore - della carriera), su simbologie elementari, su dicotomie del tutto prive di possibili interpretazioni ambigue, su meccanismi ripetuti, sull'iperrealismo della messinscena. Sin dall'inizio, sin da Duel. E in vari casi il lavoro su stereotipi, figure metalinguistiche, accumulazioni, eccetera, ha finito per dare vita a capolavori di raffinata intelligenza come Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo e I predatori dell'arca perduta. Nulla di male quindi se ora vive di rendita, lavorando di fino su ciò che alla maggior parte dei comuni (registi) mortali sembrerebbe abusato. Insomma, in conclusione: Spielberg non vola alto, ma vola bene.
     
a cura di Roberto Frini
    

Tall Man, addio signore delle tenebre

Muore una delle icone più rappresentative del cinema horror, Angus Scrimm alias Tall Man. Eroe sovrannaturale del film Fantasmi, del 1979, di Don Coscarelli, pellicola che diventò culto tra gli amanti del genere. Dalla prima, nel corso di trent'anni, ne susseguono altre quattro, sempre avente come protagonista questo super cattivo indimenticabile, Tall Man per l'appunto. Creato ancor prima di Freddy Krueger (Nightmare è del 1984) e di Pinhead (Hellraiser è dell' '87) Tall Man conserva in sé gli elementi tipici del terribile cattivo anni '80. Implacabile, sanguinario ma anche 'sovrannaturalmente' potente. Sembra proprio che il personaggio in sé catturi gli elementi migliori di quegli horror che si susseguiranno. Di Freddy anticipa l'ironia, la 'scanzonaggine', anche una sorta di simpatia innata, di Pinhead prende il lato più becero, più crudele, infatti come il Cubo di LeMerchant può aprire varchi che possono condurre in mondi diabolici, Tall Man ha lo stesso potere. Entrare in mondi lontani e manipolare le anime a suo piacimento, trasformarle e plasmarle per l'eternità. Il personaggio è certo meno gotico del Cenobita però anch'esso è in grado di interagire fra più realtà, dando un tocco di psichedelia a tratti new wave e acid rock che, anche se rivedendola adesso sa di vintage, non perde mai di efficacia. Un essere che trasmuta i malcapitati in una sorta di ewok infernali (giusto per citare i simpatici orsetti di Star Wars), schiavi nani travestiti da monaci che hanno il compito di fare nuove vittime. I film di Don Coscarelli sono un trip talvolta scanzonato, talvolta angosciante in cui lo spettatore è attratto, soggiogato e divertito. E proprio come gli eroi intramontabili tra cui Jason, Leather Face, Michael Myers, anche Tall Man ha catturato l'attenzione dei fans, ponendolo allo stesso livello di quei beniamini che da sempre squartano orde di teenagers coi brufoli. Ma se i super cattivi appena citati sono gli emblemi dello slasher e dello splatter più puro, anche Scrimm a suo modo rappresenta i simboli dell'efferatezza più sorprendente. Non asce e motosega ma armi inedite, inarrivabili. Micro oggetti volanti, palle diaboliche pilotate con il pensiero che si conficcano nella fronte dei malcapitati. Un'idea geniale che, assieme al carisma di Scrimm e alla sua interpretazione, fanno la fortuna di Phantasm e dei suoi sequel. Un personaggio come Angus Scrimm mancherà sicuramente nel panorama cinematografico ma le sue pellicole resteranno per sempre. Probabilmente faranno dei remake che però non eguaglieranno in spessore. Basti pensare che tutti quei mostri degli anni '80 erano mascherati, travisati, resi irriconoscibili, mentre il volto di Angus invece era pulito, privo di trucchi, 'nature'. Purtroppo non tornerà mai più. Una faccia fantastica, plastica, inimitabile, un incrocio tra Christopher Lee e un agghiacciante folletto.
Ci mancherai Tall Man.
      
a cura di Francesco Basso
    

Pensiero del giorno - David Bowie 11/01/2016

Noi siamo artefici della vita, ma è anche vero che la vita stessa è artefice di noi stessi. (David Bowie)
   
   

Knock Knock vs. Death Game

Giusto tornare brevemente su Knock Knock. Non solo perché sembra confermare a nostro parere i progressi di Eli Roth, regista che oltretutto dimostra una certa coerenza nel continuare il proprio percorso entro i limiti (per il momento ben circoscritti) di un cinema di genere a costo relativamente ridotto (anche se il prossimo progetto annunciato dovrebbe essere il kolossal Meg, con protagonista un gigantesco squalo preistorico). Il secondo motivo è che la realizzazione di Knock Knock permette di scoprire (o riscoprire, per chi ha già avuto occasione di vederlo) un piccolo thriller degli anni Settanta mai uscito in Italia, Death Game (conosciuto anche col titolo alternativo The Seducers). A dirigerlo nel 1977 fu un regista e produttore dalla carriera breve, Peter S. Traynor (un altro film nello stesso anno, Evil Town, in cui risulta accreditato come co-regista il più celebre Curtis Hanson, e poco altro). Il suo nome compare anche nei titoli di testa di Knock Knock, sempre in veste di produttore (esecutivo, tra l'altro), insieme a quelli di Larry Spiegel, Colleen Camp e Sondra Locke (rispettivamente co-produttore e protagoniste del film del 1977). Ma nell'elenco dei produttori figurano praticamente tutti, compresi Keanu Reeves e Roth, quindi la cosa non significa granché. Curioso il fatto che non compaiano invece i nomi dei due sceneggiatori di Death Game, Anthony Overman e Michael Ronald Ross, nonostante Knock Knock sia costruito sulla falsariga dell'originale. Sono entrambi una sorta di variazione sul tema rape & ravenge, sottogenere che negli anni Settanta era piuttosto praticato, così come andavano per la maggiore un po' ovunque i film incentrati sul rapporto tra un uomo maturo e un'adolescente. Qua tuttavia sono le donne che aggrediscono l'uomo. Non a caso abbiamo scritto “variazione sul tema”: manca anche qualcos'altro, che non riveliamo.
Alcune differenze tra l'originale e il remake però sono sostanziali. L'inizio di Knock Knock è più elaborato e presenta un maggior numero di personaggi (Evan, il protagonista, e poi moglie, due bambini, ai quali si aggiunge l'amico e collaboratore della donna), insomma un clima da famiglia di artisti benestanti e felici (in Death Game invece ci sono solo marito e moglie). Presenta inoltre una serie di anticipazioni (ammiccamenti) la cui importanza si comprende solo nella parte finale. L'amico, ad esempio, si riferisce scherzosamente a una “festa segreta” da tenersi alla sera e anche i bambini, prima di partire, ricordano al padre di “mettere le foto della festa su Instagram”. Ecco, la presenza di computer, cellulari, ipad (con tanto di like su Facebook) rappresenta ovviamente un'altra differenza con Death Game. E anche qui, come in The Green Inferno, Eli Roth si diverte a distruggere dei prodotti high-tech (significherà qualcosa?). Ulteriori differenze riguardano il personaggio principale: in Death Game è un uomo d'affari con un braccio ingessato che resta solo il giorno del suo compleanno, in Knock Knock un architetto e il giorno è la festa del papà (che permette di elaborare un sottotesto relativo alla differenza di età tra Evan e le ragazze che aggiunge un tocco di perfidia al plot). I due film divergono inoltre in alcuni sviluppi narrativi, ma ci fermiamo qui per non incappare in ciò che oggi chiamano spoiler (una volta nel caso dei gialli si chiedeva di non raccontare il finale). Infine, va sottolineato che il modo di girare è completamente diverso. Traynor realizza un film allucinato, psichedelico, fotograficamente scuro negli interni, con un montaggio nervoso e maggiore attenzione ai dettagli. E una canzoncina sui titoli ai limiti del kitsch ma tutt'altro che malvagia. Roth è più luminoso, disinibito (anche nell'abbigliamento delle ragazze), per certi versi linguisticamente corrivo, ma qui sta il pregio maggiore di Knock Knock. Percorso da una vibrazione disincantata (vedi le scritte “l'arte non esiste” e “non è stato un sogno”). Consapevole, forse, di doversi confrontare (da film orgogliosamente di serie b) con tempi cinematografi ci (e non solo) di snervante ottusità.
      
a cura di Roberto Frini