A Walter Hill, leggendo lo script di Broken Trail, deve essere piaciuta l’idea di raccontare una storia per certi versi simile a quella di uno dei suoi film preferiti, Il fiume rosso, di Howard Hawks. Ricordiamo alcune sue considerazioni a tal proposito: “Il fiume rosso, un grande film. Ma per me non un tipico film di Hawks. Secondo l’impropria dizione hollywoodiana, è un’epopea, che non era uno stile nel quale lui si trovava a suo agio. Il fatto che per me sia un film eccellente è un omaggio autentico alle sue capacità tecniche e formali.” (Dal documentario: Howard Hawks, American Artist). Quanto siano condivisibili le parole del regista, non sta a noi dirlo e comunque non in questa sede (riflettiamo solo sul fatto che Hawks ha diretto cinque film western e due, Il fiume rosso e Il grande cielo, hanno una struttura piuttosto simile). Il punto è un altro. Nemmeno Broken Trail (che come progetto originale aveva un altro titolo: Daughters of Joy), inizialmente, deve essere sembrata a Hill un’operazione nella quale sentirsi a proprio agio. Certo, proponeva molti stilemi narrativi tipici dei suoi film: il viaggio, l’avventura, gli uomini duri e le situazioni pericolose, l’amicizia virile eccetera. Però prevedeva anche un buon numero di personaggi femminili, molti più del solito. Il che avrebbe significato più sentimenti, più parole (come recita un proverbio cinese citato nel film “una moglie cieca e un marito sordo sono un’ottima coppia”). Le donne possono creare dei problemi, come diceva uno dei Guerrieri, ed è tradizionalmente così nei film “virili”. Li possono creare anche a un regista, se deve dirigere un western, e se oltretutto questo western è una miniserie televisiva di tre ore. Difficile, avrà pensato Hill, concentrare l’attenzione su “ciò che accade”, realizzare un film compatto, teso, evitando psicologismi e discorsi “regressivi”. Gli sarà comunque sembrata una sfida, proprio come le sfide che pone generalmente ai suoi protagonisti.
Se riandiamo al discorso funebre che Print deve ripetere più di una volta durante la vicenda (“Siamo tutti di passaggio in questo mondo. Dalle dolci erbe nuove fino al mattatoio, dalla nascita fino alla morte, viaggiamo tra due eternità.”) vediamo che questo scandire il film con un riferimento a un viaggio metaforico (la vita) sembra quasi andare nella direzione sempre voluta da Walter Hill, cioè un concentrare l’attenzione sul presente, sul “qui e ora”, staccandolo dal passato e dal futuro. Che ovviamente non significa obliare la Storia con la s maiuscola o la propria storia personale (nel corso del film abbiamo dei riferimenti al passato, tramite il racconto dei personaggi stessi, e persino su ciò che accadrà) Tutt’altro. Come ha scritto Alberto Crespi, il cinema di Hill è “fondamentalmente una ricognizione/rievocazione del passato” (A. Crespi, La fiaba del rock, in Il cinema di Walter Hill). E il fatto che il protagonista di Broken Trail sia un anziano cowboy chiamato Print (come dire, un tipo “vecchio stampo”, uno che sostiene che la ricchezza non si misura col denaro), la dice lunga su quanto Hill tenga sempre presente la matrice, le radici, la memoria. Seguendo l’insegnamento di Montaigne (come Welles, due film del quale – Quarto Potere e L’orgoglio degli Amberson - furono i primi a lasciare il segno quand’era ragazzino) un giorno disse: “Preferisco i film che fanno ricordare alla gente cose dimenticate, piuttosto che quelli che tentano di scoprire qualcosa di nuovo” (dalle note di copertina del disco Streets on Fire, citate in A. Crespi eccetera). Ma naturalmente il plot di Broken Train non è incentrato solo sui personaggi di Print e di suo nipote Tom Harte (a proposito di memoria, il cognome è un chiaro omaggio a uno dei più importanti scrittori di racconti western, Francis Bret Harte).
Hill, per rendere meno stridente una vicenda che non riesce a risultare del tutto plausibile, cerca in maniera quasi sistematica, e sin troppo evidente, di portare una buona dose di quotidianità, ai limiti del prosaico (tutta la parte relativa all’uso della carta igienica, la cucitura del buco nella camicia, i risvegli assonnati, i fastidi di una vita all’aria aperta non sempre facile: “È una bella vita, quando non piove e non nevica”, dice ad un certo punto Print, eccetera), un realismo oseremmo dire minimalista e tutt’altro che mitico, nella retorica western. Per inserire qualcosa di nuovo, inedito, e vivificare il genere, nonché per tentare di evitare le trappole dell’artificio e di ogni riferimento metalinguistico. Sia chiaro, il western realista non nasce certo con Broken Trail, ma una certa attenzione ai dettagli che rendano il più possibile umani i personaggi ha sempre fatto parte del bagaglio espressivo del regista. In questo modo Hill probabilmente riesce a tirare fuori il meglio da una sceneggiatura e soprattutto da una produzione che in altre mani si sarebbero sciolte in un buonismo insopportabile; però non riesce a trovare l’equilibrio e non si decide tra il realizzare un tv-movie fiabesco e irreale e un vero western con robuste dosi di violenza. Probabilmente la soluzione migliore sarebbe stata quella di dare al film un taglio da commedia farsesca (viene in mente un titolo come Scusi, dov’è il West?, diretto nel 1979 da Robert Aldrich, nel quale il protagonista era un rabbino, quindi un personaggio “estraneo” all’iconografia western), che certo però non sarebbe stata nelle corde di Hill e che comunque, specie in una produzione televisiva, non avrebbe necessariamente sortito miglior risultato. Si ha l’impressione che vi sia poca amalgama tra la vicenda dei cowboy che devono portare una mandria e quella delle ragazze cinesi vendute come schiave e protette dai protagonisti. È dura credere che dei rudi cowboy avrebbero potuto realmente fare ciò che fanno Print e Tom, anche se lo sceneggiatore sostiene che la storia è un insieme di fatti realmente accaduti. E tornano in mente le parole di Max Evans, scrittore di romanzi western moderni, pronunciate a proposito del film di Richard Brooks I professionisti (anche in quel caso un gruppo di mercenari si prendeva a cuore le sorti di una giovane donna) e riportate da Sam Peckinpah: “Questo è puro Walt Disney!”. Anche se il copione giustifica in parte l’altruismo di Tom, all’inizio poco propenso a sobbarcarsi le ragazze, col fatto che dopo un certo periodo di tempo tra lui e la maggiore delle giovani nasce un sentimento d’amore. Quanto a Print, si può intuire in lui un trasporto quasi paterno nei confronti delle protette, fino a quando non si scopre che in effetti ha perso una figlia, ancora bambina, per un incidente a cavallo di cui è responsabile.
Inoltre, ad un certo punto, quando Print e Tom hanno deciso di lasciare le ragazze in un posto sicuro, due balordi cercano di violentarle. Escamotage studiato da Hill e il suo sceneggiatore proprio per “convincere” i personaggi che le ragazze non possono essere abbandonate. È pur vero che il concetto di altruismo, plausibile o meno, muove molti personaggi hilliani e, comunque, il protagonista onesto e leale è alla base di tanto cinema western; abbiamo appena citato I professionisti, ma che dire di Cavalcarono insieme di Ford e El Dorado di Hawks? Hill si è formato idealmente alla scuola di quei registi che cercavano di dare una connotazione morale ai loro film, e lo fa anche quando l’assunto della pellicola sembra essere di totale pessimismo nei confronti della natura umana (sentimento che Hill ha ammesso di provare spesso). In fin dei conti anche un “cattivo” come King James, nel microcosmo da giungla urbana di Trespass fa di tutto per salvare Lucky, che forse non è nemmeno suo fratello. Anche questo contribuisce a rendere il suo cinema distante, finanche antico e poco alla moda nel panorama contemporaneo. Seguendo le gesta di Prentice, soprattutto, vengono in mente le parole di Ford: “Amo l’aria aperta, i grandi spazi, le montagne, i deserti ... Il sesso, l’oscenità, la degenerazione sono cose che non mi interessano. Mi piace assaporare il profumo onesto dell’aria aperta.” Frasi che Hill magari potrebbe sottoscrivere, pur tenendo presente la distanza generazionale. Non a caso, Print e soci non approfittano sessualmente delle ragazze e, se è per questo, non s’intrattengono con nessuna donna, nemmeno a pagamento, cosa che farebbe inorridire Peckinpah e che può in effetti apparire poco realistica. Potrebbe essere una scelta dovuta alla destinazione televisiva, ma pensiamo che sia invece coerente con il motivo che può aver spinto Hill a realizzare Broken Trail. Riannodare i fili del suo genere preferito, anche a costo di sembrare anacronistico e di essere accusato di privilegiare, fordianamente, il mito alla storia, l’elegia alla dura realtà. Che ci sia riuscito solo in parte, è indubbio, ma che quel poco di buono (e anche il resto, se è per questo) che c’è in Broken Trail sia nato dal tentativo di recuperare malinconicamente, senza esibizionismi e senza “fotocopiare” cinema, un brandello d’insegnamento morale che nei casi migliori il western riusciva a dare, lo è altrettanto.
a cura di Roberto Frini