Vita del poeta italiano Giacomo Leopardi, dalla sua giovinezza
nella casa di Recanati - sotto l’ossessiva protezione del padre Conte Monaldo,
della gelida presenza dell’austera madre Adelaide, ma anche con il sincero affetto di due dei suoi numerosi
fratelli, Carlo e Paolina - fino alle peregrinazioni in giro per l’Italia
assieme all'amico Antonio Ranieri, che lo portarono a Firenze, a Roma e in
seguito a Napoli.
Con Il giovane
favoloso, Martone mette in scena uno dei biopic più complessi e delicati che il cinema italiano ricordi. Una
responsabilità enorme che però il regista affronta con una maturità e
un’audacia che fanno dimenticare le piccole - seppur fastidiose - lacune che si
palesano soprattutto nella seconda parte della pellicola, quando le linee guida
della sceneggiatura e la coerenza nella costruzione del personaggio sembrano qua
e là venire meno. Le migliori ed
emblematiche qualità del film trovano infatti il loro apice soprattutto nella
parentesi dedicata alla giovinezza del Leopardi, nella prima metà del film, che
vede il trionfo, nella tecnica registica, di una poetica e di un’estetica che
non credo sia esagerato definire di stampo espressionista. Martone riesce infatti
nell’impresa di non raccontare pedissequamente la vita di Leopardi scandita
dalle sue opere, ma piuttosto la genesi e l’evoluzione della sua immanente sofferenza
attraverso la rappresentazione visiva di alcuni suoi scritti più famosi – di
particolare effetto la scena dedicata a L’infinito
–, evitando in maniera magistrale il fortissimo rischio di trasformare il film in
una sorta di docu-fiction in costume
che soddisfacesse in gran parte le aspettative degli amanti del Leopardi in
versi. Il film di Martone diventa un vero e proprio affresco, una garbata
eppure incisiva stesura di colore scuro applicata su una tela pulita ma grezza,
che incarna appieno l’acuirsi dell’incompatibilità profonda tra il poeta e le
cose di questo mondo, in un vortice che trascina inesorabilmente verso l’abisso
il protagonista e chi gli sta attorno. La vita di Leopardi diventa il racconto
di una costrizione claustrofobica - sia fisica che psicologica – che traspare
dagli occhi dell’ottimo Germano e che il regista non manca di descrivere con la
più evidente caratteristica che contraddistingue la sua personale interpretazione
del taglio delle inquadrature: il vero e proprio leitmotiv estetico - di stampo quasi smaccatamente wellsiano - che
accompagna lo spettatore durante tutta la visione, si traduce nelle opprimenti
inquadrature che ingabbiano il protagonista anche quando questi si muove entro
spazi piuttosto ampi. Una caratteristica che si esplicita soprattutto in due
momenti: il primo, all’interno della casa di Recanati, dove prevalgono le
inquadrature dal basso che in qualche modo esasperano l’altezza di Germano per
poi soffocarla subito dopo a causa dell’inevitabile presenza dei soffitti ogni
volta più vicini e incombenti sopra la sua testa. Il secondo, gli esterni di
Napoli, quando invece l’handicap fisico del poeta viene sottolineato dalle
impietose inquadrature dall’alto che lo schiacciano ancora di più verso il
terreno e che sembrano accanirsi una volta di più sulla schiena rovinata e piegata
dalle deformità ossee – emblematica in tal senso la sequenza che vede il
protagonista dialogare con un mendicante durante l’epidemia di colera a Napoli:
i faticosi spostamenti di Germano vengono qui descritti da un’inquadratura
dall’alto con un’angolazione talmente acuta che della vastissima Piazza
Plebiscito nella quale si sta svolgendo l’azione si può solamente vedere il
terreno e quasi nulla del resto.
Una claustrofobica rappresentazione del reale senza vie di
fuga, in una magistrale traslazione del pensiero leopardiano in linguaggio cinematografico.
Le musiche di Sascha Ring (aka Apparat) cullano la vicenda
con una nenia dolce e allo stesso tempo tetra, immergendola in un’atmosfera
lugubre e crepuscolare. I brani sono del 2011 (contenuti nell’album The Devil’s Walk): una conferma del
fatto che Martone abbia operato un’accurata selezione musicale sondando terreni
tutt’altro che ovvi, al posto di appoggiarsi ad una colonna sonora di contorno
senza alcuna velleità. Anche in questo caso l’audacia è stata premiata.
Voto:
molto buono.
a cura di Giorgio Mazzola