Shadowzone di J. S. Cardone
Un ufficiale della Nasa si reca in una stazione base situata su una montagna per indagare su un caso di omicidio di un individuo coinvolto in un progetto segreto denominato appunto SHADOWZONE (Zone D'Ombra) i cui soggetti mediante uno stato ipnocomatoso vengono trasformati in "portali" che permettono di accedere a dimensioni parallele. E durante uno di questi esperimenti qualcosa non va per il verso giusto e da una di queste dimensioni accede nella realtà terrena un essere indefinito e multiforme, particolarmente ostile che si accanisce contro gli occupanti della stazione di ricerca.
Charles Band con la sua casa di produzione Full Moon produce alla fine degli anni ottanta questo Shadowzone (1988) con un budget talmente risicato che J. S. Cardone regista e sceneggiatore del film riesce comunque a trarne un prodotto sufficientemente apprezzabile e con una certa originalità.
Anche se sono evidenti i richiami sia ad Alien che a La cosa per le atmosfere cupe e minacciose, J. S. Cardone punta a rappresentare più un orrore suggerito che mostrato in tutta la sua virulenza, e riesce a destare nello spettatore curiosità anche per via di uno script che per quanto minimalista cerca davvero nuove vie con un racconto claustrofobico che offre spunti interessanti che però andavano maggiormente approfonditi. Ma il tutto, forse, è stato penalizzato dall'eccessiva fretta con cui è stata realizzata la pellicola: un esempio su tutti sono gli effetti speciali, assai modesti, realizzati tra l'altro da un esperto del settore come Mark Shostrom ma che di certo in questa risicata produzione miracoli non poteva fare.
Shadowzone rimane comunque un fanta-horror insolito che riesce nell'impresa non facile di coinvolgere lo spettatore mantenendo un suo rigore formale, senza cadere in sbavature azzardate di regia che si mantiene sempre su un livello medio, e che conta anche su un cast di attori volenterosi tra cui Louise Fletcher e James Hong validi caratteristi in questo tipo di produzioni.
a cura di Andrea Frascari
Pensiero del giorno - Jeff Daniels 15/02/2016
...No, non uccide Ray d'accordo, ma la violenza non ha mai risolto niente, quello che si da si riceve, te ne accorgerai prima o poi... (Jeff Daniels in Qualcosa di travolgente)
The Walk di Robert Zemeckis
1974. Il giovane funambolo francese Philippe Petit si reca a New York per mettere in pratica il suo sogno di camminare su un filo d'acciaio tra le Twin Towers.
Nel 1932 Borges scrisse, a proposito del film di Charlie Chaplin Luci della città: “La sua carenza di realtà è paragonabile soltanto alla sua carenza, anch'essa disperante, di irrealtà” (J. L. Borges, Film, in Discussione, Adelphi, 2002). Pensiero paradossale che induce a riflettere su quanto possano essere labili certe definizioni, specialmente di fronte a molto cinema contemporaneo, dal momento che ormai va per la maggiore l'abitudine di ispirarsi a vicende realmente accadute (ultimi esempi Il ponte delle spie di Spielberg e Revenant - Redivivo di Inarritu). Vicende che, però, non solo sono, in vari casi, più incredibili di qualsiasi storia inventata ma, spesso, vengono narrate con una verosimiglianza inversamente proporzionale alla veridicità dello spunto. Oppure la realizzazione risulta sin troppo meccanica nel voler apparire visionaria e fantasiosa. Inutile dire che è anche il caso di questo The Walk, film con cui Robert Zemeckis torna nelle sale tre anni dopo l'altrettanto incerto Flight. Sappiamo tutti che Zemeckis è stato uno dei registi di maggior rilievo esplosi negli anni Ottanta, capace di trovare in più di un'occasione un equilibrio miracoloso tra inventiva, spettacolarità e coerenza autoriale (con titoli come All'inseguimento della pietra verde e i capolavori Ritorno al futuro e Chi ha incastrato Roger Rabbit). Un pioniere, tra l'altro, nell'utilizzo di effetti speciali particolarmente sofisticati (ricordiamo anche La morte ti fa bella e Forrest Gump). The Walk, tratto dal libro “Toccare le nuvole fra le Twin Towers”, scritto dal protagonista Philippe Petit, funambolo francese, non ha riscosso un grande consenso (di pubblico, quantomeno) in patria. E anche da noi è passato quasi inosservato (però alcuni recensori, a onor del vero, l'hanno lodato), nonostante sia indubbiamente di fattura ben superiore a quella di titoli che hanno sbancato il botteghino. Acclarato questo, non si può evitare di mettere in evidenza l'approccio di Zemeckis alla storia che racconta. Partendo dall'idea del filo teso, che Philippe usa spesso per immaginare/anticipare quella che sarà poi la sua impresa. E che ricorda, nemmeno tanto alla lontana, l'usanza che avevano molti registi (l'avranno ancora?) di studiare l'inquadratura che volevano realizzare formando un rettangolo con le dita. Il rimandare a qualcos'altro, istituendo un parallelo (per nulla peregrino) tra l'impresa bigger than life del funambolo e un'ardua creazione artistica funziona fino a un certo punto e appare, comunque, pleonastica. Perché gli effetti visivi ultra-sofisticati (qui utilizzati al meglio, certo, e con ogni probabilità mai tanto necessari) rendono tale creazione, diciamolo, affatto impossibile. Se a tutto ciò aggiungiamo il tono trionfalistico del finale (il ritorno ormai evidente di una retorica tutta americana, vedi anche The Martian - Il sopravvissuto), con cui viene celebrata la “passeggiata” di Philippe e l'afflato fiabesco/poetico che a un certo punto prende la mano al regista, non si può fare a meno di pensare a cosa avrebbe potuto tirare fuori da questo soggetto la cupa sottigliezza metaforica di Werner Herzog. Purtroppo Zemeckis, mosso nella lunga sequenza clou dall'evidente intenzione di stupire a tutti i costi lo spettatore con la CG di cui può disporre (che poi ci si chiede se i film vengono girati perché ci sono gli effetti digitali o il contrario: sinergia ormai consueta), sembra uno di quei maghi che tra luci stroboscopiche e improbabili scenografie ammannisce al pubblico sempre gli stessi trucchi. Infatti The Walk, nella sua interezza, sortisce uno strano senso di déjà vu, che finisce per prevalere su quello del meraviglioso che vorrebbe evocare. Forse ci sarebbe voluto un gesto coraggioso da parte di Zemeckis, e cioè far precipitare Philippe: provocando uno shock nello spettatore, rompendo con l'interazione cinema-realtà e rifacendo, con un'altra prospettiva, una delle cadute nel vuoto più belle e vertiginose, quella di Eddie Valiant in Chi ha incastrato Roger Rabbit.
a cura di Roberto Frini
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