Speciale Osamu Tezuka

“Manga no Kamisama”. Ovvero, “il dio dei manga” appellativo dato al grande Osamu Tezuka per la sua grande spinta innovativa e per la quantità di materiale da lui pubblicato: circa 150.000 tavole e più di 400 volumi realizzati in carriera. Nato il 3 novembre del 1928 nei pressi di Osaka, esordisce giovanissimo nel 1946 con la sua prima serie, Machan no Nikkicho (Il diario di Machan). Il successo arriverà con Lost World (1948), Metropolis (1949) e Next World (1951). Nel 1950 crea una delle serie più celebri, Jungle Taitei (Kimba il leone bianco), a cui la Disney si ispirò (eufemismo) per Il re leone. Nel 1951 nasce il mitico Tetsuwan Atom (Astroboy) uno dei personaggi più popolari in Giappone, ancora oggi molto conosciuto. Nel 1954 è la volta di Ribon no Kishii (La principessa Zaffiro), considerato il primo shojo manga in assoluto. Tezuka non fu solo fumettista, ma anche animatore e regista di vari film animati e serie TV tratte dai suoi manga.
Il “dio dei manga” è un personaggio a dir poco mitico in Giappone. Con Tezuka molte cose sono iniziate: oltre ad esser stato uno degli autori più prolifici della storia è stato il pioniere di moltissimi di elementi che ancora oggi riconduciamo al fantastico mondo dell’animazione made in Japan: oltre alle scelte tecniche e linguistiche appena citate, vale la pena ricordare che fu il primo ad utilizzare i cosiddetti “occhioni” per i suoi personaggi, una cifra stilistica, anche questa, che perseguiterà la stragrande maggioranza delle produzioni nipponiche per almeno 40 anni.
Tezuka nasce nel 1928 e, nel 1946, proprio durante il periodo di immatricolazione all’università di medicina di Osaka, esordisce nel mondo dei manga con Ma-chan no Nikki. Già da questo suo primo lavoro si individuano le sue peculiarità più forti, come la ricerca del movimento mediante soluzioni grafiche innovative e la ricerca di una composizione delle vignette che potesse ricreare prospettive spaziali propriamente cinematografiche.
Nel 1950 è la volta di Jungle Taitei (il cui cartone animato arrivò qui in Italia con il nome di Kimba, il leone bianco) il cui soggetto fu chiaramente preso in seguito dalla Disney per la realizzazione de Il re leone del 1993.

Nel 1951 è la volta di Tetsuwan Atom, conosciuto in Italia e USA come Astroboy, considerato il primo vero “anime” della storia. Ovviamente non vuol dire che questo sia il primo cartone giapponese di sempre, ma piuttosto che ci troviamo di fronte alla prima serie TV con una trama in progressione, dalla prima puntata fino all’ultima. E’ dunque il primo esempio di prodotto seriale made in Japan, con tutte le implicazioni estetiche e linguistiche che ne conseguono. 
Uno dei tanti pareri comuni che hanno contraddistinto la dabbenaggine dell’opinione pubblica nostrana è sempre stato quello che affermava (e afferma) che i cartoni giapponesi fossero solo un insieme di brutti disegni volti unicamente a rappresentare violenza gratuita. Il motivo di tanto accanimento va forse ricercato nelle reazioni di fronte ad un prodotto che, sicuramente, all’epoca, si presentava quantomeno inusuale rispetto all’unica esperienza di visione, circoscritta al mondo disneyano, fin lì maturata da parte del pubblico. Le produzioni nipponiche, soprattutto dei primi anni, agli occhi di chi era abituato al tratto dei cartoni animati Disney appunto, si sono sempre contraddistinte per la semplicità del tratto, ma soprattutto per la caratteristica animazione a “scatti”, cioè poco fluida e alquanto fastidiosa agli occhi. Il motivo di tutto ciò va ricondotto al fatto che, soprattutto negli anime delle origini, si utilizzavano molti meno dei 12 disegni al secondo dei corrispettivi americani (per una serie di ragioni, tra cui quella fondamentale della crisi economica che stava investendo le case di produzione nel periodo post-bellico) e quindi, per poter rendere al meglio il movimento o generare le giuste “emozioni visive” (scusate il terrificante neologismo) si iniziò, in Giappone, a ricorrere a dei particolari stratagemmi, come ad esempio le immagini che venivano fatte roteare davanti alla cinepresa per simulare le cadute a vertigine, o gli stessi zoom che hanno segnato la politica del risparmio degli anni ‘70 anche nel cinema in carne ed ossa. Astroboy è dunque importante anche perché è stato il primo lavoro nel quale le limitazioni tecniche, dovute ai budget irrisori, sono diventate una vera e propria cifra stilistica utile a distinguere una produzione fino ad allora riconoscibile solo perchè circoscritta solamente ad una certa area geografica.

Nel 1954 esce Ribbon no Kishi (in Italia La principessa Zaffiro) un manga/anime molto famoso e importantissimo perché, di nuovo, segna un’altra avventura pionieristica del nostro Tezuka: questo lavoro è considerato il primo shojo manga della storia. Gli shojo manga sono, per dirla in modo semplice, tutti quei fumetti (e poi anime, ovviamente) pensati per le ragazze: in Giappone infatti vi sono varie categorie di manga: le principali due sono gli shonen manga (i manga per ragazzi, caratterizzati da un tratto semplice, minimale, a sostegno di trame generalmente basate su avventura e azione); e gli shojo manga, appunto, i manga per ragazze (dal tratto più delicato, sottile, con storie principalmente d’amore, romantiche); lo shojo ha poi generato un altro filone, quello degli shonen ai, manga con all’interno amori omosessuali, in cui gli uomini hanno fisici prettamente androgini e visi femminei (una lettura che è pensata per le ragazze, però).
Ricordiamo che Tezuka fu anche animatore dei cartoni animati tratti dai suoi fumetti e, di nuovo, qui inaugura la figura di “factotum” tipica delle produzioni nipponiche: i registi di anime giapponesi, infatti, non si limitano a dirigere, ma spesso sono anche gli animatori, gli sceneggiatori e soprattutto gli autori dello storyboard (famosi i casi di Miyazaki e Otomo).
Dopo aver fondato, nel 1961, la propria casa di produzione di anime, la Tezuka Osamu Production Dogabu che, nel 1963, prenderà il nome di Mushi Production (in giapponese mushi vuol dire insetto e Tezuka era solito firmare con il kanji relativo).

Tezuka curerà da vicino tutte le serie TV nate dai suoi manga, ricordiamo le più celebri:
Nel 1963 esce la prima serie TV trasmessa dalla TV giapponese: Tetsuwan Atom;
Nel 1965 è la volta di Jungle Taitei (ancora un primato: fu il primo anime della storia trasmesso a colori).

Nel 1973 la Mushi Production fallisce e, per la nuova casa di produzione Tezuka Production, realizza Fushigi na Melmo (giunta anche in Italia con il nome di I bon bon magici di Lilly).

Intanto anche la sua produzione di manga continuerà e, tra le opere principali, ricordiamo due controversi lavori: il primo è Buddha, una curiosa rivisitazione della storia di Siddharta pubblicata tra il 1972 e il 1983;
Il secondo è Adolf ni Tsugu (La storia dei tre Adolf), ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, pubblicato tra il 1983 e il 1985.


Tezuka morirà nel 1989 e poco prima della morte verrà sostenuta da alcuni giornali giapponesi la causa per una sua candidatura al Premio Nobel per la letteratura. A tal punto era arrivata la considerazione del maestro tra i suoi ammiratori e tra la gente comune.
Nel 1994, la città di Takarazuka, aprì un museo a lui dedicato e, nel 1997, il governo Giapponese gli ha dedicò una serie personale di francobolli (stessa cosa poi successa anche a Miyazaki qualche anno dopo).

Tezuka fu, dunque, un pioniere, ma soprattutto un papà per tutti gli autori che sarebbero venuti dopo perché è stato colui che ha posto le basi per la futura crescita dell’animazione giapponese: e si parla di struttura organizzativa, di definizione dei ruoli all’interno della macchina produttiva e in particolare di quello del regista, non più solo “direttore d’orchestra” (com’era stato Disney) ma personaggio coinvolto pienamente in tutte le fasi della realizzazione e della produzione.

Fonti: Wikipedia - Animenewsnetwork
    

Kyoko Mon Amour di Alessandro del Gaudio

Cinque tra i più grandi mangaka degli ultimi vent’anni (Rumiko Takahashi, Mitsuru Adachi, Izumi Matsumoto, Masakazu Katsura e Harold Sakuishi) e dieci tra le loro opere più significative (Maison  Ikkoku, One Pound Gospel, Touch, Rough, Kimagure Orange Road, Sesame Street, Present From Lemon, Video Girl Ai, I’’s, Beck – Mongolian Chop Squad).  Dieci manga che Alessandro Del Gaudio analizza in maniera lucida e con uno scopo preciso: individuare le caratteristiche principali che possano definire un vero e proprio “genere” all’interno della storia del fumetto giapponese recente, quello cioè dei manga giovanili (in seguito trasposti in celebri serie televisive); un accurato lavoro di distinzione (a partire dai macrogeneri sportivo, shojo e delle cosiddette “maghette”) finalizzato a riconoscere quei fumetti che possano raccontare la vita di tutti i giorni in un Giappone ai nostri occhi ancora lontano e apparentemente agli antipodi.
 
Quando non è di condanna, l’approccio agli anime e ai manga giapponesi, in questo paese, è essenzialmente legato ad un ricordo nostalgico, a piacevoli reminiscenze di pomeriggi passati davanti alla televisione ad ammirare i campi di calcio infiniti di Holly e Benji (Captain Tsubasa, 1981) o i salti di venti metri di pallavoliste come Mila Azuki in Mila e Shiro, due cuori nella pallavolo (Attacker You, 1984). Un approccio innocuo che nasconde però un invisibile rischio: la nostalgia di questi prodotti, infatti, è propria di persone appartenenti ad una precisa fascia d’età, quella, ad oggi, compresa tra i 25 e i 40 anni circa. E se tutto è legato solamente al ricordo infantile è ovvio che la conoscenza verso questo mondo è destinata ad affievolirsi sempre più fino a scomparire.
 
E’ per questo che, per chi, come me, si occupa di cinema d’animazione giapponese (e di manga), l’uscita di un libro come questo non può che rappresentare un lieto evento visto che la saggistica in lingua italiana relativa all’argomento è alquanto scarsa, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Kyoko Mon Amour rappresenta, insieme a pochi altri libri del genere, un utile appiglio per uno studio mirato, perché Alessandro Del Gaudio inscrive gli autori da lui analizzati in contesti cronologici precisi, fornendo delle griglie di lettura accurate e dei percorsi di analisi fondamentali per poter affrontare l’argomento in maniera scientifica.
 
Un approccio caratterizzato da premesse di studio rigorose che però l’autore, da buon scrittore e romanziere qual è, “aromatizza” qua e là con accenni alla propria esperienza personale. Un atteggiamento che non stride affatto e che anzi risulta quasi necessario: anche se di anime e manga si scrive ormai da almeno quindici anni, infatti, personalmente credo che, ancora oggi, chi affronta questo argomento da studioso sia da considerarsi un pioniere, una categoria di persone, questa, che, in qualsiasi campo deve essere mossa da una spinta, sì, razionale, ma anche emozionale.
Credo quindi che la personale fascinazione dell’autore nei confronti di Maison Ikkoku (di cui si parla all’inizio del libro) sia stata la magica scintilla da cui tutto è partito e che ha consentito la realizzazione di un complesso lavoro come questo.
 
Un libro per tutti: studiosi e non; esperti o semplici appassionati; lo stile di scrittura pacato e mai sopra le righe di Alessandro Del Gaudio sembra poter prendere per mano anche il lettore più titubante e restìo ad affrontare questo argomento in maniera “seria”.
 
Voto: Buono.

a cura di Giorgio Mazzola
     

Archivio GHoST (immagini) - Case nel tempo Vol.1

Case nel tempo Vol.1 (raccolta fotografica di case abbandonate) 
  • Numero di immagini: 342
  • Autore: Sergio Bissoli
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