Mentre sta rientrando a casa, il
vecchio Seligman (Stellan Skarsgård) si imbatte nel corpo di una donna
(Charlotte Gainsbourg) accasciata per terra in un vicolo. I suoi vestiti sono
sporchi e il viso presenta alcune ferite. Il vecchio decide quindi di portarla in
casa sua per darle i primi soccorsi. Al suo risveglio, Joe (così si chiama la
donna) decide di spiegare all’uomo come ha fatto a ritrovarsi in quel luogo e
in quello stato. Inizia così a raccontare la storia della sua vita,
dall’infanzia fino a quel momento. Un racconto diviso in otto capitoli, ognuno
con un titolo diverso, ma tutti con lo stesso comune denominatore legato
all’importanza cruciale del sesso nella vita di Joe. La donna, infatti, si
autodefinisce ninfomane, una condizione che in un modo o nell’altro ha segnato
con avvilente puntualità i picchi e le cadute nella sua esistenza.
Presentato in due parti, proiettate al cinema a qualche giorno di distanza l’una dall’altra, Nymphomaniac chiude la trilogia della depressione, comprendente anche Antichrist (2009) e Melancholia (2011). Lars von Trier torna alla tanto cara narrazione in capitoli, mettendo in scena forse uno dei suoi lavori più intensi e complessi di tutta la sua filmografia recente.
Di Nymphomaniac si è parlato moltissimo, troppo, soprattutto prima dell’uscita ufficiale. Al centro di tutto c’è stata l’occasione ghiottissima di sollevare un polverone mediatico, grazie a un titolo, a una locandina e a un trailer (anzi due: uno soft e uno hard, tanto per stuzzicare ancora di più l’immaginazione, creando altre aspettative) che non lasciavano granché all’interpretazione.
Ma poi è arrivato il film.
Inutile dire che il sesso è al
centro di tutto. D’altronde si sta parlando della vita di una ninfomane e delle
sue esperienze, dall’infanzia fino all’età di cinquant’anni. Nonostante tutto,
però, Von Trier riesce a menare lo spettatore per il naso, trascinandolo nei
meandri di quello che in realtà è un film altro.
Perché di sesso ce n’è tanto, ma non è lì che va cercato il fulcro dell’intero
lavoro. Il sesso in Nymphomaniac è un
mezzo, uno strumento attraverso cui il regista mette in scena una realtà
parallela. Troppo facile? Forse, ma non credo che sia stata una conclusione
tanto comune tra coloro i quali hanno assistito a questo glaciale spettacolo
della carne. Se paragonassimo questo film a un viaggio in macchina il sesso non
sarebbe l’autista, ma l’automobile.
Quindi è inutile perdere tempo e energie a farsi sconvolgere dalle scene esplicite (o a fare i puristi, condannando la solita, bigotta censura che costringe a il mercato a distribuire una versione ridotta del film – sono tra quelli, lo ammetto). Non c’entra nulla. Sarebbe come dare la colpa all’automobile per la scelta sbagliata della meta. Il sesso è il tramite, uno splendido e a tratti catartico tramite attraverso cui Von Trier riflette sulla società, l’arte e la condizione umana contemporanea. Una riflessione che parte da lontano, da quell’inconsistenza insopportabile che pervadeva l’atmosfera in Melancholia e che finalmente sembra aver trovato una dimensione, una forma definita in quest’ultimo lavoro, nascosta tra le pieghe di quella che a tanti sarà sembrata un’ evitabilissima fiera di genitali e bocche in movimento.
Quindi è inutile perdere tempo e energie a farsi sconvolgere dalle scene esplicite (o a fare i puristi, condannando la solita, bigotta censura che costringe a il mercato a distribuire una versione ridotta del film – sono tra quelli, lo ammetto). Non c’entra nulla. Sarebbe come dare la colpa all’automobile per la scelta sbagliata della meta. Il sesso è il tramite, uno splendido e a tratti catartico tramite attraverso cui Von Trier riflette sulla società, l’arte e la condizione umana contemporanea. Una riflessione che parte da lontano, da quell’inconsistenza insopportabile che pervadeva l’atmosfera in Melancholia e che finalmente sembra aver trovato una dimensione, una forma definita in quest’ultimo lavoro, nascosta tra le pieghe di quella che a tanti sarà sembrata un’ evitabilissima fiera di genitali e bocche in movimento.
Cos’è dunque Nymphomaniac? Un film sul sesso? Sì. Un film erotico? Assolutamente no. Nymphomaniac è l’antierotismo per eccellenza. Non aggiunge sensazioni, non mette carne al fuoco. Nymphomaniac non mette in scena un crescendo emotivo che trova il suo bollente culmine nell’esplosione dell’amplesso.
Nymphomaniac è soprattutto un film di sottrazioni, di privazioni. È
la storia di una fiamma che si spegne, senza speranza e senza un perché. Il
sesso è un animale vivo, è qualcosa che aspira, che mangia che si nutre delle
vite dei protagonisti e non lascia nulla dietro di sé. È una storia di sottrazioni perpetuata
attraverso i ripetuti atti sessuali che svuotano i protagonisti di ogni loro bene
spirituale e materiale: il sesso priva Joe di una vita normale e ben presto le
ruberà anche il piacere derivante dalla copula, ovvero l’unica ragione di
quella sua vita “anormale” fatta di schiavitù carnale (il volume 1 termina con
lei che in lacrime sussurra spaventata: “Non sento niente”). Il sesso priva
Jerome della sua dignità, costringendolo ad ammettere di non poter soddisfare
da solo Joe; e priva il vecchio Seligman della sua integrità, della sua figura
eterea, del suo ruolo di contatto tra un mondo infernale e un altro talmente
asettico da sembrare asfittico - ovvero la sua dimensione di uomo a-sessuale
che lo obbliga a trovare immagini sempre nuove e sempre molto “normali” da
poter associare ai racconti allucinanti di Joe e farli così diventare i titoli
dei capitoli.
Il sesso diventa quindi il togliere, l’estirpare, il soffocare.
Svuotamento, ma anche paura dello svuotamento, la stessa paura che prova il
passeggero del treno a cui una giovane Joe pratica una fellatio, un rapporto
orale che significa privarlo del seme
che deve essere preservato per la fecondazione dell’ovulo di sua moglie - un bambino che salvi il matrimonio, che tenga
a freno la paura di perdere tutto in una traduzione perfetta del non-amore. Ogni
capitolo è legato a un oggetto, a un concetto, a un’immagine, a un’idea che in
un modo o nell’altro si mostra come un divertente ossimoro rispetto alla
situazione che va a descrivere poco dopo, facendo tenere al film un curioso
andamento sinusoidale. I nomi dei capitoli rappresentano l’esigenza da parte di
Seligman di dare una forma a quello che Joe racconta, un’esigenza che nasce
perché ciò che racconta la donna diventa ai suoi occhi inconsistente,
incomprensibile, non incasellabile per un uomo come lui che non ha mai provato
alcun desiderio sessuale. Seligman ascolta la storia di una donna che,
sottrazione dopo sottrazione, perde la verginità, la madre, il padre, il
marito, il figlio, l’amante e infine il suo posto nel mondo. Lui si ritrova ad
essere l’unica cosa che le rimane, il suo unico amico. Eppure il sesso torna
per mietere un’altra vittima e continua la sua opera di privazione, sottraendo
stavolta al pubblico l’unico personaggio “normale” all’interno di quel turbine
di sensazioni estreme.
L’ultimo della lista è proprio Seligman, l’unico che
all’interno del film, incarnando una vera e propria accumulazione di nozioni enciclopediche, rappresentava un triste
eppure anche rassicurante tutto che
in qualche modo teneva testa allo svuotamento di ogni cosa da parte del sesso,
contrapponendosi alla sua furia devastatrice. Un tutto che però risulta vuoto,
inanimato, senza forza. Un accumulo senza significato che lo spinge a
stravolgere la sua esistenza, tentando di costringere Joe a fare sesso con lui
nel macabro e grottesco finale (vero punto debole della pellicola) e diventando
così suo malgrado il simbolo dell’ultima ed estrema sottrazione del film,
ovvero la privazione della vita altrui attraverso l’omicidio, da parte di Joe,
condannata a rimanere sola.
Von Trier firma un film bellissimo nella sua agghiacciante verosimiglianza, componendo una vera e propria sinfonia di valori al contrario (esemplare lo splendido Episodio 5: La scuola di Organo) che tende al minimo, all’essenzialità della questione. Il Dogma 95 applicato ai contenuti anziché al setting, forse per la prima volta nella sua carriera.
Voto: molto buono.
a cura di Giorgio Mazzola