Scomparso Leonard Nimoy

Aveva 83 anni, l'attore americano Leonard Nimoy, noto per avere interpretato il ruolo del vulcaniano Spock nella popolarissima serie televisiva Star Trek.
L'attore si è spento a casa sua nel quartiere di Bel Air; da tempo aveva una malattia cronica ai polmoni e due giorni fa era stato ricoverato in un ospedale di Los Angeles.
L’ultimo film in cui ha recitato è stato Into Darkness - Star Trek, uscito nel 2013 ma Nimoy divenne famoso soprattutto per aver interpretato Spock insieme al capitano Kirk (interpretato dall'attore William Shatner) nella prima serie originale di Star Trek andata in onda tra il 1966 e il 1969.
Questo il suo ultimo tweet: "La vita è come un giardino. I momenti perfetti capitano, ma non puoi trattenerli tranne che nella memoria. Lunga vita e prosperità".
   

Pensiero del giorno - Charles Baudelaire 27/02/2015

C'è solo un modo di dimenticare il tempo: impiegarlo. (Charles Baudelaire)

    

Perché il cinema è morto?

Parafrasando un grande filosofo francese, si può affermare che il cinema è nato, fiorito e appassito di vecchiaia, proprio come accade agli esseri umani? A parere di chi scrive, sì, il cinema è morto da tempo, e più o meno all’età in cui viene considerato naturale, fisiologico, morire. D’altronde, già quando vennero organizzate le prime proiezioni qualcuno, lungimirante, prevedeva che il cinema sarebbe durato poco. Come Brigitte Bardot piaceva a troppi, divenne popolare e radunò folle, soprattutto attrasse chi dal cinema voleva solo guadagnare. Questa è storia recente, la lunga battaglia tra arte e industria è stata vinta decisamente dall’industria, non poteva essere altrimenti, si può soltanto utopisticamente sognare un mondo dove dieci sale sono occupate da de Oliveira e Jacques Rivette e una, due al massimo, da “Il divo” e Baz Luhrmann. Ma, se volessimo, per scherzo (si fa per dire, l’argomento è triste e serio), immaginare quando, esattamente, o più o meno esattamente, sia avvenuto il trapasso, in quale periodo lo situeremmo? Sappiamo che molti ritenevano che l’avvento del sonoro avrebbe ucciso l’arte cinematografica, e in parte avevano ragione, ma se così fosse, cosa ne sarebbe di “Quarto potere”, “La donna che visse due volte”, “Ombre rosse”, “Dies Irae”, “La dolce vita”, “Fino all’ultimo respiro”, “L’invasione degli ultracorpi”, “La donna del ritratto”, “Europa ‘51”, “Hollywood party”, “Il bacio della pantera”, “Adolescenza torbida”, “Un re a New York”, “L’uomo dal braccio d’oro”, “L’occhio che uccide”, “Ladri di biciclette”, “Il fiume”, “Sette spose per sette fratelli”, “Sierra Charriba”, “Susanna”, “Accadde domani”, “King Kong”, “Orizzonte perduto”, “Sabrina”, “La grande città”, “Monica e il desiderio”, “La notte”, “Il ginocchio di Claire”, “Il diavolo, probabilmente”, eccetera, eccetera? Non dovremmo considerarle opere d’arte? E che dire, poi, del fatto che molti di questi film sono per di più a colori? Perché non ci dimentichiamo che all’avvento del colore altre grida si alzarono per difendere la purezza dell’immagine in bianco e nero. Giustissimo, il b/n di “Sfida infernale”, “L’orgoglio degli Amberson”, “Il grande dittatore”, “Scarface”, “Prigione”, “I figli della violenza”, “Notorius”, “Le ragazze di Piazza di Spagna”, “Otto e mezzo”, “Seduzione mortale”, “Divorzio all’italiana”, “Grisbì”, “Le catene della colpa”, “Repulsion”, “Guendalina”, “Tarantola”, “L’appartamento”, “Gertrud”, faceva provare la sensazione di assistere a un’esperienza artistica unica. Ma vogliamo sminuire il colore di “Intrigo internazionale”, “Un giorno a New York”, “Dr. Cyclops”, “Gli uomini preferiscono le bionde”, “Il bandito delle 11”, “Scarpette rosse”, “Carmen Jones”, “Il giro del mondo in ottanta giorni”, “Irma la dolce”, “Bella di giorno”, “Colazione da Tiffany”, “Il gattopardo”, “Giulietta degli spiriti”, “Dolci vizi al Foro”, “Gangster story”, “Fantasmi a Roma”,  “Chinatown”, “F for Fake”? Troppi capolavori sono stati realizzati dopo il sonoro e il colore per considerare queste chiamiamole innovazioni tecniche qualcosa di mortalmente virale per il corpo-cinema. D’altra parte non dobbiamo nemmeno esagerare con l’equiparazione arte/cinema, poiché in passato molti studiosi non prendevano in grande considerazione le “immagini in movimento”, ed era inammissibile qualsiasi tentativo di mettere sullo stesso piano Shakespeare e Hitchcock, Mozart e Dreyer, Caravaggio e Orson Welles. Per cui se il cinema non è mai stato giudicato una vera e propria arte, se ne deduce che per molti intellettuali il cinema non è mai nato e come tale non può essere nemmeno morto. Chi invece ritiene che almeno nei suoi primi cinquanta, sessanta anni di esistenza, il cinema abbia mostrato dei magari soltanto minimi ma inequivocabili segni di dignità artistica, può legittimamente chiedersi perché e quando ad un certo punto questi segni hanno cominciato a diventare sempre più rari. Non è semplice in realtà ricostruire il quando, ed è suscettibile di ulteriori approfondimenti il perché. Si può tentare un approccio al problema che sia inizialmente dubitativo, senza voler dare cioè una risposta definitiva, e che cerchi di comprendere, tortuosamente, entrambe le questioni. Partiamo da una data ipotetica, la metà degli anni Settanta, senza dimenticare comunque a grandi linee le responsabilità della Nouvelle Vague e più in generale delle avanguardie cinematografiche degli anni Sessanta che volevano, sempre a grandi linee, liberare l’espressione cinematografica da un’ortodossia considerata opprimente e hanno in buona fede e spesso rasentando il sublime dato tuttavia la stura a tutta una serie di false rivoluzioni inutili ancorché dannose. Partiamo inoltre da un postulato: il cinema ha cominciato a decadere quando è passato da soggetto ad oggetto, da strumento a materiale, da mezzo a fine. Non più forma espressiva che potesse raccontare una realtà ad esso estranea, ma realtà esso stesso, soggetto che narcisisticamente rimira la propria immagine, diventando oggetto sterile. A questo punto bisogna aggiungere un concetto alla nostra analisi. Più o meno verso la metà degli anni Settanta il cinema americano, che veniva da una crisi industriale non da poco, assimilati le tendenze libertarie e indipendenti, il realismo, il cinema-verità, la nuova Hollywood e chi più ne ha più ne metta, trova una soluzione per superare l’impasse e la disaffezione del pubblico. Comincia a guardarsi allo specchio. Sappiamo quanto il cinema americano sia sempre stato punto di riferimento dominante, nel bene e nel male, per ogni altra cinematografia (e viceversa, poiché Hollywood ha sempre fagocitato spunti e idee di altre cinematografie). Se per Thomas Bernhard “l’americanesimo è responsabile della fine del mondo”, a maggior ragione il cinema americano potrebbe essere considerato responsabile della fine del cinema.  Azzardiamo il motivo, dunque, vale a dire il fatto che da almeno tre decenni a questa parte in America si produce poco cinema di ispirazione autentica e quasi completamente cinema che riproduce invariabilmente una sorta di mimesi del cinema, attualizzandola anno per anno. È un simulacro del cinema, quello che sorge dalla metà degli anni Settanta, e che col passare del tempo esploderà in un continuo scambio con la trionfante televisione, la pubblicità, e i mezzi di comunicazione più vicini al pubblico giovane (video musicali, videogame, internet). Non vogliamo scrivere nulla di definitivo sull’argomento, l’unico intento è di lasciare dei semplici appunti che altri se vorranno potranno cogliere ed ampliare. Il cinema nei suoi primi cinquanta, sessant’anni aveva una natura onirica, era come il sogno di ogni singolo spettatore che vi si immergeva nel buio di una sala. Aveva in sé un che di rituale, di esoterico, ogni singolo film era come un sogno unico e irraccontabile, perché sconosciuto. Dagli anni Sessanta-Settanta si è cominciato a rendere pubblico il sogno, a studiarlo, ad analizzarlo,  a ripeterlo in infinite variazioni, sino a renderlo un patetico, plateale travestimento multiforme, quindi informe, sino a cancellarne la magia onirica facendone qualcosa di interattivo. I sogni sarebbero ancora sogni se il sognatore potesse decidere cosa sognare?
  
a cura di Roberto Frini
 

Archivio GHoST (film) - Fog

Fog (John Carpenter - Usa 1980)
   
Cast: Janet Leigh, Jamie Lee Curtis, Adrienne Barbeau, Hal Holbrook, John Houseman.
   
Titolo disponibile in Archivio GHoST
Codice: 00044
  
        

Predire il futuro con il Cubo di Rubik

Ricordate il Cubo di Rubik? Questo giocattolo era di moda negli anni 80 e ogni ragazzino ne possedeva uno. Ebbene, forse non sapevate che questo cubo può servire per prevedere il futuro. 
Ogni oggetto che possiede molte combinazioni è adatto a prevedere il futuro. Esempio: le carte, i dadi, un mazzo di stecchini che lanciandoli si posizionano in molte maniere, gli spilli, i fondi di caffè, le gocce di cera lasciate cadere nell'acqua che formano figure, i sassolini colorati, eccetera. 
Con gli Arcani dei tarocchi abbiamo 22 possibilità. Con la geomanzia 16. Con l’I King 64. Con le carte 52. Con il cubo 6.  (Con stecchini, spilli, cera, le possibilità sono tante quante le figure che abbiamo stabilito in precedenza). 
A ogni possibilità colleghiamo un significato e così creiamo un codice. 
L’operatore deve stabilire un codice che assegni a ogni combinazione una situazione della vita reale. Esempio: triangolo = nascita; cerchio = morte. Spilli con la punta in alto = progresso; spilli con la punta in basso = regresso. Eccetera.
L’operatore deve mescolare le combinazioni; estrarne una a caso; interpretare servendosi del codice. 
Esaminiamo brevemente il cubo di Rubik, per coloro che non lo ricordano bene. Il cubo ha 6 facce. Esso è formato di tanti piccoli cubetti colorati che ruotano fra loro formando un numero altissimo di combinazioni.
Nel cubo nuovo ogni faccia ha colori differenti: giallo, blu, nero, bianco, rosso, verde. Questi colori si mescolano fra loro quando ruotiamo il cubo, creando appunto molte combinazioni casuali. 
Se osserviamo una faccia vediamo che è formata da 3 file di quadrati, cioè 9 quadrati colorati. I quadrati colorati possono cambiare posizione. Il quadrato al centro di ogni faccia  non cambia mai. Noi ci serviremo di una sola faccia da interpretare, quella con il quadrato bianco al centro. (Avremmo potuto stabilire qualunque altro colore; l’importante è adottare un colore e non cambiarlo mai).
Il significato dei colori è quello analogico, adottato anche dalla psicologia: 
GIALLO: giorno, attività, avanzamento, progresso.
BLU: notte, riposo, quiete, stasi, nessun cambiamento.
ROSSO: sangue, guerra, pericolo, sconfitta.
VERDE: bosco, difesa, vittoria. 
BIANCO: luce, coscienza,  razionalità.
NERO: buio,  inconscio, irrazionalità. 
Per conoscere l’esito di un avvenimento, formulate oppure scrivete la domanda. Esempio: Riuscirò a superare l’esame? Conoscerò quella ragazza? Troverò lavoro?
Adesso con la mente vuota dai pensieri, ruotate il cubo alcune volte. Quando vi fermate, cercate la faccia con il quadrato bianco al centro e interpretatela. 
Osservate quale è il colore predominante, rappresentato dal maggior numero di quadrati; quale è il colore scarso; quale è il colore mancante. Esempio: 3 rossi: sconfitta probabile. 2 gialli: buona attività. 2 neri: destino, intuizione. 1 solo bianco: valutazione poco chiara dei fatti. (il quadrato centrale non conta; ricordiamo che è solo un contrassegno per stabilire quale faccia del cubo dobbiamo leggere). 
Se invece desideriamo conoscere una sequenza temporale, guardando la faccia prescelta stabiliamo che: prima fila in alto = passato. Fila mediana = presente. Fila in basso = futuro.
Oppure fila in alto = futuro vicino. Fila mediana = futuro lontano. Fila in basso = valutazione dell’avvenimento. 
La teoria per spiegare la precognizione (conoscenza del futuro) è la seguente. La mente inconscia possiede una conoscenza della realtà oltre le barriere dello spazio e del  tempo. Ma esiste una soglia chiamata Limen, che impedisce che queste informazioni salgano alla coscienza. 
Un metodo di precognizione è un codice dove ogni segno rappresenta una risposta. Dopo aver formulato la domanda ci poniamo in uno stato di coscienza assopita, cioè non vigile, e ricaviamo una combinazione apparentemente casuale di segni. Con l’addestramento la combinazione dei segni diventa la risposta cifrata che desideriamo. Solamente così, cioè essendo cifrata, la risposta riesce a oltrepassare la censura del Limen.
  
a cura di Sergio Bissoli
   

La ragazza che sapeva troppo di Mario Bava

Il primo vero film italiano incentrato sulla figura di un assassino, e anche il primo giallo nostrano, è La ragazza che sapeva troppo, pellicola in bianco e nero girata nel 1962 da Mario Bava. Il film avrebbe dovuto essere in origine un giallo-rosa. A Bava però l’idea del giallo-rosa non piaceva granché, così cominciò a girarlo come un vero film di suspense. Le due anime di La ragazza che sapeva troppo si evincono già dalle prime sequenze. L’inizio è da commedia. Una ragazza, Nora Davis, accanita lettrice di gialli, giunge a Roma in vacanza. Sull’aereo il vicino le offre un pacchetto di sigarette, che si riveleranno poi sigarette alla marjiuana. L’uomo infatti viene arrestato appena mette piede a terra. Nel doppiofondo della valigia gli agenti trovano numerosi pacchetti. Questa sequenza non ha poi nulla a che vedere con il resto della vicenda (tornerà solo nel finale), anche se introduce la protagonista in uno strano clima paranoico da giallo. Nora si reca quindi a casa della signora Ethel, che la ospiterà durante il soggiorno romano. Qui trova un giovane medico, Marcello Bassi, e viene a sapere che la signora è malata di cuore ed è costretta a letto. Il medico le raccomanda di chiamarlo se la signora dovesse sentirsi male. Nel cuore della notte, infatti, Nora ode un grido: è Ethel che sta male. Non fa in tempo a darle le gocce: la donna muore. Sconvolta, Nora corre fuori. Qui viene aggredita da un ladro, che la getta a terra. Nora batte la testa e, nel delirio, assiste all’omicidio di una ragazza. Vede anche l’assassino, un uomo alto, estrarre il coltello e portare via il corpo. Tutta questa parte va oltre il giallo, è terrore puro. La storia è incentrata sulle gesta di un assassino che uccide delle ragazze seguendo l’ordine alfabetico (prima una con il cognome che inizia con la lettera A, poi con la B e così via) e sulle indagini di Nora e Marcello. Alla fine si scopre che il responsabile è una donna, Laura Torrani (ben interpretata da Valentina Cortese) e che l’uomo che Nora ha visto era il marito, che cercava di proteggere la pazza.
La ragazza che sapeva troppo è il primo film italiano incentrato sulla figura di un assassino seriale. È evidente l’influenza sui capolavori di Dario Argento (nell’alternare momenti da incubo a situazioni leggere, come accade ad esempio in Profondo rosso) e su dei gialli di Sergio Martino e Umberto Lenzi. Certe situazioni inoltre verranno riprese in maniera piuttosto evidente in alcuni titoli importanti degli anni settanta e ottanta: Nora che tira un filo attraverso il corridoio (in Nightmare - Dal profondo della notte, diretto nel 1985 da Wes Craven), Laura che offre il suo appartamento a Nora (in Omicidio a luci rosse di Brian De Palma) e, soprattutto, la scena in cui Nora e Marcello trovano la stanza vuota con il registratore, ripresa da Pupi Avati nel suo La casa dalle finestre che ridono.
   
a cura di Roberto Frini
 

Pensiero del giorno - George Steiner 08/02/2015

Un insegnamento di cattiva qualità è, quasi letteralmente, un assassinio e, metaforicamente, un peccato. (George Steiner).
 
    

Trofeo RiLL - XXI Edizione

Le iscrizioni per il XXI Trofeo RiLL sono aperte sino al 30 marzo 2015.
Il Trofeo RiLL è uno dei maggiori concorsi letterari italiani per racconti fantastici ed è bandito dal 1994 dall'associazione RiLL Riflessi di Luce Lunare, col supporto del festival internazionale Lucca Comics & Games e della Wild Boar Edizioni.
   
Possono partecipare al Trofeo RiLL racconti fantasy, horror, di fantascienza e, in generale, tutte le storie che siano, per trama o personaggi, "al di là del reale".
A ogni edizione del concorso partecipano, da alcuni anni, 200-250 racconti, provenienti dall´Italia e dall'estero. Nel 2014, per l´edizione del ventennale, hanno partecipato 345 racconti, scritti da autori residenti soprattutto in Italia, ma anche in Australia, Uruguay, USA e paesi dell´Unione Europea.
   
I migliori racconti del XXI Trofeo RiLL saranno pubblicati (senza nessun costo/contributo per i rispettivi autori) nella prossima antologia del premio (collana Mondi Incantati, ed. Wild Boar).
Il racconto primo classificato sarà inoltre tradotto e pubblicato:
- in Irlanda, sulla rivista di letteratura fantastica Albedo One (già vincitrice dell´European Science Fiction Award come migliore rivista del settore);
- in Spagna, su Visiones, l´antologia annuale dell´AEFCFT (Asociación Española de Fantasía, Ciencia Ficción y Terror).
All´autore del racconto vincitore andrà un premio di 250 euro.
   
La selezione dei racconti finalisti sarà curata da RiLL: tutti i racconti partecipanti saranno letti e valutati in forma anonima, considerando in particolare l´originalità della storia e la qualità della scrittura. La giuria del Trofeo RiLL sceglierà poi, fra i racconti finalisti, quelli da premiare e pubblicare sull´antologia 2015 della collana Mondi Incantati.
Sono giurati del Trofeo RiLL, fra gli altri, gli scrittori Donato Altomare, Pierdomenico Baccalario, Mariangela Cerrino, Giulio Leoni, Gordiano Lupi, Massimo Mongai, Massimo Pietroselli e Sergio Valzania; gli accademici Arielle Saiber (Bowdoin College, Boston, USA) e Luca Giuliano (Università La Sapienza, Roma); e i giornalisti e autori di giochi Andrea Angiolino, Beniamino Sidoti e Renato Genovese (quest´ultimo anche direttore del festival internazionale Lucca Comics & Games).
   
Tutti gli autori partecipanti al XXI Trofeo RiLL riceveranno una copia omaggio dell´antologia Mondi Incantati del 2014: LA MALEDIZIONE e altri racconti dal Trofeo RiLL e dintorni, che
prende il nome dal racconto vincitore del XX Trofeo RiLL, scritto da Michele Piccolino (la copertina è dell'illustratrice Valeria De Caterini).
Oltre ai migliori racconti del XX Trofeo RiLL, il volume raccoglie i racconti selezionati nel concorso SFIDA 2014, sempre curato da RiLL, e i racconti vincitori di quattro premi letterari europei dedicati alla letteratura fantastica (il Premio Nova, Finlandia; il Premio Domingo Santos, Spagna; l´Aeon Award Contest, Irlanda; il James White Award, Regno Unito), proponendo ai lettori un viaggio di respiro internazionale nell'immaginario fantastico.
   
La cerimonia di premiazione del XXI Trofeo RiLL avrà luogo nel novembre 2015, nell´ambito del festival Lucca Comics & Games.
   
Per maggiori informazioni sul XXI Trofeo RiLL si rimanda al bando di concorso e al sito di RiLL (http://www.rill.it) , che ospita ampie sezioni sul Trofeo RiLL e la collana Mondi Incantati.
 

Cat People OST di Giorgio Moroder

Superlative musiche degne di un film indimenticabile quale è Cat People, il remake horror/erotico del 1982 diretto dal coraggioso Paul Schrader.
Una colonna sonora firmata dal nostro Giorgio Moroder, un nome, una garanzia per quei lontani mitici anni 80. Schrader commissionò saggiamente il tema musicale al talentuoso Moroder che, insieme al grande David Bowie, di cui si occupò dei testi, scrisse l'ormai mitica Putting Out the Fire che si avvalse in seguito della candidatura ai Golden Globe del 1983. Ma anche brani fantastici come Leopard Tree Dream, Irena's Theme e Transformation Seduction si intonano perfettamente con le atmosfere affascinanti da magia nera che trasudano da una pellicola tetra e misteriosa ormai divenuta un cult.
Per i collezionisti più esigenti, segnaliamo che le musiche raccolte in questo album si differenziano non poco da quelle originali usate nel film.
In definitiva una colonna sonora assolutamente... graffiante! Da non perdere!!

Per l'elenco delle tracce consultare la scheda tecnica da qui: VAI...
 
a cura di Red Scorpion
 

I tre volti della paura di Mario Bava

L’episodio centrale, che è anche il più lungo, vede come protagonista un attore leggendario, Boris Karloff (che veste anche i panni del narratore). Tratto dal racconto di Aleksei Tolstoi I Wurdalak, l’episodio concentra in sé tutte le qualità di Bava: estrema cura visiva, capacità di creare tensione e atmosfera, tagli di inquadratura e un uso del colore del tutto personale (si veda in questo senso la splendida scena in cui i due protagonisti vengono circondati dai familiari divenuti dei Wurdalak). La vicenda è semplice: un uomo arriva in una casa sperduta nella campagna russa (siamo nell’800) e viene a sapere che da quelle parti si crede a una leggenda secondo cui i morti tornano in vita per uccidere le persone che amano e farle diventare a loro volta morti viventi (Wurdalak, appunto). Naturalmente non è soltanto una leggenda, i Wurdalak esistono veramente, e il protagonista lo scoprirà a proprie spese. Ancora una volta Bava riesce a fare miracoli con pochi mezzi, e l’ambientazione nella steppa russa ricreata in studio ha un che di magico, irreale e terribile (ancorché ingenuo: possono coesistere la nebbia e il vento?). La figura del patriarca Karloff è indimenticabile, così come la scena in cui il bambino morto chiama la madre. Di grande impatto è anche il terzo episodio, La goccia d’acqua, dal racconto di Guy de Maupassant. Girato tutto in interni, è una breve, intensa lezione di come si crea il terrore al cinema. Un’infermiera viene chiamata al capezzale di un’anziana signora, morta d’infarto mentre partecipava a una seduta spiritica. Secondo la superstiziosa domestica, sarebbero stati gli spiriti dei morti ad ucciderla. L’infermiera, mentre veste il cadavere, prima scaccia una mosca poi viene attratta da un anello che la morta porta al dito. Glielo toglie ma inavvertitamente lo fa cadere. Per recuperarlo, sbatte contro il comodino e rovescia un bicchiere. L’acqua comincia a gocciolare. Tornata a casa, l’infermiera vede volare una mosca (la stessa?) e risente la goccia d’acqua. Infine le compare davanti il fantasma della morta, che le viene incontro per ucciderla. Ma in realtà è l’infermiera a strangolarsi con le sue stesse mani. La mattina dopo, viene rinvenuto il cadavere. La padrona di casa sostiene di non aver toccato nulla, ma la polizia s’accorge che dal dito dell’infermiera è stato strappato un anello. La padrona di casa guarda il volto del cadavere, e con estremo terrore si rende conto che gli occhi della morta, malvagi, vendicativi, sono fissi su di lei. Perfetto nell’ambientazione, superbo nella cura dei dettagli, oscuro e cupo ma con luci quasi psichedeliche che s’accendono fuori dalle finestre, La goccia d’acqua è, ripetiamo, un saggio di regia e d’inventiva. Inventiva che Mario Bava dimostra di possedere in quantità industriale anche nella chiusura del film: il narratore saluta gli spettatori cavalcando di gran carriera, poi il regista carrellando indietro scopre il “trucco”. Il cavallo è finto e gli alberi sono mossi dai tecnici. Un finale non convenzionale per un film dell’orrore, eppure efficace. Famosa (e illuminante) è la risposta che diede Bava a chi gli chiedeva perché avesse utilizzato un cavallo finto. «Oh, bella! Perché avevo solo un cavallo di legno a disposizione». Da notare che la sceneggiatura è stata scritta dal regista (qui anche direttore della fotografia) insieme a Marcello Fondato e Alberto Bevilacqua.
  
a cura di Roberto Fini