Fellini e Fulci, anche i grandi sbagliano

ATTENZIONE: SPOILER
  
Nel 1968 per la prima e ultima volta Federico Fellini è alle prese con un horror, Toby Dammit, mentre nel 1991 si chiuderà la carriera registica di Lucio Fulci con il suo ultimo horror Le Porte del silenzio. Due film che, seppur somiglianti per le atmosfere di morte che imperniano la pellicola, hanno un forte elemento in comune: entrambi potevano essere dei capolavori ma, per colpa di un errore che li accomuna,  non lo sono. Partiamo dal presupposto che sono due ottimi prodotti, in uno l'onirismo tipico felliniano si conia splendidamente con suspense e sprazzi singolari di ghost e devil movie, nell'altro una sorta di Duel degli inferi in cui la paura sfreccia su strade proibite e scenari da incubo. Però nella conclusione Toby Dammit e Le porte del silenzio deludono.
In Toby Dammit (terzo episodio di Tre passi nel delirio, un film horror/thriller collettivo) Terence Tramp impersona un attore alcolizzato che deve girare un western ed è ossessionato dalla velocità. Capiamo dalle visioni che ha che presto, ineluttabilmente, morirà in modo tragico. Spinge esageratamente l'acceleratore della Ferrari Spider e si getta in strade buie e pericolose. Sul finire tenta una bravata. Oltrepassare un dirupo, andare dall'altra parte della strada cercando di scavalcare una profonda voragine. Una manovra molto pericolosa. Fa retromarcia, prende la rincorsa e poi accelera. Immaginiamo cosa succederà, l'eroe soccomberà. La macchina in corsa, il dirupo, la nebbia. Con grande sorpresa vediamo l'auto materializzarsi dall'altro lato della strada, oltre il dirupo. La vettura  è salva, non  è caduta. Lo spettatore è davvero colpito perché si aspettava che l'attore precipitasse con la Ferrari nel vuoto. Ricordiamo però  un elemento molto importante: la macchina è una spider, quindi molto bassa. L'obiettivo della cinepresa si sofferma su un lungo filo orizzontale che attraversa la strada, posto all'altezza del volante della Ferrari. Il filo è sporco di sangue. Capiamo subito cos'è successo, il filo teso e implacabile ha tranciato di netto la testa dell'attore. E' bastato questo straordinario e fine particolare, una striscia macchiata di rosso per capire cosa  sia successo. Il filo ha decapitato il protagonista. Ecco, se Toby Dammit si fosse concluso così sarebbe stato veramente un capolavoro. Purtroppo non finisce qua, l'immagine successiva  mostra la testa di Terence che rotola sull'asfalto. Per carità, per gli amanti del genere  sarà stato anche interessante vedere Fellini cimentarsi in trovate di questo genere (anche se le teste mozzate si vedranno poi di nuovo nel '69 con il suo Satyricon) però la visione della testa risulta un'aggiunta sgradevole, inutile, che rovina la poeticità e l'efficacia dell'opera. E' un elemento che non serviva proprio perché era già tutto chiaro, espresso in un modo molto raffinato e originale.
Le porte del silenzio di Fulci presenta l'attore John Savage alle prese con un carro funebre che sembra perseguitarlo e non dargli scampo. Nonostante la sua vettura faccia l'impossibile per distaccarsene, tra sorpassi azzardati, cambiamenti di percorso, scorciatoie, tentativi minacciosi di mandare fuoristrada il mezzo, il protagonista non riuscirà mai nel suo intento. Il tutto è intervallato da misteriosi incontri con una donna di colore che pare mettere all'erta Savage da un imminente pericolo. Poi capiremo tutto, succederà anche in questo caso l'ineluttabile. C'è sempre di mezzo un auto, sempre la velocità e sempre il destino. Nella conclusione assistiamo a un incidente automobilistico. Il protagonista muore, quel carro funebre che all'inizio lo perseguitava non trasportava nient'altro che il suo corpo senza vita. Tutto quel disperato tentativo di allontanarsi dal mezzo non  è servito, tutto era già scritto. Nella conclusione la donna di colore osserva lo scontro mortale senza emozione, forse quasi compiaciuta della dipartita dell'eroe e capiamo subito che rappresenta la morte. Ne abbiamo la certezza, una donna bellissima che però provoca sciagure e tormenti. Le ultime immagini mostrano la donna allontanarsi con la sua vettura, in modo lento, implacabile, e la pellicola poteva concludersi proprio qui. Purtroppo però Fulci, come Fellini, esagera e fa una zoomata sulla targa posteriore dell'auto. C'è scritto D.E.A.T.H., “morte” in inglese, una conclusione di cattivo gusto (forse il regista è stato consigliato male) perché anche in questo caso inutile. Avevamo già capito tutto prima, proprio come successe per la testa che rotola in Fellini. Due pellicole belle, innovative, originali che però non possono dirsi capolavori totali proprio perché sul finire hanno mostrato troppo. Siamo di fronte a uno dei pochi casi in cui forse la censura sarebbe lecita: se tagliassimo ipoteticamente questi inutili passaggi, la testa in uno e la targa nell'altro, le due pellicole sarebbero due veri capolavori.
   
a cura di Francesco Basso
  
>>> Club GHoST consiglia:
Un vegano su Marte (il Lepidrurno Vol. 1) - Il nuovo libro di Francesco Basso - acquista...
  

Pensiero del giorno - Prince 23/04/2016

Nessun membro del regno animale succhia il latte una volta adulto. Nessun membro del regno animale mi ha mai fatto nulla di male. Ecco perché non mangio carne rossa o pesce bianco. Non datemi alcun formaggio blu. Siamo tutti membri del regno animale. Lascia i tuoi fratelli e sorelle nel mare. (Prince)

   

Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti

Enzo Ceccotti, un ladruncolo di Tor Bella Monaca, dopo uno scippo viene inseguito da due poliziotti e cade nel Tevere, dove finisce per ingerire delle sostanze tossiche contenute in alcuni bidoni. Qualche giorno dopo, scopre di possedere una forza sovrumana.
Sta diventando ormai un'abitudine. A ogni cambio di stagione si sente parlare (e scrivere) di una fantomatica rinascita del cinema italiano di genere. Era successo con Tulpa, poi con Suburra. Puntuali, le voci si sono fatte risentire alla presentazione al Festival di Roma di Lo chiamavano Jeeg Robot (e, a distanza sempre più ravvicinata, con Veloce come il vento, uscito da pochi giorni). Naturalmente ognuno è libero di pensarla (e di illudersi) come vuole. Sarebbe bene ricordare però che una volta si producevano decine e decine di film ogni anno e molti di questi per pure ragioni alimentari e senza nessuna velleità artistica. Tanto è vero che l'oggi tanto lodato cinema di genere veniva disprezzato dalla critica (molte erano sul tono di quella scritta da Tullio Kezich per La battaglia degli spazi stellari: “Ma perché li fanno film come La battaglia degli spazi stellari? Chi ci mette i soldi? E i conti, alla fine, tornano? (…) I dieci-venti titoli di punta della stagione sono circondati da miriadi di aborti spettacolari.”). E, sarebbe il caso di sottolinearlo qualche volta, anche dagli studiosi e cinefili dell'epoca. Per cui sgombriamo il campo da ogni tentazione di eccessivo entusiasmo. Lo chiamavano Jeeg Robot è un buon film, superiore alle aspettative, ma non ha nulla a che vedere col passato. Troppo consapevole, ammiccante. Troppo calibrato. Lo sguardo del regista Gabriele Mainetti (curiosa assonanza con il cognome dei Manetti Bros.) filtra decine di visioni posteriori già sature di citazioni poliziottesche e fulciane e bis (evitiamo di fare i nomi dei soliti noti). Casomai può essere considerato un epigono, più motivato e preciso dal punto di vista generazionale, degli sporadici tentativi anni Ottanta (decennio che è un evidente punto di riferimento dello script firmato da Nicola Guaglianone e dal fumettista e sceneggiatore Menotti alias Roberto Marchionni) di riproporre il noir notturno (chissà perché tornano in mente titoli come Anche lei fumava il sigaro e Snack Bar Budapest). Viene inoltre, e infine, da chiedersi se sia davvero il caso di sacralizzare e rilanciare i generi (che si tratti dell'horror, della commedia e quant'altro) e tutta una mitologia legata alla figura dell'eroe in una cinematografia asfittica e livellata verso il basso come la nostra invece di cercare strade meno battute. Precisato tutto ciò, i pregi di Lo chiamavano Jeeg Robot sono evidenti (e, ribadiamo, fin troppo studiati). Innanzitutto regge il grande schermo come raramente è accaduto a un film italiano nell'ultimo decennio. Partendo da un'idea originale solo  alle nostre latitudini (ricordiamo almeno The Toxic Avenger, film americano del 1984), Mainetti costruisce un'opera prima curiosa, non priva di ingenuità e momenti kitsch (l'uso di certe canzoni) ma decisamente interessante soprattutto per l'equilibrio quasi perfetto che riesce a trovare tra le scene violente e quelle sentimentali e struggenti (d'altra parte dalle nostre parti il melò lo cacci  dalla porta e rientra dalla finestra), incentrate sul rapporto tra Enzo e Alessia. Che, tra l'altro, risultano le più efficaci. Non solo i due personaggi sono ben disegnati ma, soprattutto, la loro relazione sottende un senso che va oltre la semplice narrazione. Infatti è attraverso lo sguardo della ragazza (e dello spettatore che ha bisogno di supereroi?) che Enzo prende coscienza e comincia a usare i suoi poteri per compiere buone azioni. Se le sequenze più complesse sono risolte con una perizia davvero insolita, basta vedere quella ambientata nello Stadio Olimpico durante il derby Roma-Lazio, anche la scelta delle facce e la direzione degli attori risultano d'alto profilo. Così che Claudio Santamaria e Luca Marinelli possono fornire un'interpretazione degna della loro fama. La vera sorpresa però è rappresentata dalla strepitosa Ilenia Pastorelli, magnetica anche quando si mangia le parole. Speriamo che registi e produttori (non solo italiani) sappiano valorizzarla come merita.
  
a cura di Roberto Frini
  

Alterazione genetica di John Hess

Da un laboratorio militare fuggono un cane dotato di una intelligenza non comune e un mostro che è il risultato di una manipolazione genetica dalla forza disumana, in pratica una sorta di bigfoot, che si mette alla caccia proprio del quadrupede.
Mentre il cane dopo aver raggiunto un luogo abitato farà amicizia con un ragazzo intenzionato ad occuparsi di lui, la belva sanguinaria comincerà a mietere le prime vittime.
Sulle loro tracce ci si mette pure un agente del governo che elimina coloro che ritiene testimoni scomodi.
Alterazione Genetica (Watchers,1988) è un fanta-horror diretto da John Hess e tratto da un romanzo di Dean R. Koontz pubblicato anche in Italia col titolo di Mostri.
Pellicola assai modesta nonostante il volenteroso apporto attoriale tra cui spicca il giovane Corey Haim assolutamente convincente e il sempre bravo Michael Ironside nel solito villain di turno. Il tutto però risulta decisamente scontato e la rappresentazione nei momenti di maggiore drammaticità è fin troppo all'acqua di rose con un voluto e diluito uso di effetti speciali (gli omicidi infatti avvengono quasi sempre fuori campo e il mostro lo si potrà vedere meglio solo nel finale) che inficia nel ritmo rendendolo un po' troppo televisivo, privo di mordente e penalizzando così il buon soggetto di partenza.
Il film ha dato vita a una serie di sequel di cui fanno parte Alterazione genetica 2 (Watchers II, 1990) per la regia di Thierry Notz ma che risulta essere una sorta di rifacimento, Watchers III (1994) e Watchers Reborn (1998).
    
a cura di Andrea Frascari
     

Un ragazzo sveglio di Stephen King


Todd Bowden, tredicenne californiano, scopre che nella sua città si nasconde, col nome di Arthur Denker, il comandante del campo di sterminio di Patin, Kurt Dussander.
Invece di denunciare il criminale di guerra, Todd andrà a bussare alla sua porta, non per estorcere denaro, ma per sentire dalla bocca di chi l’ha vissuta come carnefice, la storia dell’Olocausto.
Superate le prime diffidenze, tra i due s'instaura un legame perverso, ponte che unisce la morbosa curiosità del ragazzo al passato di Dussander. Passato che pian piano contamina la vita di Todd: i suoi voti calano, i rapporti con gli amici e con le ragazze si assottigliano, la menzogna diventa il suo pane quotidiano. Emerge la sua indole violenta e Todd, da studente modello, si trasforma in un implacabile assassino a caccia di barboni.
Nel finale la bilancia sembra tornare in equilibrio: Dussander prossimo all'estradizione in Israele, Todd smascherato e visto per ciò che è, un mostro dagli occhi azzurri e dai capelli biondi.
Un ragazzo sveglio è uno dei quattro racconti di Stagioni Diverse, una delle più note raccolte di Stephen King.
In questa storia la mostruosità si annida nella quotidianità che ognuno di noi potrebbe vivere.
Il “mostro” è un ragazzo di buona famiglia, che nella vita può ambire ai più alti successi e che nel suo cammino troverà tutte le porte aperte.
Eppure in questo “ragazzo sveglio” è nascosta una metà oscura, un’ombra che grazie al vecchio tedesco avrà la meglio su tutto il resto: pagina dopo pagina emerge la lenta metamorfosi. La trasformazione in un essere capace di atti indicibili e di provare sentimenti ripugnanti. Capace di celare a tutti la sua vera natura, offuscata con abilità per far credere a chi gli sta intorno che lui, Todd Bowden, è un tipico “bravo ragazzo”.
Ho letto per la prima volta questo racconto quando avevo quattordici anni, compiaciuto per essermi imbattuto un'altra buona storia di King.
Letta per la seconda volta oggi, dopo quasi vent'anni, sono riuscito a percepire l'effettiva forza di questa storia, dove il “male”, quello qualunquista di cui ha parlato Hannah Arendt ne La banalità del male, si nasconde dietro la faccia sorridente di un ragazzo che incarna tutti gli stereotipi dell’adolescente americano. Un ragazzo che nasconde dentro di sé quell’oscurità, frutto però della luce, dalla quale ci ha messo in guardia Joseph Conrad in Cuore di Tenebra. Le tenebre che tallonano il benessere, la ricchezza e che possono dare alla luce un frutto maligno come Todd Bowden, o i tanti uomini e donne che hanno lavorato attivamente nei campi di sterminio o negli uffici del Terzo Reich.
Nel 1998 Un ragazzo sveglio è stato portato sul grande schermo, con il titolo L’allievo, di Bryan Singer. Nel cast sono presenti, oltre a Joshua Jackson e David Schwimmer (il Ross di Friends) Ian McKellen nel ruolo di Dussander e Brad Renfro in quello di Todd.
Sebbene il film sia di discreta qualità, non può reggere il paragone con il racconto: mentre nell'opera di King la mostruosità di Todd, il suo lato oscuro è descritto con abilità inaudita, nel film diventa un mero elemento del personaggio di Todd.
Punto di forza del lungometraggio è il finale, dove il regista è riuscito a mostrare quello di cui il ragazzo è capace pur di ottenere ciò che vuole.
Da leggere e, perché no, da vedere.
     
a cura di Stefano Milighetti
      

Tutto questo tempo - Edizioni Fernandel

La redazione GHoST segnala Tutto questo tempo, il nuovo romanzo di Alberto Bellini edito da Fernandel Edizioni; una boy-meets-girl comedy a testa in giù, in cui caso e destino si contendono la sorte dei protagonisti. Un romanzo agrodolce e intimista che, nel ritratto affettuoso di due venti-trentenni, fotografa la verità di un sentimento sfuggente: il senso del tempo che passa.
La vicenda narra di Irene e Daniele. Di nuovo insieme, dopo tutto questo tempo, sotto il cielo stellato d’agosto che piove su di loro col garbo di una carezza: un uomo e una donna cresciuti nella stessa città, dove hanno frequentato lo stesso liceo, la stessa cerchia di amici. E che negli ultimi quindici anni si sono persi e ritrovati (o anche solo sfiorati) un’infinità di volte. Ne hanno trentatré quando si vedono per quello che consegneranno alla storia come il loro primo vero appuntamento. Ed eccoli ancora a ventotto, unici spettatori di un cinema d’essai la notte di capodanno, poche ore prima della tragedia; e a ventisei, dall’altra parte dell’oceano, diretti in auto verso un aeroporto senza nome, perfetto per quello che sembra un addio, l’ennesimo. E così via, in un imprevedibile susseguirsi di incontri fortuiti. Risalendo il tempo come un fiume, Ire e Dani tornano così al pomeriggio di pioggia della loro adolescenza in cui, reduci da un funerale, e custodi di un segreto più grande di loro, decidono di lasciarsi. Nella speranza di incontrarsi per la prima volta.
Tutto questo tempo, Anno: 2016, Pagine: 176, Codice ISBN: 978-88-9860-531-6,
Collana: Fernandel, Editore: Fernandel Edizioni.    
         
      
L'AUTORE
Alberto Bellini (Modena, 1978) è laureato in letteratura contemporanea e si occupa di comunicazione e marketing per un’azienda ceramica. È sposato e ha due figli. Nel 2013 ha esordito con il romanzo Niente che sia al suo posto (Gallucci), «un thriller che scorre nitido e angosciante e che dimostra talento e un pizzico di spregiudicatezza» (Tuttolibri, La Stampa); «un esordio subito maturo nel quale, per una volta, l’autore non ci racconta i fatti propri ma veramente una storia» (Fahrenheit, Radio Tre).