Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti

Enzo Ceccotti, un ladruncolo di Tor Bella Monaca, dopo uno scippo viene inseguito da due poliziotti e cade nel Tevere, dove finisce per ingerire delle sostanze tossiche contenute in alcuni bidoni. Qualche giorno dopo, scopre di possedere una forza sovrumana.
Sta diventando ormai un'abitudine. A ogni cambio di stagione si sente parlare (e scrivere) di una fantomatica rinascita del cinema italiano di genere. Era successo con Tulpa, poi con Suburra. Puntuali, le voci si sono fatte risentire alla presentazione al Festival di Roma di Lo chiamavano Jeeg Robot (e, a distanza sempre più ravvicinata, con Veloce come il vento, uscito da pochi giorni). Naturalmente ognuno è libero di pensarla (e di illudersi) come vuole. Sarebbe bene ricordare però che una volta si producevano decine e decine di film ogni anno e molti di questi per pure ragioni alimentari e senza nessuna velleità artistica. Tanto è vero che l'oggi tanto lodato cinema di genere veniva disprezzato dalla critica (molte erano sul tono di quella scritta da Tullio Kezich per La battaglia degli spazi stellari: “Ma perché li fanno film come La battaglia degli spazi stellari? Chi ci mette i soldi? E i conti, alla fine, tornano? (…) I dieci-venti titoli di punta della stagione sono circondati da miriadi di aborti spettacolari.”). E, sarebbe il caso di sottolinearlo qualche volta, anche dagli studiosi e cinefili dell'epoca. Per cui sgombriamo il campo da ogni tentazione di eccessivo entusiasmo. Lo chiamavano Jeeg Robot è un buon film, superiore alle aspettative, ma non ha nulla a che vedere col passato. Troppo consapevole, ammiccante. Troppo calibrato. Lo sguardo del regista Gabriele Mainetti (curiosa assonanza con il cognome dei Manetti Bros.) filtra decine di visioni posteriori già sature di citazioni poliziottesche e fulciane e bis (evitiamo di fare i nomi dei soliti noti). Casomai può essere considerato un epigono, più motivato e preciso dal punto di vista generazionale, degli sporadici tentativi anni Ottanta (decennio che è un evidente punto di riferimento dello script firmato da Nicola Guaglianone e dal fumettista e sceneggiatore Menotti alias Roberto Marchionni) di riproporre il noir notturno (chissà perché tornano in mente titoli come Anche lei fumava il sigaro e Snack Bar Budapest). Viene inoltre, e infine, da chiedersi se sia davvero il caso di sacralizzare e rilanciare i generi (che si tratti dell'horror, della commedia e quant'altro) e tutta una mitologia legata alla figura dell'eroe in una cinematografia asfittica e livellata verso il basso come la nostra invece di cercare strade meno battute. Precisato tutto ciò, i pregi di Lo chiamavano Jeeg Robot sono evidenti (e, ribadiamo, fin troppo studiati). Innanzitutto regge il grande schermo come raramente è accaduto a un film italiano nell'ultimo decennio. Partendo da un'idea originale solo  alle nostre latitudini (ricordiamo almeno The Toxic Avenger, film americano del 1984), Mainetti costruisce un'opera prima curiosa, non priva di ingenuità e momenti kitsch (l'uso di certe canzoni) ma decisamente interessante soprattutto per l'equilibrio quasi perfetto che riesce a trovare tra le scene violente e quelle sentimentali e struggenti (d'altra parte dalle nostre parti il melò lo cacci  dalla porta e rientra dalla finestra), incentrate sul rapporto tra Enzo e Alessia. Che, tra l'altro, risultano le più efficaci. Non solo i due personaggi sono ben disegnati ma, soprattutto, la loro relazione sottende un senso che va oltre la semplice narrazione. Infatti è attraverso lo sguardo della ragazza (e dello spettatore che ha bisogno di supereroi?) che Enzo prende coscienza e comincia a usare i suoi poteri per compiere buone azioni. Se le sequenze più complesse sono risolte con una perizia davvero insolita, basta vedere quella ambientata nello Stadio Olimpico durante il derby Roma-Lazio, anche la scelta delle facce e la direzione degli attori risultano d'alto profilo. Così che Claudio Santamaria e Luca Marinelli possono fornire un'interpretazione degna della loro fama. La vera sorpresa però è rappresentata dalla strepitosa Ilenia Pastorelli, magnetica anche quando si mangia le parole. Speriamo che registi e produttori (non solo italiani) sappiano valorizzarla come merita.
  
a cura di Roberto Frini