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City Of God di Fernando Meirelles


Tratto dal romanzo di Paulo Lins, City Of God  racconta la storia della favela “Cidade de Deus” alla periferia di Rio de Janeiro, dagli anni ’60 agli anni ’80. Da una parte il lento e inesorabile decadere di un quartiere negli abissi della violenza e della corruzione, dall’altra il progressivo affermarsi della banda del folle Zè Pequeno, per il controllo della droga e delle armi in tutta la zona.
Il giovane e tranquillo Buscapè cresce in questo inferno coltivando la sua passione per la fotografia, documentando le fasi della decadenza del quartiere attraverso la sua testimonianza. E’ sua la voce fuori campo, infatti, che accompagna tutto il film e che descrive con calma e naturalezza la spaventosa serie di orrori che si presentano nel corso di tutta la vicenda.
  
Miglior montaggio ai Bafta Awards 2003 a Daniel Rezende e altre nominations (tra cui “Miglior film straniero” e “Miglior regista” a Fernando Meirelles) agli Academy Awards 2004.
City Of God è senz’altro un film brillante, reso ancora più avvincente dal taglio documentaristico che lo contraddistingue, con una presenza notevole della macchina a mano che si lascia andare a zoommate violente alla Von Trier. D’altronde la vicenda narra di fatti realmente accaduti e la prova di ciò è l’intervista a Manu Galinha (il rivale di Zè Pequeno) durante lo scorrere dei titoli di coda. E non potevano mancare gli attori non-professionisti, per dare quel tocco neorealista al tutto (scusate la bestemmia), come se per descrivere al meglio l’orrore fosse necessaria l’imperfezione della performance (tentativo fallito, perché gli attori sono davvero talentuosi). 
  
Eppure, di fronte a cotanto realismo, ci si rende conto che a, farla da protagonista, sono proprio le scelte di montaggio vincitrici del premio sopra  citato. Innanzitutto l’inizio a partire dall’ultima sequenza, la quale però si ripresenta al termine del film (una specie di medias res riproposto). Presenza di flash back, che diventano dei veri e propri percorsi alternativi all’interno della trama principale e che sono ulteriormente sottolineati dall’uso sapiente della fotografia (toni più caldi per i ricordi; toni più freddi per le scene violente ambientate nel “presente”).  E infine la magistrale capacità, in questo film, nel considerare  il montaggio  come linguaggio fatto con le immagini. Se a parlare, infatti, sono la violenza e la degradazione, il regista traduce queste caratteristiche con un linguaggio visivo nevrotico, violento, con movimenti di macchina a schiaffo che sembrano trascinare lo spettatore per i capelli ora di qua, ora di là.
  
La violenza, innanzitutto. Perché al di là della storia di Buscapè che sogna di diventare un fotografo professionista; al di là della vicenda di Zè Pequeno che diventa il re della favela, allontanando da sé tutti i suoi amici e attirando una quantità d’odio assolutamente spaventosa; al di là della vicenda di Manu Galinha che da vittima diventa carnefice senza pietà, ad una velocità impressionante. Al di là di tutto ciò c’è sempre un elemento che rimane centrale, fisso, assolutamente incancellabile: la violenza. Perché questa non è solo la storia del degrado di un quartiere, ma è l’analisi impietosa di come la violenza non solo riesca ad intaccare la società umana, ma anche di come riesca a generare mondi alternativi in cui lei stessa è la legge; mondi in cui non fa impressione vedere dei bambini con le pistole in mano che si mettono a sparare alla gente come se niente fosse; mondi in cui il detto “oggi a te, domani a me” diventa un tarlo che non fa dormire la notte e che spinge anche i più onesti a trasformarsi in assassini per non soccombere. E Meirelles descrive tutto ciò in maniera pulita, fredda, senza troppa enfasi nell’illustrare il circolo vizioso in cui tutti i protagonisti entrano,  e da cui non tentano nemmeno di uscire. Perché tanto a vincere è sempre lei, la stessa violenza che nasce come se niente fosse e che investe tutto e tutti con una semplicità disarmante. E l’ultima scena è davvero la più emblematica nel descrivere tutto ciò.

Giudizio: ottimo. 

a cura di Giorgio Mazzola