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Transformers di Michael Bay

La terribile guerra tra gli Autobots e i Decepticons si sposta dal pianeta Cybertron al pianeta Terra, a causa della caduta del cubo di Energon (un gigantesco cubo che può infondere la vita ai robots) dallo spazio al Polo Nord. Viene qui ritrovato, alla fine dell’ ‘800, dall’esploratore Witwicky, il quale viene a contatto anche con il capo dei malvagi Decepticons,  Megatron.
Si passa ai giorni nostri. Una base militare americana in Medio Oriente viene attaccata da dei veicoli da guerra in grado di trasformarsi in giganteschi robots antropomorfi. Il ministero della difesa è in allarme.
Intanto Sam, un ragazzino sfigatello del liceo, compra con l’aiuto del padre la sua prima automobile da un rivenditore di auto usate. Ben presto si accorgerà che quella non è una semplice auto da corsa sgangherata, bensì un Autobot giunto sulla Terra prima dei suoi compagni. Ben presto, infatti, arriveranno tutti gli alieni “buoni” capeggiati da Optimus Prime, con lo scopo di incontrare proprio il giovane Sam Witwicky, pro-pro nipote dell’esploratore che trovò Megatron. Il giovane custodisce un oggetto ereditato dal lontano parente che consentirebbe agli Autobots di sconfiggere per sempre i malvagi Decepticons, evitando così anche l’estinzione degli umani, abitanti di un pianeta divenuto il teatro di una guerra “civile” tra esseri alieni.
  
Di fronte ad un film del genere mi trovo costretto a dividere in due parti la mia personalità.
  
Giudizio razionale:  regia di Michael Bay (Armageddon, Pearl Harbor, The Island),  grande amico di effetti speciali e storie epiche. E anche qui rimane fedele a se stesso, mettendo in scena un fantascientifico quasi-disaster movie come solo il miglior Roland Emmerich (Stargate, Indipendence Day) avrebbe saputo fare. Pellicola imponente, ritmo intenso ed effetti speciali grandiosi: Bay non sembra aver sbagliato nulla, non ci sono sbavature, né cali di tensione e, scusate la terminologia banale, i robot sembrano proprio veri. Peccato i pregi siano solo questi. 

Per il resto credo che, per tutti i 140 minuti, si assista  ad un uno dei film con la maggior presenza di stereotipi mai visti prima d’ora. A cominciare proprio da quelli “Emmerichiani”: alieni dallo spazio; invasioni catastrofiche; coinvolgimento dei vertici governativi americani (che si scoprono sempre essere dei delinquenti, ma in fondo dei simpaticoni - dato che sono pur sempre americani…); partecipazione involontaria di un civile imbranato, ma con quel “qualcosa” che lo rende speciale; il capo dei militari coraggiosissimo e con famiglia a carico. Ma non ci si ferma qua: dove lo mettiamo lo studentello sfigato (con i genitori strampalati) che sogna di conquistare la più bella della scuola (e che forse ci riesce)? E che dire di quella profonda amicizia che si instaura tra il giovane terrestre e l’alieno buono (il quale poi viene trattato male dagli stupidi e cattivi umani- con tanto di scena al ralenti e musica struggente)? C’è un certo retrogusto di E.T. (e guarda caso Spielberg è produttore), ma anche riferimenti espliciti a Il gigante di ferro (Brad Bird, 1999) in particolare quando Sam viene salvato dalla “manona” Optimus Prime (ma cosa ci andava a chiamarlo Commander, come qualsiasi italiano si aspettava?)  in una delle innumerevoli scene d’azione. E poi quella insopportabile e onnipresente ironia di bassa lega elevata qui all’ennesima potenza e ossessivamente rimarcata da situazioni e dialoghi che neanche il peggiore John Spartan (Stallone in Demolition Man, 1993) avrebbe potuto sfoderare. E per ultimo, ma solo perché voglio fermarmi, quel gusto tutto americano di tingere col manicheismo anche la più banale delle storie (è impressionante quanto siano cattivi e vuoti i Decepticons); e mai che il governo americano manchi di schierarsi con i buoni (ma forse qui sto un po’ esagerando…). Forse ho il dente avvelenato per aver visto John Turturro ridotto ad un pagliaccio, recitando in una parte che cancella tutte le sue ottime performance degli ultimi 10 anni.
 
Giudizio affettivo: sono nato nel “lontano” 1983 e, oltre ad essere stato investito dallo tsunami degli anime giapponesi (non quello disordinato degli anni ’70, ma quello pianificato e consapevole del decennio successivo) ho assistito anche alla nascita di prodotti nati dalla collaborazione del genio rivoluzionario nipponico e quello un po’ più bacchettone americano. I Transformers fanno parte di quest’ ultimo gruppo. La cosa certa è che quand’ero bambino andavo in estasi guardando automobili ed elicotteri che improvvisamente mutavano forma divenendo dei robottoni con armi straordinarie (e qui devo  complimentarmi con Bay per aver recuperato l’esatto suono metallico che accompagnava le trasformazioni dei protagonisti). E ovviamente anch’io ho giocato con qualsiasi giocattolo nato all’indomani della serie a cartoni, versando lacrime amare perché Commander costava troppo e quindi sarebbe rimasto sempre e solo un semplice desiderio d’acquisto irrealizzabile. Di fronte a premesse di questo tipo non posso far altro che ringraziare Michael Bay e la Dreamworks per aver portato a compimento un’opera che avrà sicuramente risvegliato il bambino nascosto in molti di noi e che avrà tenuto col fiato sospeso anche i meno influenzabili. Andando contro le mie stesse parole devo dire che è bello, ogni tanto, assistere alla lotta tra i buoni e cattivi, con i cattivi che perdono perché se lo meritano e con i buoni che vincono (e che magari poi non se ne vanno mai via). E devo ammettere che mi è venuta la pelle d’oca nel vedere l’alieno anonimo che prendeva le fattezze del mitico (e un po’ tamarro) TIR rosso e blu, diventando il grande Commander (Optimus Prime mi viene difficile). Se alle ragioni del cuore, poi, uniamo un neutrale apprezzamento per quella che forse è una delle vette della storia del cinema per quanto riguarda gli effetti speciali, il giudizio per questo film non può che essere positivo.  Peccato solo che ci sia carenza di campi lunghi: i robot sono  inquadrati, a mio parere, quasi sempre troppo da vicino, facendo perdere un po’ la visione d’insieme e generando nel contempo una  sorta di confusione affannosa (il tutto acutizzato dal fatto che le scene d’azione sono tutte riprese con la macchina a mano, un clichè a cui ormai nessuno rinuncia perché dà quel senso di realtà, a mo’ di reportage di guerra – vedi Salvate il soldato Ryan, The Blair Witch Project, 24 e simili – difficilmente riproducibile con altri espedienti tecnici).
 
Che lo abbiate odiato o lo abbiate amato, in ogni caso questo film vi avrà in qualche modo colpito (o al cuore o sotto la cintura). E verrà spontaneo lasciarsi trascinare dalla foga dei sentimenti, sia che lo eleviate ad uno dei più bei film degli ultimi anni, sia che lo gettiate nel fango (esattamente le cose che ho fatto in questa recensione).
  
Però i Linkin Park, come sigla per i titoli di coda, potevano anche evitarseli…
 
Giudizio: buono.

a cura di Giorgio Mazzola